2025-10-30
Export verso Usa +34%. Tanti saluti ai gufi
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
Nonostante i dazi e un rafforzamento dell’euro, a settembre è boom di esportazioni negli Stati Uniti rispetto allo scorso anno, meglio di Francia (+8%) e Germania (+11%). Confimprenditori: «I rischi non arrivano da Washington ma dalle politiche miopi europee».Ci sono le macumbe e poi c’è la realtà. A settembre l’export italiano verso gli Stati Uniti ha segnato la percentuale record di più 34,4% anno su anno (dato Istat). Eppure c’erano i dazi di Donald Trump, eppure c’era l’immane gelata commerciale alle porte, eppure «la Casa Bianca strangola il Made in Italy» come ripeteva a nastro un’allarmatissima Lilli Gruber. Lo scenario era da grande depressione, Maurizio Landini immaginava fughe da Lombardia e Triveneto con le masserizie sui carretti. Sintesi dell’apocalisse: negli ultimi nove mesi, da quando The Donald ha cominciato i suoi balletti daziari, le esportazioni italiane verso gli States hanno raggiunto il +9,5%, seconda miglior prestazione extra Ue dopo la Svizzera (+11,7%). Non esattamente un disastro.Come non aveva alcun senso disperarsi ieri, così non ne avrebbe stappare Cartizze oggi poiché la congiuntura è sottoposta a stress continui. E il recupero di settembre non è ancora riuscito a colmare il buco di agosto (-21%). Di sicuro la tendenza è positiva. Va aggiunto che a spingerla in questa direzione è il successo della cantieristica (navi da crociera e yacht di lusso) per una quota attorno al 22%. Ma al di là dell’exploit di Fincantieri il restante +12% costituisce una marcata crescita tendenziale. Altri due fattori indicano il buono stato di salute dell’export italiano verso gli Usa: l’incremento ottenuto in un periodo di cambio sfavorevole (con il dollaro anche a 1,17 sull’euro) e il confronto con i maggiori competitor europei. Mentre il Made in Italy fa +34,4% trainato anche dai settori alimentare, moda e arredamento, la Germania segna un +11% totale e la Francia un +8%. Aumentano anche le vendite verso i paesi Opec (Arabia, Emirati, Nigeria +23,8%) e verso il Giappone (+15,6%). Si registra una contrazione solo verso la Turchia (-33,9%), soprattutto per la crisi economica di Ankara.Ci sono le macumbe e poi ci sono i numeri, nonostante i dazi di Washington. Solo nel trimestre estivo - quello ballerino degli annunci e poi dei riposizionamenti trumpiani - l’export italiano verso gli Usa ha superato i 9 miliardi di euro. Il timore di un rallentamento era giustificabile (senza esagerare), per questo la reazione alla fotografia dell’Istat rasserena l’imprenditoria italiana. Lo conferma il presidente di Confimprenditori, Stefano Ruvolo: «È la prova che il Made in Italy, quando è autentico e di qualità, continua ad essere richiesto e apprezzato in tutto il mondo».Poi un’aggiunta polemica: «Il vero rischio delle nostre imprese non arriva da Washington ma da Bruxelles». Il timore è legittimo e il presidente Ruvolo lo mette nero su bianco: «Le attuali politiche industriali europee stanno penalizzando le pmi italiane, permettendo un ingresso indiscriminato di prodotti a basso costo dalla Cina e da altri paesi asiatici. In un solo anno l’import di auto cinesi è cresciuto del 37%, quello di abbigliamento ha fatto +29% sfondando il tetto di 27 miliardi. Ad essere distorto è il mercato interno Ue, non quello esterno». Un grido d’allarme che rimane curiosamente fuori dalle rotte mediatiche, pure in economia condizionate dall’ideologia del pensiero unico progressista.Anche l’import italiano cresce su base sia mensile, sia annua pur con un saldo inferiore all’anno scorso. Spiega l’istituto di statistica: «A contribuire è soprattutto l’aumento degli acquisti di beni di consumo non durevoli (alimentari, bevande, detersivi). Nei primi 9 mesi del 2025 la dinamica tendenziale dell’import è molto sostenuta, +9% e l’avanzo commerciale con i paesi extra Ue è pari a 35,1 miliardi, però in riduzione rispetto allo stesso periodo del 2024, quando era + 45,4 miliardi».Tornando all’exploit con gli Stati Uniti c’è da aggiungere che le percentuali potrebbero essere anche condizionate dalle scorte; è possibile che i rivenditori americani (soprattutto nei mobili e nel fashion) abbiano deciso di riempire i magazzini proprio per bypassare nell’immediato nuove ipotetiche bizze daziarie. Ma è anche assodato che la qualità continua a pagare e che gli imprenditori italiani possono contare sulla competitività, sul valore del prodotto, sul vento favorevole determinato dalla ritrovata stabilità strutturale del Paese per innescare il volano vincente nonostante i gufi.Tutto ciò rivela altre due piccole verità. I consumatori americani di prodotti di qualità continuano a comprarli anche a un costo superiore, considerando un valore aggiunto il surplus qualitativo italiano rispetto alla fuffa dei concorrenti cinesi e asiatici. E i dazi trumpiani sono arrivati a sanare squilibri preesistenti: finora l’Europa applicava un dazio del 10% a ogni automobile importata dagli Stati Uniti, mentre gli americani si accontentavano del 2%. Già Abramo Lincoln diceva: «Dateci dazi sulle importazioni e diventeremo la nazione più grande del mondo». I numeri dell’Istat ci dicono che i prodotti italiani, per chi sa apprezzarli, sono più forti di ogni barriera. E di ogni avvoltoio a 55 pollici.
Nel riquadro, Howard Thomas Brady (IStock)
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