Ospite al Letterature Festival Internazionale di Roma, Paul Lynch, vincitore del Booker Prize con il suo ultimo romanzo Il canto del profeta (66Thand2nd, trad. Riccardo Duranti), racconta di una Dublino assediata da un regime autoritario, e lo fa attraverso periodi lunghi e poetici, in cui la protagonista su tutti è Eilish, biologa, moglie di Larry, sequestrato dalle autorità senza un vero motivo, e madre di quattro figli.
Realtà è una parola ricorrente nel suo romanzo. Quale o quali realtà vivono Eilish, la sua famiglia e i cittadini?
«Il problema con la realtà è molto complicato, perché Eilish è in un labirinto. La mia visione è quella delle tragedie greche: siamo circondati dai fati, circondati da qualcosa di invisibile che non possiamo controllare. In questo momento storico viviamo in un mondo in cui l’accordo su cosa sia la realtà si è rotto. Eilish, e chiunque sia cresciuto in una democrazia liberale, crede che quello che è stato continuerà a essere. Non vuole accettare quello che sta accadendo. La sua mentalità le fa credere che il buonsenso prevarrà, che non permetteranno a quello che sta succedendo di precipitare ancora di più. Ma tutto questo ha un suo movimento, non può essere fermato. Esiste una realtà metafisica che inghiotte tutte le altre realtà. Però è un discorso complicato perché si finisce a parlare di cosa siano il bene e il male, e ora non ne voglio discutere. C’è una realtà oggettiva che soprassiede a tutte le altre. L’individuo moderno non può vivere sotto l’oppressione a lungo. Per chi come noi ha vissuto con certi diritti, togliere quelle libertà, togliere quei diritti porterà alla rivolta. È inevitabile, ma sono solo uno scrittore».
Che cos’è la visione metafisica cui ha accennato?
«Dobbiamo usare uno sguardo moderno quando parliamo di metafisica. Viviamo immersi in forze invisibili: le forze del mercato, le forze geopolitiche, che mi interessano perché nella mia narrativa mi stimola la dicotomia fra l’individuo che ha bisogno della sua dignità, che soffre e ha bisogno di dare un senso a questa sofferenza, e il mondo intorno a noi che è silente, tace, al quale non importa niente. Basti pensare a ciò che è successo col Covid. Non eravamo più individui, eravamo rinchiusi nelle nostre case. Le forze invisibili c’hanno rinchiuso. Eilish e la sua famiglia e la sua comunità vengono sballottati da queste forze. Sono problemi antichi, non sono forze soprannaturali, hanno a che vedere col libero arbitrio. Mi interessa il problema della conoscenza, perché tutti attraversiamo la vita con un fiammifero in mano nel vasto mare del sapere. Nell’oscurità possiamo illuminare molto poco. La mia protagonista prende decisioni convinta di sapere cosa accadrà e alla fine raccoglie conseguenze che non poteva prevedere».
Eilish spera?
«Certo. Il libro non risolve nulla. Come il dolore per una perdita non risolve nulla. Il mio romanzo è sul dolore della perdita che comincia con i tuoi familiari ma finisce con la tua casa, con il mondo che conoscevi. Il mondo moderno che abbiamo costruito è fatto di una patina molto sottile che se venisse meno perderemmo tutto. Il canto del profeta viene visto in due modi diversi. In Occidente come un campanello d’allarme, mentre c’è un’altra fetta di lettori che lo vede come una lente sulla società odierna».
Il suo modo di scrivere mi ha ricordato alcuni poeti come Georg Trakl, in Grodek, o T. S. Eliot ne Gli uomini vuoti: «Gli occhi non sono qui/Qui non vi sono occhi/In questa valle di stelle morenti». Nel suo: «Chi sono queste persone senza i loro occhi e chi sono queste persone con gli occhi accecati verso il loro futuro».
«Gli scrittori che sanno articolare cosa sia la distruzione sono i veri poeti, perché cercano di preservare la bellezza che ci circonda. Il linguaggio poetico è incredibile, perché è l’incantesimo che va a catturare il lettore. Deve però essere un incantesimo moderno: frasi lunghe, questo senso di realtà che si sviluppa davanti al lettore, perché sono convinto che se chiedi al lettore di guardare nell’abisso devi fargli la cortesia di tenerlo per mano, di aiutarlo. Ho pensato a Dante e Virgilio, il poeta che accompagna Dante all’Inferno. Io sono come Virgilio che spiego un po’ di grazia, un po’ di bellezza al lettore mentre gli mostro l’abisso».
Le parole possono influenzare la politica?
«Oggi le persone hanno una percezione distorta della realtà. C’è sempre stato dissenso tra le parti, ma c’è sempre stato fino ad ora consenso su quello che era la realtà. Il dissenso stava in come governare quello che tutti noi concepiamo essere reale. La nostra epistemologia è devastata, distrutta, la gente non è più d’accordo su cosa sia reale ed è molto pericoloso, porta alla distruzione».
Ha paura per il futuro dei suoi figli?
«Sì. Quando stavo scrivendo questo libro ho pensato che fosse destinato a chi non aveva l’immaginazione per capire cosa stava accadendo o a quelli che non hanno più memoria storica. Sembra che io abbia un manifesto politico, ma non è così. Non sono un messaggero, sto solo cercando di articolare il tema del dolore, il dolore della perdita più in generale. Se scrivi con un messaggio riduci la complessità di quello che il romanzo può veramente fare. Penso che il lettore sappia che la chiave politica non è sufficiente per leggere il mio libro e la complessità della realtà. Il lavoro della narrativa è abbracciare tutta la stranezza che la vita ci presenta. Le mie preoccupazioni da cittadino non sono le mie preoccupazioni da scrittore. Sono solo un buon scrittore e un cattivo filosofo».
Le hanno detto che somiglia a Trent Reznor?
«Reznor, Keanu Reeves, Robert Schwartzman».
«La poesia fa domande che l’uomo non si pone. Il miracolo più grande restano i miei figli»
Daniele Mencarelli, dopo i recenti successi dei suoi romanzi, uno dei quali, Tutto chiede salvezza, Premio Strega Giovani 2020, diventato un’amata serie Netflix, torna al primo amore: la poesia. Lo fa con Degli amanti non degli eroi (Mondadori, 2024), con due poemetti in versi: Storia d’amore e Lux hotel. Nel primo mette in luce l’amore incarnato dal personaggio di Anna, in cui convivono sua madre, Anna Maria, e sua figlia, Viola: «Guardarti è domandare/ arriverò un giorno non lontano/ al significato del tuo corpo/cosa ci faccia davvero al mondo/ perché la nuda bellezza che sei/ metta il cuore sempre in viaggio/verso un dove senza nome[...]», l’amore supremo, poiché «nessuno nasce increato», sostiene il poeta-scrittore.
Cominciamo dalla fine. Ha ringraziato tutti poeti che hanno in comune la morte per suicidio: Cesare Pavese, Vladimir Majakovskij, Amelia Rosselli, Sylvia Plath, Remo Pagnanelli, Beppe Salvia, Simone Cattaneo. Perché?
«La poesia fa domande che l’uomo non si pone, spesso estenuanti, senza risposta. Quei ringraziamenti a quei poeti, che in parte ho conosciuto, soprattutto Simone Cattaneo, sono un modo per ricordare che la poesia chiede tutto. Il bello è che nei momenti in cui riesce, in cui trovi la parola che cercavi, ti sa risarcire in modo altrettanto straordinario. In un periodo in cui sento ripetere che la letteratura è intrattenimento, ho voluto ricordare poeti e poetesse che con la letteratura non hanno giocato, ma hanno vissuto, sofferto, scritto e dato fine volontariamente alla loro vita».
Si sente un sopravvissuto?
«Il pensiero della morte porta a vivere. Il Novecento e la modernità hanno permesso a molti individui, che non avrebbero potuto, di accedere alle lettere attraverso la vitalità che, come diceva Pasolini, sa essere disperata in certi momenti, in altri insperata, in altri viva e felice, ma che ogni tanto tocca il buio. Io quei momenti di buio li ho avuti e li ho ancora, momenti in cui prevale la visione del mondo più nichilista e che mi mettono in ginocchio».
Torna alla poesia per questo?
«Sì e anche per confutare il pensiero, dettato dal mercato, che il poeta non può essere narratore. Basterebbe guardare la Storia: Shakespeare, Pasolini, Pavese. Ho voluto offrire non un libro classico di poesie, ma due storie in versi proprio per affermare, con i miei mezzi, che la letteratura è piena di straordinari esempi di poeti che erano anche narratori».
Ho letto che Storia d’amore è il suo prediletto.
«Contiene in nuce molto dei miei romanzi. Sa che sta tornando di moda il corredo funebre? Nei feretri dei nostri cari mettiamo oggetti che li accompagnino. Io sceglierei Storia d’amore».
Perché?
«Mette assieme le due donne e spiega anche quale amore, per me, prevalga su ogni altro, che ho amato e amo di più: mia madre e mia figlia. Anna, la protagonista femminile, ha la prima parte del nome di mia madre, Anna Maria. Ma la seconda parte della storia, quando Gabriele vede nel corpo di Anna un varco, è la metafora della mia meravigliosa esperienza di avere avuto in dono una figlia femmina, che mi ha presentato il corpo femminile in una chiave totalmente diversa: senza erotismo, demaschilizzato. Per i primi cinque anni della vita di mia figlia quegli interrogativi mi assillavano: quando Gabriele dice “Guardarti e domandare”. Quando la guardavo così piccola mi dicevo: grazie, ma chi ringrazio per quanto sei bella? Da quando scrivo, ciò che mi ha infiammato è stato l’amore generativo, perché il rapporto che ci lega ai genitori e loro a noi crea un presupposto che nessuno ricorda mai quando si pone le grandi domande. Spesso ci chiediamo se esista o meno Dio, se l’amore sia un varco verso l’altrove. Però l’amore che ci lega soprattutto a nostra madre, è vertiginoso nella sua “normalità”: nessuno nasce increato. Non c’è niente di più significativo. Un fatto cui spesso mi aggrappo da naufrago. Nessuno può mostrarci Dio. Però tutti siamo stati dentro a un ventre ed è per me un’ancora di salvezza».
Crede nei miracoli?
«Giorgio Caproni quando dà voce al preticello laido, in Lamento o boria del preticello deriso, dice: “Non prego perché Dio esiste ma come uso soffrire io perché Dio esista” passa cioè da un indicativo a un congiuntivo. Il momento in cui ho dato più vita al desiderio del miracolo è stato per i miei figli, perché Viola è nata dopo un periodo difficile, ma poi con lei è arrivato un momento di grazia. La poesia nasce per due motivi: testimoniare e ringraziare».
Come mai hai dedicato il libro alla poetessa Giovanna Sicari?
«Oggi i maestri si pagano. Nel Novecento i maestri sceglievano i propri allievi sulla base di una preferenza umana, di un talento che sentivano di sfruttare. Per me Giovanna Sicari è stata una maestra, una sorella. Proveniva, come me, da un ceto popolare. Ha vissuto per la poesia fino all’ultimo respiro. Mi sono ritrovato assieme alla poeta Antonella Anedda quando Giovanna era spirata da pochi minuti. Ebbene, Giovanna ha desiderato, più ancora che la vita, di vedere il suo ultimo libro stampato e, grazie all’editore Jaca Book, lo vide. Lei è stata una maestra incredibilmente disponibile nonostante la sofferenza fisica. Sino all’ultimo è stata poeta, artista nel senso più grande del termine. Si è fatta trascinare da una tecnica, stando dentro a una disciplina che l’aveva rapita. L’ho vista scrivere e cadeva in una sorta di trance. Per me è stato un incontro che un giorno spero di riannodare. Io che mi definisco aspirante credente e progressista tragico».
Dunque, che cos’è la poesia?
«La poesia è questo fatto che ti ho appena raccontato. Tra vita e morte, è una disciplina che non sceglie quale sia prima e quale seconda. È la parola che apparentemente non ti chiede nessuno, ma che tu senti di dover lasciare al mondo».
Che cosa lega i due poemetti?
«Da una parte volevo raccontare l’adolescenza, fatta di cose estreme ma comandate dai sentimenti, da un’idea di bene. Dall’altra, una storia di adulti brutali in cui, però, il gesto eroico finale contraddice l’eroismo della propaganda, quello che racconta il mondo di sé. Il concierge dice: dovete continuare a vivere perché a mio nipote serve la vostra storia. In questo “servire” c’è il bisogno dell’uomo, anche per chi non è religioso, di credere in qualcosa che spesso non è la verità».
Avverte uno scollamento tra la realtà e la menzogna ?
«Siamo animali soggetti a narrazioni altrui più che animali che vivono la loro piccola realtà per come si faceva nell’era analogica. Ciò ha aumentato le propagande. Un tempo si aveva un grande pudore rispetto all’esibizione della ricchezza materiale. Basta guardare un video di un trapper italiano o americano. Sono forme di propaganda, che allontanano l’uomo da sé stesso, perché guardare sé stessi è faticoso. Oggi di più a causa delle mille vie di fuga da analfabeti esistenziali. Come diceva il poeta Camillo Sbarbaro, il vero problema dell’uomo è il dolore ma il problema più grande è la consuetudine, quella che a un certo punto ti fa venire nostalgia persino del dolore».
Giovanni Canonico, elegante, dall’eloquio forbito, ha 92 anni e da tutta la vita fa l’editore. È il patron delle Edizioni Mediterranee, la casa editrice che si occupa di quelle zone oscure e affascinanti della mente, dell’esoterismo, della parapsicologia, della magia. Atletico, mente lucidissima, lungimirante, ha saputo reggere nel tempo e scoprire alcuni tra i grandi personaggi del Novecento: Julius Evola e Gustavo Rol, tra gli altri, ma le personalità eccezionali che ha conosciuto e pubblicato sono numerose.
Ci racconta la genesi delle Edizioni Mediterranee?
«È stata fondata nel 1925 da Wilhelm Krenn, mio maestro, di nazionalità austriaca, ma laureato a Padova in scienze politiche. Pubblicava libri giuridici e poca ma importante saggistica su temi vari, tra cui una collana di sessuologia e medicina divulgativa; narrativa straniera di lingua tedesca, autori come Theodor Kröger, libri d’arte e monografie artistiche; libri per bambini».
Come nasce la sua carriera di editore, divenuta poi così solida e longeva?
«Arrivai nel 1950 alla Casa Editrice Mediterranea a soli 18 anni, inizialmente solo per uno stage estivo, che non è ancora terminato dopo ben 73 anni. Uno stage paragonabile solo a una laurea, o addirittura a un master, anzi direi a un dottorato».
Si impara la professione di editore?
«I primi anni sono stati di formazione e pratica sul campo, anche grazie alla fiducia e stima accordatami da subito dal dottor Krenn, cui mi lega un debito di riconoscenza infinito. La sua figura carismatica, la sua conoscenza dell’editoria mondiale, il suo fiuto e il grosso calibro intellettuale sono stati per me elementi chiave che hanno orientato e indirizzato la mia vita verso quella che ora riconosco come una vocazione innata, all’inizio sconosciuta anche a me stesso, ma che il ruolo del maestro Krenn ha saputo risvegliare fino a esprimersi in totale pienezza».
La casa editrice, dopo qualche anno dal suo arrivo, cambia, grazie a lei.
«Già a metà anni Cinquanta, mi era stata accordata un’autonomia di gestione che mi permise - seppure mantenendone la coerenza di fondo - di allargare i vecchi orientamenti della casa editrice, ampliandone lo spettro fino ad includere tematiche per quei tempi innovative, quasi inedite. Come alchimia, arti marziali, astrologia, crescita interiore, esoterismo, filosofie orientali, medicina alternativa, meditazione, parapsicologia, psicologia, spiritualità, sport, yoga e zen».
Ha conosciuto numerose personalità, singolari e straordinarie, ce ne vuole raccontare qualcuna?
«Sono persone che senza difficoltà definisco come il motore dialettico delle mie scelte editoriali, perché si tratta di maestri che non hanno solo trasmesso visione, senso, significato, conoscenza, passione e direzione, ma che hanno saputo alimentare costantemente il mio desiderio di sapere e di condividere. L’intensità di un tale tipo di dialogo, con interlocutori del calibro di Julius Evola o Massimo Scaligero, ha generato infatti non solo amicizia ma anche responsabilità, educazione e cultura in una miscela vincente, e apparentemente improbabile, fatta appunto di filantropia, paideia, imprenditorialità, comunicazione e successi editoriali».
Lei è stato il primo a pubblicare le opere di Julius Evola e ne ha pubblicato l’opera omnia. Come l’ha conosciuto?
«A Roma c’era una libreria che vendeva i miei libri molto bene, in piazzale Flaminio, sotto uno degli archi che danno su piazza del Popolo. Il libraio mi consigliò un certo Evola. Lessi il libro e chiesi dove poterlo trovare, ma lui sapeva solo che viveva a Roma. Presi l’elenco telefonico e trovai il suo nome e cognome. Chiesi un appuntamento e gli dissi che ero intenzionato a pubblicare i suoi libri. All’incontro mi rispose subito che vendeva poco, se ne stampavano al massimo 1.000 copie, se vendevano 500 l’anno. Non si trovavano più le sue opere. Gli feci un contratto per 3.000 copie. Avevo una grande distribuzione in tutta Italia, vendemmo moltissimo, Evola non ci credeva. A un certo punto volli pubblicare anche il Gruppo di Ur, Introduzione alla magia, tre volumi. Evola mi disse: “Questo segnerà la fine della sua casa editrice”. Sono ancora qui».
Che ruolo ha avuto a suo avviso Evola nella cultura?
«Un contributo poliedrico che spazia dallo spiritualismo e visione del mondo caratterizzata dalla magia e dall’occulto, all’arte d’avanguardia (futurismo e dadaismo), alla filosofia e fino allo studio comparato delle religioni. L’alpinismo come visione dall’alto in senso spirituale: esperienza delle vette come avvicinamento al sé superiore e alle sue potenzialità. Allenamento alla libertà di pensiero e azione. Ne ho pubblicato l’opera omnia, curata da Gianfranco de Turris».
Ci racconta un aneddoto curioso che lo riguarda?
«Evola l’ho frequentato per anni. Andavo a casa sua due volte a settimana. Lavorava disteso su una ottomana, dormiva anche lì quando non si metteva su una seduta molto rigida davanti alla finestra battendo a macchina, la finestra dava su corso Vittorio. Dietro di sé aveva un quadro di dimensioni notevoli. Osservavo sempre questo quadro, rappresentava la montagna. Dopo mesi che lo frequentavo con un certo distacco, non parlavamo mai di politica, ma di esoterismo e di traduzioni, gli dissi se il quadro rappresentasse il monte Breithorn. Evola, stupefatto, mi domandò come facessi a saperlo. Breithorn si trova tra la Svizzera e l’Italia e si presenta alla vista come un “panettone di ghiaccio”. La mia risposta fu che era stato il primo monte di 4.000 metri che avevo scalato. Da quel momento il nostro rapporto cambiò radicalmente. Mi accolse come un suo simile, un uomo di montagna. Tra gli uomini della montagna, come quelli del mare vero, vigono delle leggi non scritte che rispettiamo. Aveva un carattere non facile, ma era un grande signore. Molte persone andavano a trovarlo, tranne la domenica. Io, invece, ci andavo, gli portavo i pompelmi rosa che amava moltissimo. Gli piaceva anche il brodo di tartaruga, glielo compravo in via della Croce. Era felicissimo di questi piccoli doni».
Il suo punto di forza in qualità di editore e che cosa l’ha differenziata dagli altri?
«L’intuizione è stata quella di creare strategie editoriali assai più specifiche e orientate di quelle allora esistenti, strategie pensate specificamente per gestire l’interiorità delle persone e tutto quell’insieme di facoltà emotive e di pensiero intangibili, che però influenzano gran parte della nostra vita. In sostanza ho scelto di concentrami su problemi e interrogativi lasciati in parte ancora aperti da esperienze editoriali precedenti. Più che i problemi risolti, mi ha sempre interessato affrontare quelli lasciati aperti. Mi sono così orientato su temi che non avessero ancora compiuto il loro ciclo e ho disegnato modelli editoriali che si configurassero come prosecuzione di ricerche ancora aperte, nel tentativo di conciliare prospettive diverse in una sintesi dialettica che fosse di per sé stessa già superamento del “conosciuto”».
Quali sono stati i criteri con cui ha selezionato e seleziona le opere da pubblicare?
«Attraverso uno scrupoloso inventario dell’eredità ricevuta, mi sono concentrato a identificare problemi irrisolti, interrogativi rimasti ancora senza risposta. Le mie valutazioni e decisioni però non sono mai state una registrazione passiva di temi che erano nell’aria, ma dietro la scelta del repertorio della casa editrice c’è sempre stato un attivo giudizio critico, e la ricorrenza, direi anzi quasi “l’inseguimento” di tematiche - che definirei famiglie spirituali - che ho cercato creativamente di porre in relazione dinamica in temi contigui e trasversali come alchimia, astrologia, crescita interiore, esoterismo, filosofie orientali, medicina alternativa, meditazione, parapsicologia, psicologia, spiritualità, sport, yoga , arti marziali e zen. La conseguenza di questa posizione strategica è stata quella di abbandonare la narrativa come genere letterario e di concentrami invece esclusivamente sul saggio: strumento più agile, più diretto ed efficace. I saggi che ho scelto di pubblicare creano con il lettore un senso di intimità, un sapore di familiarità, superando il tono anonimo e cattedratico dell’Accademia, senza perdere ovviamente di efficacia scientifica».
Dopo tanti anni, può consigliare un antidoto per vincere la crisi dei lettori?
«Credo che la fedeltà di tanti miei lettori si debba al fatto che si rivolgono alle nostre opere con lo stesso spirito con cui si guarda a una guida spirituale laica, con un sentimento di fiducia, di serenità, e la certezza di riceverne un illuminato e arguto giudizio. Quando scelgo un testo da pubblicare, mi assicuro che sia in grado di combinare l’ammaestramento, il diletto, l’affidabilità, tutti indizi che sono in grado di orientare il lettore sulla qualità e il tipo di libro che sta per acquistare, in modo da potersi orientare su una scelta consapevole».




