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2024-01-11
Meglio «I Soprano» vecchi di 25 anni che le favole buoniste degli algoritmi
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«Sono il Re Mida al rovescio, tutto quello che tocco si tramuta in mer...», diceva il capomafia Tony Soprano (interpretato da James Gandolfini, rimasto nell’immaginario ancora oggi, nonostante sia morto da 10 anni), scandendo una delle tante battute che hanno reso la serie prodotta dalla Hbo uno spartiacque di tre ere televisive recenti. In questi giorni di gennaio le avventure della famiglia criminale italoamericana del New Jersey - andate in onda dal 1999 al 2007 nell’arco di sei stagioni e 86 episodi - compiono 25 anni, e sembra passato un secolo dalla prima puntata, anche perché quella libertà narrativa che ha fatto della sceneggiatura scritta da David Chase «la serie più determinante di decenni di cultura pop televisiva» (la definizione è del New York Times) è stata sacrificata sull’altare dell’algocrazia addizionata di abbondanti dosi di cultura woke e censura. Prima dell’avvento dei Soprano, la serialità televisiva era spesso raccontata attraverso archetipi manichei: c’erano i personaggi totalmente buoni e quelli totalmente cattivi, una dirittura morale precisa sullo sfondo di vicende a parabola tradizionale.
In Italia, per esempio, fioccavano i marescialli Rocca, i don Matteo, i cari maestri: il caravanserraglio dei carabinieri, dei sacerdoti, degli insegnanti, custodi di un focolare narrativo pedagogico, avvincente, ma mai disposto a rischiare nel mostrare il lato oscuro dei buoni sentimenti. Quando Hbo fece sbarcare nel nostro paese I Soprano, la tv non fu più la stessa, una lampadina si accese nella testa di sceneggiatori e spettatori. Per la prima volta, tematiche scomode come l’adulterio, le sedute psicanalitiche, gli omicidi, ma anche il rispetto delle regole e l’adeguamento a una certa morale venivano raccontate senza lesinare in passione dopata di prurigine assai realistica. I protagonisti non erano né del tutto buoni, né del tutto cattivi, lo spettatore poteva immedesimarsi nell’altro da sé contemplando pulsioni inconsce che mai avrebbe avuto il coraggio di sfoderare nella vita vera, ma che lo avrebbero solleticato nell’ora e mezza di astrazione garantita dalla visione di una puntata. Ecco che Tony Soprano, profanatore delle consuetudini politicamente corrette, mette in scena la sua vita di boss mafioso soggetto ad attacchi di panico, paziente di una psicanalista tanto arguta quarto caustica, circondato da una famiglia in cui l’intreccio conflittuale si mescola a un umorismo nero crudo, evolvendosi a ogni stagione, in una commistione di vita affettiva familiare e intrecci tra gang criminali per la contesa del territorio.
Introspezione alla Dostoevskji in salsa ultrapop, con un tocco del più frizzante Bret Easton Ellis, il tutto sullo sfondo di una pellicola come Quei Bravi ragazzi, vera ispirazione di Chase. La svolta fu epocale. Arrivarono serie come Breaking Bad, che raccontava la vicenda di un professore costretto a mantenersi spacciando droga ma per una giusta causa, o la monumentale produzione storica Roma, sempre di Hbo è prodotta da John Milius, ambientata ai tempi di Giulio Cesare, disposta a indulgere sui dettagli meno noti della vita nell’Urbe. Prodotti mai consolatori nello spiattellare il lato umano, troppo umano, dunque in chiaroscuro, del reale, calamitando il pubblico in cerca di affrancamento da tematiche didascaliche. Fino all’avvento della terza era televisiva, quella che stiamo vivendo oggi, frutto della sbornia ideologica woke americana, infarcita di progressi tecnologici, algoritmi e, naturalmente, appetiti mercatisti. Le piattaforme come Netflix hanno sostituito buona parte dei vecchi televisori e si sono adeguate ai dogmi dei campus universitari a stelle e strisce, quelli, per intenderci, che vorrebbero proibire i corsi su Aristotele perché «schiavista» e che provvedono a distribuire assorbenti pure agli studenti maschi perché sarebbe discriminatorio sostenere che le mestruazioni siano solo femminili. Ogni prodotto, pur senza una pertinenza al contesto, deve mostrare tutte le etnie residenti negli Usa, non scordando di distribuire con percentuali da manuale Cencelli la presenza di attori maschi, femmine, di personaggi che non si riconoscono in una sessualità precisa e guardandosi bene da deviare dal sentiero ideologico proposto: raccontare la realtà non per come è, ma per come talvolta qualche élite ultraliberal atlantica vorrebbe diventasse col supporto dell’artificio tecnico. La conseguenza è scontata: in questi anni, una serie come I Soprano, difficilmente sarebbe stata prodotta. Gli algoritmi delle piattaforme in streaming, pensati per accontentare la foga dei loro creatori, ne avrebbero sconsigliato persino un accenno.
Normale, in un’era in cui anche la politica sceglie di agire solo dopo aver consultato il sondaggio del momento. Come spesso accade però, la componente umana è ancora in grado di smentire dogmi disumani. Serie come Yellowstone - dramma western che non fa sconti su passioni shakespeariane nel raccontare le vicende rurali di una famiglia dell’entroterra statunitense - inanellano pubblico nonostante lo snobismo iniziale dei critici, piattaforme come quella Disney iniziano a fare marcia indietro sui loro propositi dopo aver stravolto le più celebri fiabe per bambini perché il politicamente corretto a taglio coercitivo, anche quando il contesto narrativo non lo richiede, sta facendo scappare gli abbonati. Insomma, la Sirenetta esotica, le eroine femminili trasformate a forza in virago violente, i racconti classici stravolti e infarciti di rimandi a un futuro ideologico, non funzionano come ci si aspettava e fanno perdere soldi ai produttori americani: il pubblico vuole riconoscersi nell’altro da sé vivendo emozioni autentiche, non essere rieducato a suon di metafore di costume. Anche per questo I Soprano restano la stella polare di una serialità ottimamente scritta e drenata da fascinazioni dottrinali. Come le più importanti opere narrative della storia, ancorché pop.
Il legale da film della mala del Brenta
Non bombe, ma testi di legge. Enrico Vandelli, figlio degli anni Cinquanta e di una Padova rosa dalle tensioni politiche, ha trasformato la propria militanza, il suo attivismo, nella ragione di una professione scelta con cognizione di causa. Sarebbe stato avvocato, al fianco non dei deboli ma degli assassini, dei terroristi. Vandelli, cui Sky ha voluto dedicare la miniserie Fuorilegge - Veneto a mano armata, ha scelto di laurearsi in giurisprudenza per supportare i compagni. Per difenderli. Per esserne angelo e protettore. Ma i soldi, allora, erano pochi e l’alternativa alla legalità più facile e allettante. Vandelli, che a 20 anni ha sposato la causa della formazione di sinistra extraparlamentare Autonomia operaia, è diventato così avvocato di Felice Maniero, «Faccia d’angelo». Un passaparola nel carcere di Torino: un brigatista, la sua soddisfazione di assistito e il consiglio al collega recluso. «Esiste un legale amico», avrebbe detto a Maniero, boss della Mala del Brenta, convincendolo ad assumere Vandelli. L’avvocato, cui il cosiddetto processo del 7 Aprile e la difesa di 54 fra gli imputati vicini ad Autonomia operaia avevano garantito una certa reputazione professionale, ha preso in mano la pratica e, in breve, ottenuto una scarcerazione. Ma quel che avrebbe dovuto rivelarsi un rapporto esclusivamente lavorativo si è trasformato presto in altro: un’amicizia, un sodalizio, un’affinità che ha portato il legale ad essere inghiottito dalle trame criminali di Maniero. E da questi, poi, scaricato. Una volta tornato alle proprie attività, Maniero è finito parimenti al centro di nuove indagini. Di lì a poco, gli si sono rispalancate le porte del carcere. Ed è stato un attimo. Maniero, a capo della banda che, come quella della Magliana a Roma e della Comasina a Milano, ha messo a ferro e fuoco l’Italia, fra rapine, sequestri, omicidi e traffici di droga, ha scaricato Vandelli. Lo ha accusato. Un tradimento in piena regola che, al legale, è costato la libertà. Vandelli, protagonista di una serie in onda su Sky Documentaries dalle 21.15 di sabato, si è dato alla fuga, la latitanza foraggiata da vecchi amici di Autonomia operaia. A Padova, dov’è nato e cresciuto, figlio del boom industriale, ha lasciato la moglie e i figli. Per quattro anni ha mandato loro brevi lettere, concedendosi solo di tanto in tanto incontri clandestini. Poi è stato arrestato: condannato per associazione mafiosa e costretto a lasciare la toga. Michele, suo figlio minore, nella docuserie racconta come tutto questo abbia stravolto la vita sua e della famiglia, come la parabola discendente di Enrico Vandelli - ripercorsa in tre puntate - possa essere letta oggi per (ri)raccontare un territorio, quello veneto, e la sua trasformazione socio-economica, per fotografare il sistema giuridico italiano e l’impatto che la contestazione politica ha avuto su di esso.
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La saga dei mafiosi italoamericani con James Gandolfini compie un quarto di secolo però funziona ancora perché è scorretta, e quindi vera. A differenza dei prodotti streaming farciti di dogmi woke e paranoie razziali. Sky lancia una docuserie sull’avvocato Vandelli: dapprima difensore dei terroristiper ragioni ideologiche, si fece sedurre dal denaro di Maniero e della sua banda. Lo speciale contiene due articoli. «Sono il Re Mida al rovescio, tutto quello che tocco si tramuta in mer...», diceva il capomafia Tony Soprano (interpretato da James Gandolfini, rimasto nell’immaginario ancora oggi, nonostante sia morto da 10 anni), scandendo una delle tante battute che hanno reso la serie prodotta dalla Hbo uno spartiacque di tre ere televisive recenti. In questi giorni di gennaio le avventure della famiglia criminale italoamericana del New Jersey - andate in onda dal 1999 al 2007 nell’arco di sei stagioni e 86 episodi - compiono 25 anni, e sembra passato un secolo dalla prima puntata, anche perché quella libertà narrativa che ha fatto della sceneggiatura scritta da David Chase «la serie più determinante di decenni di cultura pop televisiva» (la definizione è del New York Times) è stata sacrificata sull’altare dell’algocrazia addizionata di abbondanti dosi di cultura woke e censura. Prima dell’avvento dei Soprano, la serialità televisiva era spesso raccontata attraverso archetipi manichei: c’erano i personaggi totalmente buoni e quelli totalmente cattivi, una dirittura morale precisa sullo sfondo di vicende a parabola tradizionale. In Italia, per esempio, fioccavano i marescialli Rocca, i don Matteo, i cari maestri: il caravanserraglio dei carabinieri, dei sacerdoti, degli insegnanti, custodi di un focolare narrativo pedagogico, avvincente, ma mai disposto a rischiare nel mostrare il lato oscuro dei buoni sentimenti. Quando Hbo fece sbarcare nel nostro paese I Soprano, la tv non fu più la stessa, una lampadina si accese nella testa di sceneggiatori e spettatori. Per la prima volta, tematiche scomode come l’adulterio, le sedute psicanalitiche, gli omicidi, ma anche il rispetto delle regole e l’adeguamento a una certa morale venivano raccontate senza lesinare in passione dopata di prurigine assai realistica. I protagonisti non erano né del tutto buoni, né del tutto cattivi, lo spettatore poteva immedesimarsi nell’altro da sé contemplando pulsioni inconsce che mai avrebbe avuto il coraggio di sfoderare nella vita vera, ma che lo avrebbero solleticato nell’ora e mezza di astrazione garantita dalla visione di una puntata. Ecco che Tony Soprano, profanatore delle consuetudini politicamente corrette, mette in scena la sua vita di boss mafioso soggetto ad attacchi di panico, paziente di una psicanalista tanto arguta quarto caustica, circondato da una famiglia in cui l’intreccio conflittuale si mescola a un umorismo nero crudo, evolvendosi a ogni stagione, in una commistione di vita affettiva familiare e intrecci tra gang criminali per la contesa del territorio. Introspezione alla Dostoevskji in salsa ultrapop, con un tocco del più frizzante Bret Easton Ellis, il tutto sullo sfondo di una pellicola come Quei Bravi ragazzi, vera ispirazione di Chase. La svolta fu epocale. Arrivarono serie come Breaking Bad, che raccontava la vicenda di un professore costretto a mantenersi spacciando droga ma per una giusta causa, o la monumentale produzione storica Roma, sempre di Hbo è prodotta da John Milius, ambientata ai tempi di Giulio Cesare, disposta a indulgere sui dettagli meno noti della vita nell’Urbe. Prodotti mai consolatori nello spiattellare il lato umano, troppo umano, dunque in chiaroscuro, del reale, calamitando il pubblico in cerca di affrancamento da tematiche didascaliche. Fino all’avvento della terza era televisiva, quella che stiamo vivendo oggi, frutto della sbornia ideologica woke americana, infarcita di progressi tecnologici, algoritmi e, naturalmente, appetiti mercatisti. Le piattaforme come Netflix hanno sostituito buona parte dei vecchi televisori e si sono adeguate ai dogmi dei campus universitari a stelle e strisce, quelli, per intenderci, che vorrebbero proibire i corsi su Aristotele perché «schiavista» e che provvedono a distribuire assorbenti pure agli studenti maschi perché sarebbe discriminatorio sostenere che le mestruazioni siano solo femminili. Ogni prodotto, pur senza una pertinenza al contesto, deve mostrare tutte le etnie residenti negli Usa, non scordando di distribuire con percentuali da manuale Cencelli la presenza di attori maschi, femmine, di personaggi che non si riconoscono in una sessualità precisa e guardandosi bene da deviare dal sentiero ideologico proposto: raccontare la realtà non per come è, ma per come talvolta qualche élite ultraliberal atlantica vorrebbe diventasse col supporto dell’artificio tecnico. La conseguenza è scontata: in questi anni, una serie come I Soprano, difficilmente sarebbe stata prodotta. Gli algoritmi delle piattaforme in streaming, pensati per accontentare la foga dei loro creatori, ne avrebbero sconsigliato persino un accenno. Normale, in un’era in cui anche la politica sceglie di agire solo dopo aver consultato il sondaggio del momento. Come spesso accade però, la componente umana è ancora in grado di smentire dogmi disumani. Serie come Yellowstone - dramma western che non fa sconti su passioni shakespeariane nel raccontare le vicende rurali di una famiglia dell’entroterra statunitense - inanellano pubblico nonostante lo snobismo iniziale dei critici, piattaforme come quella Disney iniziano a fare marcia indietro sui loro propositi dopo aver stravolto le più celebri fiabe per bambini perché il politicamente corretto a taglio coercitivo, anche quando il contesto narrativo non lo richiede, sta facendo scappare gli abbonati. Insomma, la Sirenetta esotica, le eroine femminili trasformate a forza in virago violente, i racconti classici stravolti e infarciti di rimandi a un futuro ideologico, non funzionano come ci si aspettava e fanno perdere soldi ai produttori americani: il pubblico vuole riconoscersi nell’altro da sé vivendo emozioni autentiche, non essere rieducato a suon di metafore di costume. Anche per questo I Soprano restano la stella polare di una serialità ottimamente scritta e drenata da fascinazioni dottrinali. Come le più importanti opere narrative della storia, ancorché pop.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/meglio-soprano-che-favole-buoniste-2666931963.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-legale-da-film-della-mala-del-brenta" data-post-id="2666931963" data-published-at="1704991059" data-use-pagination="False"> Il legale da film della mala del Brenta Non bombe, ma testi di legge. Enrico Vandelli, figlio degli anni Cinquanta e di una Padova rosa dalle tensioni politiche, ha trasformato la propria militanza, il suo attivismo, nella ragione di una professione scelta con cognizione di causa. Sarebbe stato avvocato, al fianco non dei deboli ma degli assassini, dei terroristi. Vandelli, cui Sky ha voluto dedicare la miniserie Fuorilegge - Veneto a mano armata, ha scelto di laurearsi in giurisprudenza per supportare i compagni. Per difenderli. Per esserne angelo e protettore. Ma i soldi, allora, erano pochi e l’alternativa alla legalità più facile e allettante. Vandelli, che a 20 anni ha sposato la causa della formazione di sinistra extraparlamentare Autonomia operaia, è diventato così avvocato di Felice Maniero, «Faccia d’angelo». Un passaparola nel carcere di Torino: un brigatista, la sua soddisfazione di assistito e il consiglio al collega recluso. «Esiste un legale amico», avrebbe detto a Maniero, boss della Mala del Brenta, convincendolo ad assumere Vandelli. L’avvocato, cui il cosiddetto processo del 7 Aprile e la difesa di 54 fra gli imputati vicini ad Autonomia operaia avevano garantito una certa reputazione professionale, ha preso in mano la pratica e, in breve, ottenuto una scarcerazione. Ma quel che avrebbe dovuto rivelarsi un rapporto esclusivamente lavorativo si è trasformato presto in altro: un’amicizia, un sodalizio, un’affinità che ha portato il legale ad essere inghiottito dalle trame criminali di Maniero. E da questi, poi, scaricato. Una volta tornato alle proprie attività, Maniero è finito parimenti al centro di nuove indagini. Di lì a poco, gli si sono rispalancate le porte del carcere. Ed è stato un attimo. Maniero, a capo della banda che, come quella della Magliana a Roma e della Comasina a Milano, ha messo a ferro e fuoco l’Italia, fra rapine, sequestri, omicidi e traffici di droga, ha scaricato Vandelli. Lo ha accusato. Un tradimento in piena regola che, al legale, è costato la libertà. Vandelli, protagonista di una serie in onda su Sky Documentaries dalle 21.15 di sabato, si è dato alla fuga, la latitanza foraggiata da vecchi amici di Autonomia operaia. A Padova, dov’è nato e cresciuto, figlio del boom industriale, ha lasciato la moglie e i figli. Per quattro anni ha mandato loro brevi lettere, concedendosi solo di tanto in tanto incontri clandestini. Poi è stato arrestato: condannato per associazione mafiosa e costretto a lasciare la toga. Michele, suo figlio minore, nella docuserie racconta come tutto questo abbia stravolto la vita sua e della famiglia, come la parabola discendente di Enrico Vandelli - ripercorsa in tre puntate - possa essere letta oggi per (ri)raccontare un territorio, quello veneto, e la sua trasformazione socio-economica, per fotografare il sistema giuridico italiano e l’impatto che la contestazione politica ha avuto su di esso.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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