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2021-06-04
Minorenne testimonial del cambio di sesso
IStock
Ludovica, con le sue pupille guerriere, è un'Atena di 16 anni. Una dea nata dalla mente di Zeus: frutto del solo pensiero e del desiderio di un maschio. Repubblica, finalmente, ha trovato la sua donna di domani, la sua Eva Futura. S'intitola così il romanzo pubblicato nel 1886 dallo scrittore bretone Auguste de Villiers de l'Isle-Adam (lo ha appena ristampato Marsilio). Uno dei protagonisti è lo scienziato Thomas Edison. Nel suo laboratorio egli porta a termine un ambizioso progetto: creare, appunto, una donna. Siamo di nuovo fra gli antichi greci: Edison si rende colpevole di hybris, la tracotanza che fa superare ogni limite, annebbia la mente dell'uomo e gli fa credere d'essere un dio. È la hybris, nota la studiosa Ivana Bartoletti, «di definire una vita femminile solo e semplicemente attraverso il suo creatore maschile».
«A 16 anni ho sconfitto l'odio transfobico», dichiara la nostra Eva Futura. Già, perché Ludovica è nata Luca. «Sono donna da sempre», dice, «da quando ho percezione di me. Anche se la società ha cercato di correggermi». Da qualche tempo, ci informa Repubblica, fa parte «di quell'avanguardia di teenager ammessi al trattamento con i farmaci bloccanti». Parliamo della triptorelina, con cui si producono medicinali capaci di fermare la pubertà: il primo passo del percorso di transizione di genere per i minorenni, che potranno poi modificare definitivamente il proprio sesso una volta divenuti adulti. Ludovica ha iniziato il cambiamento a 14 anni.
Non è la prima uscita mediatica, per lei. Un paio d'anni fa era apparsa sulle pagine patinate di Vanity Fair assieme ad altri minorenni transgender. Ora torna in prima come testimonial contro «l'odio transfobico», ovviamente a sostegno del ddl Zan e delle idee che veicola in materia di identità di genere. Ludovica, tuttavia, è la dimostrazione che di nuove leggi non c'è bisogno. La triptorelina è di fatto liberalizzata, viene somministrata da qualche tempo a carico dello Stato. Il percorso di transizione di genere è permesso e regolato, si svolge all'interno di strutture ospedaliere pubbliche. E benché Ludovica non abbia ancora effettuato la transizione chirurgica, un tribunale le ha concesso di cambiare nome sui documenti. Dove sta, allora, la discriminazione sistemica?
Il fatto è che odio e discriminazioni sono solo una facciata. Ludovica, in realtà, non è testimonial di una lotta contro la violenza, ma di una visione ideologica che punta a normalizzare il cambiamento di sesso, a istituzionalizzare l'autodeterminazione di genere. Se si trattasse di combattere per evitare a Ludovica prese in giro, insulti e sofferenze, saremmo in prima linea, dalla sua parte. Ma qui in gioco c'è ben altro. C'è l'imposizione di quello che gli esperti chiamano «approccio affermativo». L'idea che - qualora un ragazzino o un bambino mostrino di essere confusi o a disagio con il proprio sesso - li si debba aiutare ad «affermarsi», cioè accompagnarli verso la transizione di genere. Certo, può darsi che questa sia stata la scelta giusta per Ludovica. Ma per tanti minori non è affatto così, e il rischio è che - facendosi guidare dall'ideologia - li si spinga su una strada sbagliata e pericolosa, da cui tornare indietro è difficilissimo.
Per rendersi conto che non stiamo esagerando basta soffermarsi un attimo su chi ha accompagnato Ludovica nel suo percorso. Tra le prime a indicarle la via c'è stata Camilla Vivian, autrice del libro Mio figlio in rosa. La Vivian è un'attivista, a suo dire bisogna superare la «logica binaria» poiché esistono i bimbi transgender, gender fluid, di genere non conforme, ibridi, smoothies (cioè frullati: «Prendono alcuni aspetti del genere, li mescolano tra loro e creano una loro personale miscela»), e poi queer, protogay, prototransgender... Un bel delirio burocratico.
La Vivian ha indirizzato Ludovica al Saifip, il centro per le problematiche di gender dell'azienda ospedaliera San Camillo di Roma. Ricordate? Ce ne siamo largamente occupati alcune settimane fa. Sono stati gli esperti del Saifip a elaborare le «linee guida trans» diffuse (e poi ritirate) dall'Ufficio scolastico regionale del Lazio. Alcuni di questi esperti erano in piazza a manifestare per il ddl Zan, e che abbiano un'impostazione ideologica molto precisa non è un mistero. Tra le altre cose, il Saifip si è avvalso della collaborazione di un guru del settore, il professor Domenico Di Ceglie, cioè il fondatore del Gender identity development centre (Gids) della Tavistock Clinic di Londra. Un centro che è ancora coinvolto in procedimenti giudiziari ed è stato accusato (da alcuni ex dipendenti che hanno parlato al Times) di «fare esperimenti» sui minori con varianza di genere.
Di tutto ciò, ovviamente, negli articoli celebrativi sui giornali progressisti non si parla. Non si dice mai che il percorso di transizione è lungo e doloroso. Non si dice che tanti tornano indietro (i cosiddetti «detransitioners»), e che il cambiamento di sesso non è la panacea di ogni problema di identità. No, certo: gli attivisti e i giornalisti loro amici si limitano a spiegare che l'unico guaio è l'odio, basta eliminare quello e si risolve tutto. Il cambiamento di sesso è favoloso, i minori possono decidere di passare da un genere all'altro come desiderano, perché «ne hanno diritto». Eppure alcuni degli Stati che in passato hanno seguito questa via ideologica hanno poi cambiato rotta. Tra questi c'è la Finlandia, tanto celebrata per via del suo governo di «giovani donne». Ebbene, nel giugno dell'anno scorso ha rivisto le linee guida per la disforia di genere, indicando i trattamenti psicologici come preferibili ai farmaci. Al nostro sistema mediatico, però, tutto questo non interessa. Ora deve promuovere il ddl Zan e i diritti trans, puntare verso la nuova frontiera. E così, un passetto alla volta, l'approccio affermativo diviene l'unico possibile, l'unico ammesso se non si vuole essere accusati di odiare e discriminare.
Nel romanzo di Villiers dell'Isle-Adam, la «donna artificiale» viene creata da Edison a Menlo Park. In quel luogo, oggi, ha sede Facebook. E lì, insomma, che si trova il Potere che produce il discorso dominante. Un Potere che combatte la differenza (anche dei sessi) per imporre la neutralità. Un Potere che ordina: Eva Futura deve trionfare.
Un liceo di Padova prova ad anticipare la legge Zan sull’«identità di genere»
L'«identità di genere», contenuta nel ddl Zan, non è ancora legge ma c'è chi, in ambito scolastico, si prende già avanti. È il caso del liceo scientifico Alvise Cornaro di Padova che, dal prossimo anno scolastico, il 2021-2022, includerà nei registri scolastici la dicitura «alias». In questo modo, gli studenti impegnati nell'iter psicologico, medico e ormonale di riassegnazione potranno da subito essere identificati con il nome da loro scelto in vista della fine della transizione, a cioè «cambio di sesso» ultimato. Tale nuova identificazione, secondo il regolamento messo a punto dall'Udu (Unione degli studenti universitari), sarà globale sul piano didattico, nel senso che, oltre che per i registri scolastici, varrà pure per la posta elettronica e, va da sé, per le pagelle. Una vera e propria rivoluzione, insomma, che a ben vedere sa a suo modo di riscatto dopo che, sempre a Padova ma in un'altra scuola, il liceo classico Tito Livio, lo scorso ottobre a un giovane era stato impedito di candidarsi rappresentante d'istituto con l'identità trans. Il preside allora si oppose e fu, prevedibilmente, polemica.
Stavolta, invece, a fare notizia è una svolta di tenore opposto che, benché presentata all'insegna dell'inclusione, sta già sollevando più d'una criticità. Assai perplessa, ad esempio, è l'assessore regionale all'Istruzione Elena Donazzan. «Mi sembra tanto un'iniziativa propagandistica», ha dichiarato Donazzan, «l'ennesima battaglia ideologica sulla scuola che invece avrebbe bisogno di risolvere altri problemi. La popolazione studentesca è fatta di una maggioranza di persone che se ne sta silenziosa mentre viene prevaricata quotidianamente da una minoranza ideologica», ha aggiunto l'assessore della giunta Zaia, rimarcando una posizione dalla quale è difficile dissentire.
Infatti, se da un lato l'iniziativa dell'istituto padovano è pionieristica, dall'altro ci sono fior di nazioni che proprio sull'«identità di genere» come basata sulla mera percezione di sé, e per di più tra i giovani, stanno facendo bruschi dietrofront. Si pensi al Regno Unito, dove lo scorso novembre il governo ha messo una pietra tombale sulla riforma del Gender recognition Act, che chiedeva l'inclusione, appunto, del «self-id» o autocertificazione di genere, e dove i giudici, pronunciandosi sul caso di Keira Bell - giovane che vive con il rimpianto d'aver scelto di «passare» al genere maschile da adolescente -, hanno stabilito che i ragazzi sotto i 16 anni con disforia di genere non possono dare un pieno consenso informato al trattamento con bloccanti della pubertà, ordinando ai medici di chiedere l'approvazione del tribunale prima di trattare con una terapia medica qualsiasi minorenne con disforia di genere.
Idem in Svezia, dove il Karolinska Institutet ha deciso che ai minori di 16 anni con disforia di genere non saranno somministrati soppressori della pubertà e ormoni sessuali specifici del sesso desiderato. Invece già dal giugno 2020 in Finlandia sono state riviste le linee guida nazionali per preferire il trattamento psicologico a quello farmacologico. Insomma, l'«identità di genere» giovanile convince sempre meno i Paesi che per primi l'hanno riconosciuta.
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«Repubblica» enfatizza la storia di Luca diventato a 16 anni Ludovica per denunciare una «discriminazione sistemica» che invece non esiste. La «transizione» sarebbe la nuova normalità, anche se numerosi Paesi stanno già rinnegando le leggi che la favoriscono.Da settembre gli studenti in fase di riassegnazione potranno essere iscritti nei registri con il nome che stanno per prendere.Lo speciale contiene due articoli. Ludovica, con le sue pupille guerriere, è un'Atena di 16 anni. Una dea nata dalla mente di Zeus: frutto del solo pensiero e del desiderio di un maschio. Repubblica, finalmente, ha trovato la sua donna di domani, la sua Eva Futura. S'intitola così il romanzo pubblicato nel 1886 dallo scrittore bretone Auguste de Villiers de l'Isle-Adam (lo ha appena ristampato Marsilio). Uno dei protagonisti è lo scienziato Thomas Edison. Nel suo laboratorio egli porta a termine un ambizioso progetto: creare, appunto, una donna. Siamo di nuovo fra gli antichi greci: Edison si rende colpevole di hybris, la tracotanza che fa superare ogni limite, annebbia la mente dell'uomo e gli fa credere d'essere un dio. È la hybris, nota la studiosa Ivana Bartoletti, «di definire una vita femminile solo e semplicemente attraverso il suo creatore maschile». «A 16 anni ho sconfitto l'odio transfobico», dichiara la nostra Eva Futura. Già, perché Ludovica è nata Luca. «Sono donna da sempre», dice, «da quando ho percezione di me. Anche se la società ha cercato di correggermi». Da qualche tempo, ci informa Repubblica, fa parte «di quell'avanguardia di teenager ammessi al trattamento con i farmaci bloccanti». Parliamo della triptorelina, con cui si producono medicinali capaci di fermare la pubertà: il primo passo del percorso di transizione di genere per i minorenni, che potranno poi modificare definitivamente il proprio sesso una volta divenuti adulti. Ludovica ha iniziato il cambiamento a 14 anni. Non è la prima uscita mediatica, per lei. Un paio d'anni fa era apparsa sulle pagine patinate di Vanity Fair assieme ad altri minorenni transgender. Ora torna in prima come testimonial contro «l'odio transfobico», ovviamente a sostegno del ddl Zan e delle idee che veicola in materia di identità di genere. Ludovica, tuttavia, è la dimostrazione che di nuove leggi non c'è bisogno. La triptorelina è di fatto liberalizzata, viene somministrata da qualche tempo a carico dello Stato. Il percorso di transizione di genere è permesso e regolato, si svolge all'interno di strutture ospedaliere pubbliche. E benché Ludovica non abbia ancora effettuato la transizione chirurgica, un tribunale le ha concesso di cambiare nome sui documenti. Dove sta, allora, la discriminazione sistemica? Il fatto è che odio e discriminazioni sono solo una facciata. Ludovica, in realtà, non è testimonial di una lotta contro la violenza, ma di una visione ideologica che punta a normalizzare il cambiamento di sesso, a istituzionalizzare l'autodeterminazione di genere. Se si trattasse di combattere per evitare a Ludovica prese in giro, insulti e sofferenze, saremmo in prima linea, dalla sua parte. Ma qui in gioco c'è ben altro. C'è l'imposizione di quello che gli esperti chiamano «approccio affermativo». L'idea che - qualora un ragazzino o un bambino mostrino di essere confusi o a disagio con il proprio sesso - li si debba aiutare ad «affermarsi», cioè accompagnarli verso la transizione di genere. Certo, può darsi che questa sia stata la scelta giusta per Ludovica. Ma per tanti minori non è affatto così, e il rischio è che - facendosi guidare dall'ideologia - li si spinga su una strada sbagliata e pericolosa, da cui tornare indietro è difficilissimo. Per rendersi conto che non stiamo esagerando basta soffermarsi un attimo su chi ha accompagnato Ludovica nel suo percorso. Tra le prime a indicarle la via c'è stata Camilla Vivian, autrice del libro Mio figlio in rosa. La Vivian è un'attivista, a suo dire bisogna superare la «logica binaria» poiché esistono i bimbi transgender, gender fluid, di genere non conforme, ibridi, smoothies (cioè frullati: «Prendono alcuni aspetti del genere, li mescolano tra loro e creano una loro personale miscela»), e poi queer, protogay, prototransgender... Un bel delirio burocratico. La Vivian ha indirizzato Ludovica al Saifip, il centro per le problematiche di gender dell'azienda ospedaliera San Camillo di Roma. Ricordate? Ce ne siamo largamente occupati alcune settimane fa. Sono stati gli esperti del Saifip a elaborare le «linee guida trans» diffuse (e poi ritirate) dall'Ufficio scolastico regionale del Lazio. Alcuni di questi esperti erano in piazza a manifestare per il ddl Zan, e che abbiano un'impostazione ideologica molto precisa non è un mistero. Tra le altre cose, il Saifip si è avvalso della collaborazione di un guru del settore, il professor Domenico Di Ceglie, cioè il fondatore del Gender identity development centre (Gids) della Tavistock Clinic di Londra. Un centro che è ancora coinvolto in procedimenti giudiziari ed è stato accusato (da alcuni ex dipendenti che hanno parlato al Times) di «fare esperimenti» sui minori con varianza di genere. Di tutto ciò, ovviamente, negli articoli celebrativi sui giornali progressisti non si parla. Non si dice mai che il percorso di transizione è lungo e doloroso. Non si dice che tanti tornano indietro (i cosiddetti «detransitioners»), e che il cambiamento di sesso non è la panacea di ogni problema di identità. No, certo: gli attivisti e i giornalisti loro amici si limitano a spiegare che l'unico guaio è l'odio, basta eliminare quello e si risolve tutto. Il cambiamento di sesso è favoloso, i minori possono decidere di passare da un genere all'altro come desiderano, perché «ne hanno diritto». Eppure alcuni degli Stati che in passato hanno seguito questa via ideologica hanno poi cambiato rotta. Tra questi c'è la Finlandia, tanto celebrata per via del suo governo di «giovani donne». Ebbene, nel giugno dell'anno scorso ha rivisto le linee guida per la disforia di genere, indicando i trattamenti psicologici come preferibili ai farmaci. Al nostro sistema mediatico, però, tutto questo non interessa. Ora deve promuovere il ddl Zan e i diritti trans, puntare verso la nuova frontiera. E così, un passetto alla volta, l'approccio affermativo diviene l'unico possibile, l'unico ammesso se non si vuole essere accusati di odiare e discriminare. Nel romanzo di Villiers dell'Isle-Adam, la «donna artificiale» viene creata da Edison a Menlo Park. In quel luogo, oggi, ha sede Facebook. E lì, insomma, che si trova il Potere che produce il discorso dominante. Un Potere che combatte la differenza (anche dei sessi) per imporre la neutralità. Un Potere che ordina: Eva Futura deve trionfare. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/minorenne-testimonial-del-cambio-di-sesso-2653234971.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="un-liceo-di-padova-prova-ad-anticipare-la-legge-zan-sull-identita-di-genere" data-post-id="2653234971" data-published-at="1622798206" data-use-pagination="False"> Un liceo di Padova prova ad anticipare la legge Zan sull’«identità di genere» L'«identità di genere», contenuta nel ddl Zan, non è ancora legge ma c'è chi, in ambito scolastico, si prende già avanti. È il caso del liceo scientifico Alvise Cornaro di Padova che, dal prossimo anno scolastico, il 2021-2022, includerà nei registri scolastici la dicitura «alias». In questo modo, gli studenti impegnati nell'iter psicologico, medico e ormonale di riassegnazione potranno da subito essere identificati con il nome da loro scelto in vista della fine della transizione, a cioè «cambio di sesso» ultimato. Tale nuova identificazione, secondo il regolamento messo a punto dall'Udu (Unione degli studenti universitari), sarà globale sul piano didattico, nel senso che, oltre che per i registri scolastici, varrà pure per la posta elettronica e, va da sé, per le pagelle. Una vera e propria rivoluzione, insomma, che a ben vedere sa a suo modo di riscatto dopo che, sempre a Padova ma in un'altra scuola, il liceo classico Tito Livio, lo scorso ottobre a un giovane era stato impedito di candidarsi rappresentante d'istituto con l'identità trans. Il preside allora si oppose e fu, prevedibilmente, polemica. Stavolta, invece, a fare notizia è una svolta di tenore opposto che, benché presentata all'insegna dell'inclusione, sta già sollevando più d'una criticità. Assai perplessa, ad esempio, è l'assessore regionale all'Istruzione Elena Donazzan. «Mi sembra tanto un'iniziativa propagandistica», ha dichiarato Donazzan, «l'ennesima battaglia ideologica sulla scuola che invece avrebbe bisogno di risolvere altri problemi. La popolazione studentesca è fatta di una maggioranza di persone che se ne sta silenziosa mentre viene prevaricata quotidianamente da una minoranza ideologica», ha aggiunto l'assessore della giunta Zaia, rimarcando una posizione dalla quale è difficile dissentire. Infatti, se da un lato l'iniziativa dell'istituto padovano è pionieristica, dall'altro ci sono fior di nazioni che proprio sull'«identità di genere» come basata sulla mera percezione di sé, e per di più tra i giovani, stanno facendo bruschi dietrofront. Si pensi al Regno Unito, dove lo scorso novembre il governo ha messo una pietra tombale sulla riforma del Gender recognition Act, che chiedeva l'inclusione, appunto, del «self-id» o autocertificazione di genere, e dove i giudici, pronunciandosi sul caso di Keira Bell - giovane che vive con il rimpianto d'aver scelto di «passare» al genere maschile da adolescente -, hanno stabilito che i ragazzi sotto i 16 anni con disforia di genere non possono dare un pieno consenso informato al trattamento con bloccanti della pubertà, ordinando ai medici di chiedere l'approvazione del tribunale prima di trattare con una terapia medica qualsiasi minorenne con disforia di genere. Idem in Svezia, dove il Karolinska Institutet ha deciso che ai minori di 16 anni con disforia di genere non saranno somministrati soppressori della pubertà e ormoni sessuali specifici del sesso desiderato. Invece già dal giugno 2020 in Finlandia sono state riviste le linee guida nazionali per preferire il trattamento psicologico a quello farmacologico. Insomma, l'«identità di genere» giovanile convince sempre meno i Paesi che per primi l'hanno riconosciuta.
Roberto Speranza (Ansa)
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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Massimo Giannini (Ansa)
Se a destra la manifestazione dell’indipendenza di pensiero ha prodotto sconcerto e un filo d’irritazione, a sinistra ha causato brividi di sconcerto e profondo stupore. Particolarmente emozionato Massimo Giannini di Repubblica, il quale ha intuito di aver assistito a qualcosa di importante ma non ha capito bene di che si tratti. Il noto editorialista ieri ha pensato di parassitare il pensiero di Veneziani e di aggrapparsi ai commenti di altre voci libere come Mario Giordano, Franco Cardini e Giordano Bruno Guerri per sputare un po' di veleno sul governo. «Se rimettiamo insieme le parole e le opere della premier e della sua milizia», ha scritto Giannini, «qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca? La Ducia Maior: qualche frasetta sciolta di Roger Scruton in Parlamento, qualche citazione a caso di Thomas Eliot al meeting di Rimini. I gerarchi minori: qualche intemerata su Peppa Pig da Mollicone, qualche pièce teatrale di Mellone. Per il resto, fuffa ideologica e poltronificio».
Liquidati i nemici politici, Giannini si è messo a parlare della sinistra, e lo ha fatto secondo il più classico copione della rampogna progressista. Funziona così: prima si ribadisce l’inevitabile superiorità morale, poi si finge di avanzare una critica per dimostrare d’essere fedelissimi ma pure un po' pensosi. «Nonostante le disfatte elettorali, la rive gauche è ancora popolata di scrittori e attori, registi e opinionisti», dice Giannini. «Ma con due differenze fondamentali rispetto all’altra sponda. La prima è che nessuno li alleva: non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado. La seconda è che nessuno li criminalizza: se di qua sono di casa la critica distruttiva al Pd e la satira abrasiva sul campo largo, di là non capita mai nulla di simile».
A ben vedere, sono false entrambe le affermazioni. Vero che non esiste più il Pci con la sua cultura d’apparato, ma è vero pure che a intrupparsi i creativi sinistrorsi ci pensano da soli, seguendo alla lettera le indicazioni di un comitato centrale evanescente ma sempre autoritario che si è incistato nei loro cervelli: fedeli alla linea anche quando la linea non c’è. E infatti non appena qualcuno esce dal seminato, subito i rimasugli del progressismo intellettuale lo crocifiggono in sala mensa. Che si tratti di Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Carlo Rovelli, Lucio Caracciolo, Angelo D’Orsi, Luca Ricolfi o altri venerati maestri, poco importa: chi tradisce la paga cara, e solo dopo appropriata quarantena può tornare a dirsi presentabile.
Ed è esattamente qui che sta il punto. Giannini e gli altri del suo giro non hanno i galloni per fare la morale a chicchessia. S’attaccano alla stoffa altrui - quella di Veneziani nello specifico - perché difettano della propria. Se la destra non ha brillato per originalità, la sinistra in questi anni si è risvegliata dal coma soltanto per chiedere la censura di questo o quell’altro, per infangare e demonizzare, per appiccare roghi e costruire gogne. Infamie di cui hanno fatto le spese autori di ogni orientamento: di destra, soprattutto, ma pure di sinistra, se indipendenti e intellettualmente onesti.
Giannini resta comprensibilmente ammirato dalla tempra dei Veneziani, dei Cardini e dei Giordano perché dalle sue parti non esiste, e se esiste è avversata con ferocia (altro che le sfuriate infantili viste a destra negli ultimi giorni). E infatti l’editorialista di Repubblica che fa? Prende le parti del nemico solo nella misura in cui sono utili alla sua causa. Non celebra l’onestà e il piglio avventuroso: li perverte per metterli - per altro senza riuscirci - al servizio della sua ortodossia. Sfrutta l’indipendenza altrui per ribadire la propria servitù.
Tutto ciò sarebbe decisamente poco interessante se non donasse una lezione anche alla destra, ai patrioti e ai conservatori o sedicenti tali. Il problema, per usare un nannimorettismo oggi di moda, non è Giannini in sé, ma Giannini in noi. Tradotto: per imporre l’egemonia soffocando la libertà basta e avanza Repubblica. E se il carro dei vincitori somiglia a quello dei perdenti, tanto vale perdere, almeno ci si risparmia la spocchia.
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Giuseppe Cruciani (Ansa)
Il professor Lorenzo Castellani, ricercatore e docente di storia delle istituzioni politiche presso la Luiss di Roma, nonché autore di Eminenze grigie. Uomini all’ombra del potere (2024), su X sintetizza così: «Checco Zalone ha spianato i petulanti stand up comedian (quasi tutti «impegnati» a sinistra); Corona sfida i media tradizionali con un linguaggio da uomo qualunque e fa decine di milioni di visualizzazioni; la Zanzara riempie i teatri ed è la trasmissione più ascoltata del Paese. Si è detto per anni che la sinistra sia egemone nell’alta cultura (vero, diciamo, all’80%), ma la «non-sinistra» (non la chiamerei semplicemente destra) ha interamente in mano la cultura e il linguaggio popolare».
Professor Castellani, quindi vorrebbe dirci che la cultura non è più solo ad appannaggio della sinistra?
«Se guardiamo alle istituzioni della cultura ovvero ai luoghi ufficiali della stessa è sempre la sinistra a primeggiare. Ma se guardiamo alla cultura in senso ampio, allora cambia tutto. L’alta cultura è predominante nelle istituzioni ufficiali della sinistra ma in altri ambiti l’ideologia di sinistra viene sconfitta da altre manifestazioni culturali che incontrano di più i gusti del Paese».
Si riferisce a Zalone?
«Certo, anche. Zalone è sempre stato apolitico, non ha mai ceduto al politicamente corretto. Fa un cinema che fa riflettere e non vuole indottrinare nessuno, non fa moralismi a senso unico come capita ad altri tipi di comicità di sinistra».
Sanremo è di destra o di sinistra? A volte legare la politica a certe forme di spettacolo non fa scadere nel ridicolo?
«Anche a Sanremo non c’è più una forma di piena differenziazione tra alta cultura e cultura nazionale popolare. A me piace parlare di cultura in senso ampio, non solo di alta cultura, la “Kultur alla tedesca”, che permea nel popolo e permette riflessioni ampie».
Di che tipo?
«Sembra sempre ci sia questa contrapposizione tra il mondo dell’alta cultura, cinema, teatri, fondazioni, fiere del libro, case editrici, think tank nelle università, dove c’è oggettivamente sempre il predominio della sinistra, del mondo progressista, nelle sue varie sfaccettature, e grandi fenomeni di cultura di massa dove prevale l’esatto contrario rispetto all’etica progressista e a quell’atteggiamento pedagogico-educativo e moralistico che il mondo di sinistra tende ad avere nei confronti del popolo. L’idea di fondo della sinistra è stata sempre quella che bisogna civilizzare gli italiani e portarli con la mano come bimbi verso comportamenti più virtuosi».
Ma oggi non è più così. Ci sono vari altri casi giusto?
«Esatto, abbiamo un Fabrizio Corona che su YouTube, con un linguaggio molto politicamente scorretto, attacca il potere in tutte le sue forme e ha un successo enorme. Lo fa in maniera qualunquistica ma è questo che piace alla gente. Si occupa di questioni di cultura di massa, fenomeni che riguardano il crime, il trash, che non rientrano certamente nell’alta cultura ma che creano fenomeni di massa che hanno più visibilità e rilevanza di certi argomenti che trattano tv o giornali».
E non è il solo.
«La Zanzara, che adesso riempie anche i teatri e che offre un interessante esperimento sociale. Cruciani e Parenzo sostengono tutto il contrario del catechismo del politicamente corretto, sicuramente molto al di fuori dei perimetri della cultura ufficiale di sinistra. Ma per questo funziona ed è un fenomeno molto partecipato».
Anche dalla sinistra stessa presumo.
«Certo. Io ci sono andato ed è pieno di studenti della mia università, dirigenti d’azienda, professori, è un fenomeno trasversale che ha conquistato pezzi della classe dirigente».
Insomma, la presunta alta cultura della sinistra è in crisi perché risulta noiosa al grande pubblico?
«Sicuramente la cultura in senso ampio arriva di più alla gente».
Un po’ come in politica?
«Certi politici usano linguaggi più semplici e diretti e vengono capiti più facilmente. È quello che succedeva a Grillo e oggi alla Meloni. Ci sono fenomeni di massa che vengono seguiti da milioni persone e che rigettano l’idea che ci sia una rigida morale comportamentale linguistica da seguire che invece appartiene alla sinistra».
Anche nella musica?
«Certo, le canzoni che hanno avuto più successo negli ultimi anni sono quelle vicine al genere trap, che parlano di consumismo, esaltano il machismo, usano linguaggi volgari e una completa assenza di morale, nulla a che fare con il mondo progressista. Però quelle canzoni arrivano e funzionano. Tanto è vero che anche Sorrentino nel suo ultimo film ha dato un ruolo centrale a Gue Pequeno e alle sue canzoni che fa cantare anche a Servillo».
Quindi la cultura appartenuta da sempre alla sinistra è in caduta perché non arriva più alla gente comune?
«Non credo che la destra debba sfidare la sinistra sull’alta cultura. Però penso che siano in atto nella cultura popolare di massa delle forme di anti-progressismo e anarchismo, dei movimenti spontanei che sono in contrasto con l’alta cultura principalmente di sinistra e che vengono maggiormente capiti dalla gente e da qui il loro enorme successo. C’è questo contrasto tra cultura ufficiale e quella di massa nazional popolare; due mondi che sembrano non parlarsi.
Per la sinistra è come un boomerang?
«In effetti il tentativo di indottrinare della sinistra ha prodotto una reazione ancor più forte nella destra. Più la sinistra ha cercato di catechizzare la gente, più questi fenomeni sono cresciuti. La regola di doversi comportare in un certo modo, oggi è più fallita che mai».
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