2024-03-10
«La poesia fa domande che l’uomo non si pone. Il miracolo più grande restano i miei figli»
Daniele Mencarelli (Getty Images)
Lo scrittore Daniele Mencarelli: «Il pensiero della morte porta a vivere. Io non so se Dio esiste, ma l’amore che ci lega a una madre è vertiginoso».Daniele Mencarelli, dopo i recenti successi dei suoi romanzi, uno dei quali, Tutto chiede salvezza, Premio Strega Giovani 2020, diventato un’amata serie Netflix, torna al primo amore: la poesia. Lo fa con Degli amanti non degli eroi (Mondadori, 2024), con due poemetti in versi: Storia d’amore e Lux hotel. Nel primo mette in luce l’amore incarnato dal personaggio di Anna, in cui convivono sua madre, Anna Maria, e sua figlia, Viola: «Guardarti è domandare/ arriverò un giorno non lontano/ al significato del tuo corpo/cosa ci faccia davvero al mondo/ perché la nuda bellezza che sei/ metta il cuore sempre in viaggio/verso un dove senza nome[...]», l’amore supremo, poiché «nessuno nasce increato», sostiene il poeta-scrittore.Cominciamo dalla fine. Ha ringraziato tutti poeti che hanno in comune la morte per suicidio: Cesare Pavese, Vladimir Majakovskij, Amelia Rosselli, Sylvia Plath, Remo Pagnanelli, Beppe Salvia, Simone Cattaneo. Perché? «La poesia fa domande che l’uomo non si pone, spesso estenuanti, senza risposta. Quei ringraziamenti a quei poeti, che in parte ho conosciuto, soprattutto Simone Cattaneo, sono un modo per ricordare che la poesia chiede tutto. Il bello è che nei momenti in cui riesce, in cui trovi la parola che cercavi, ti sa risarcire in modo altrettanto straordinario. In un periodo in cui sento ripetere che la letteratura è intrattenimento, ho voluto ricordare poeti e poetesse che con la letteratura non hanno giocato, ma hanno vissuto, sofferto, scritto e dato fine volontariamente alla loro vita».Si sente un sopravvissuto? «Il pensiero della morte porta a vivere. Il Novecento e la modernità hanno permesso a molti individui, che non avrebbero potuto, di accedere alle lettere attraverso la vitalità che, come diceva Pasolini, sa essere disperata in certi momenti, in altri insperata, in altri viva e felice, ma che ogni tanto tocca il buio. Io quei momenti di buio li ho avuti e li ho ancora, momenti in cui prevale la visione del mondo più nichilista e che mi mettono in ginocchio».Torna alla poesia per questo? «Sì e anche per confutare il pensiero, dettato dal mercato, che il poeta non può essere narratore. Basterebbe guardare la Storia: Shakespeare, Pasolini, Pavese. Ho voluto offrire non un libro classico di poesie, ma due storie in versi proprio per affermare, con i miei mezzi, che la letteratura è piena di straordinari esempi di poeti che erano anche narratori».Ho letto che Storia d’amore è il suo prediletto. «Contiene in nuce molto dei miei romanzi. Sa che sta tornando di moda il corredo funebre? Nei feretri dei nostri cari mettiamo oggetti che li accompagnino. Io sceglierei Storia d’amore».Perché? «Mette assieme le due donne e spiega anche quale amore, per me, prevalga su ogni altro, che ho amato e amo di più: mia madre e mia figlia. Anna, la protagonista femminile, ha la prima parte del nome di mia madre, Anna Maria. Ma la seconda parte della storia, quando Gabriele vede nel corpo di Anna un varco, è la metafora della mia meravigliosa esperienza di avere avuto in dono una figlia femmina, che mi ha presentato il corpo femminile in una chiave totalmente diversa: senza erotismo, demaschilizzato. Per i primi cinque anni della vita di mia figlia quegli interrogativi mi assillavano: quando Gabriele dice “Guardarti e domandare”. Quando la guardavo così piccola mi dicevo: grazie, ma chi ringrazio per quanto sei bella? Da quando scrivo, ciò che mi ha infiammato è stato l’amore generativo, perché il rapporto che ci lega ai genitori e loro a noi crea un presupposto che nessuno ricorda mai quando si pone le grandi domande. Spesso ci chiediamo se esista o meno Dio, se l’amore sia un varco verso l’altrove. Però l’amore che ci lega soprattutto a nostra madre, è vertiginoso nella sua “normalità”: nessuno nasce increato. Non c’è niente di più significativo. Un fatto cui spesso mi aggrappo da naufrago. Nessuno può mostrarci Dio. Però tutti siamo stati dentro a un ventre ed è per me un’ancora di salvezza».Crede nei miracoli? «Giorgio Caproni quando dà voce al preticello laido, in Lamento o boria del preticello deriso, dice: “Non prego perché Dio esiste ma come uso soffrire io perché Dio esista” passa cioè da un indicativo a un congiuntivo. Il momento in cui ho dato più vita al desiderio del miracolo è stato per i miei figli, perché Viola è nata dopo un periodo difficile, ma poi con lei è arrivato un momento di grazia. La poesia nasce per due motivi: testimoniare e ringraziare». Come mai hai dedicato il libro alla poetessa Giovanna Sicari? «Oggi i maestri si pagano. Nel Novecento i maestri sceglievano i propri allievi sulla base di una preferenza umana, di un talento che sentivano di sfruttare. Per me Giovanna Sicari è stata una maestra, una sorella. Proveniva, come me, da un ceto popolare. Ha vissuto per la poesia fino all’ultimo respiro. Mi sono ritrovato assieme alla poeta Antonella Anedda quando Giovanna era spirata da pochi minuti. Ebbene, Giovanna ha desiderato, più ancora che la vita, di vedere il suo ultimo libro stampato e, grazie all’editore Jaca Book, lo vide. Lei è stata una maestra incredibilmente disponibile nonostante la sofferenza fisica. Sino all’ultimo è stata poeta, artista nel senso più grande del termine. Si è fatta trascinare da una tecnica, stando dentro a una disciplina che l’aveva rapita. L’ho vista scrivere e cadeva in una sorta di trance. Per me è stato un incontro che un giorno spero di riannodare. Io che mi definisco aspirante credente e progressista tragico».Dunque, che cos’è la poesia? «La poesia è questo fatto che ti ho appena raccontato. Tra vita e morte, è una disciplina che non sceglie quale sia prima e quale seconda. È la parola che apparentemente non ti chiede nessuno, ma che tu senti di dover lasciare al mondo».Che cosa lega i due poemetti? «Da una parte volevo raccontare l’adolescenza, fatta di cose estreme ma comandate dai sentimenti, da un’idea di bene. Dall’altra, una storia di adulti brutali in cui, però, il gesto eroico finale contraddice l’eroismo della propaganda, quello che racconta il mondo di sé. Il concierge dice: dovete continuare a vivere perché a mio nipote serve la vostra storia. In questo “servire” c’è il bisogno dell’uomo, anche per chi non è religioso, di credere in qualcosa che spesso non è la verità».Avverte uno scollamento tra la realtà e la menzogna ? «Siamo animali soggetti a narrazioni altrui più che animali che vivono la loro piccola realtà per come si faceva nell’era analogica. Ciò ha aumentato le propagande. Un tempo si aveva un grande pudore rispetto all’esibizione della ricchezza materiale. Basta guardare un video di un trapper italiano o americano. Sono forme di propaganda, che allontanano l’uomo da sé stesso, perché guardare sé stessi è faticoso. Oggi di più a causa delle mille vie di fuga da analfabeti esistenziali. Come diceva il poeta Camillo Sbarbaro, il vero problema dell’uomo è il dolore ma il problema più grande è la consuetudine, quella che a un certo punto ti fa venire nostalgia persino del dolore».