2025-05-16
Migranti sfruttati perché irregolari? Balla della Cgil: il 79% ha il permesso
Per Maurizio Landini, le peggiori condizioni di lavoro degli stranieri sono la conseguenza di clandestinità e assenza di diritti. Falso: quasi l’80% è in regola, e per il 42% dei casi si tratta di profughi con protezione umanitaria.«Un lavoro più tutelato e sicuro» chiedono i quesiti inseriti dalla Cgil nel referendum di giugno.Peccato che a oggi l’elefante nella stanza Maurizio Landini sembri non volerlo vedere e preferisca travestirlo con formule retoriche che falsificano la realtà.Flai-Cgil la chiama «profughizzazione dello sfruttamento lavorativo» ed è l’evoluzione del refrain secondo cui «i lavoratori stranieri sono sfruttati perché invisibili senza diritti». Una narrazione buonista con cui solitamente si condiscono le notizie dell’ennesima morte sul lavoro di uno straniero. Eventualità più che frequente come si evince dai dati dell’Osservatorio Sicurezza sul lavoro Vega Engineering di Mestre. Solo nel 2024 le vittime sul lavoro sono state 1.090 e di queste 227 gli stranieri, il 21% del totale, il che significa, tenendo conto che tra regolari e irregolari rappresentano il 10% della popolazione, che rischiano di perdere la vita almeno più del doppio dei colleghi italiani. Ma non perché sono dei «fantasmi».A smentire la tesi secondo cui se fossero regolarizzati sarebbero più tutelati, sono proprio i rapporti di Altro Diritto raccolti con l’Osservatorio Placido Rizzotto e Flai-Cgil dai quali emerge che il 79% delle vittime di sfruttamento sul lavoro sono stranieri con regolare permesso di soggiorno.E poiché il 42% dei casi finiti nel campione riguardano profughi in possesso di una richiesta di protezione internazionale o di tipo umanitario, si è pensato bene di coniare l’espressione «profughizzazione del lavoro» per suggerire che chi richiede la protezione è più incline ad accettare condizioni di sfruttamento.Tesi curiosa visto che persino da uno studio sullo sfruttamento dei lavoratori del Punjab indiano nell’Agropontino di Marco Omizzolo, sociologo di riferimento della Flai-Cgil, si evince che il 99% dei lavoratori chini nei campi undici ore al giorno per tre euro all’ora, era in possesso di regolare permesso di soggiorno e che secondo l’Oil nel 2024 gli stranieri hanno percepito un salario orario più basso del 26,3% rispetto a quello degli italiani. Sono gli stessi analisti dell’Osservatorio Placido Rizzotto e Flai-Cgil a contraddirsi evidentemente senza accorgersene: la causa dello scivolamento dei «profughi» nello sfruttamento, scrivono, sarebbe il loro stato di bisogno, ossia l’esigenza di mandare una media di 400/500 euro alla famiglia che ha investito i propri risparmi sul loro percorso migratorio. Il cosiddetto «gift bondage», un vincolo sociale che il migrante vivrebbe come l’assillante necessità di provvedere ai bisogni dei familiari rimasti a casa. Niente a che fare con la condizione di emergenza in cui dovrebbe trovarsi un vero profugo che a causa di guerre, persecuzioni o catastrofi ambientali si trova improvvisamente nella necessità di lasciare il proprio paese senza il tempo di studiare programmi migratori. L’opposto di quanto affermato dall’Osservatorio come si evince dai dati del ministero dell’Interno sull’esito delle richieste di asilo da cui risulta che il 70% dei richiedenti sono in realtà migranti economici.Per cui se di «profughizzazione del lavoro» si tratta, dovremmo semmai dedurre che quanto più l’immigrazione è «travestita» da emergenza umanitaria con i migranti economici trattati come profughi, tanto più questi finiscono per accettare lavori sfruttati e rischiare di morire. E dunque forse non è un caso che dal 2021 al 2024 i cittadini extra Ue morti sul lavoro siano aumentati del 18%. Tra le cause indicate da Vega engineering soprattutto mancati controlli, mancata manutenzione dei macchinari, mancanza dei dispositivi di protezione individuale e di formazione del lavoratore, quanto mai grave vista l’alta preponderanza nei flussi migratori di migranti con bassa qualifica.Una serie di risparmi sulla sicurezza che permettono di abbassare il costo del lavoro insieme ai bassi salari che in Italia, con una media lorda di 37.000 euro l’anno, si trovano sotto quella Ocse di 4.000 dollari e in discesa da trent’anni a causa della bassa crescita della produttività e della diffusione del lavoro sommerso. Uno scenario cui non ha certo contribuito il lavoro flessibile portato avanti dal Jobs Act, come ha dichiarato lo stesso Mario Draghi a dicembre durante un incontro di economisti a Parigi. Per quanto l’occupazione in Italia ultimamente abbia segnato una lieve crescita, gli ultimi dati Istat indicano che la qualità dei posti di lavoro resta bassa, visto che a crescere son soprattutto i lavoratori con orario ridotto di tipo involontario (un milione e mezzo) mentre scendono di ben 1,3 milioni i profili qualificati, molti dei quali emigrati all’estero.A fronte di un Pil stagnante e una produzione industriale in calo da oltre due anni (sebbene abbia segnato a marzo 2025 un più 0.1% mensile), viene da chiedersi come possa il sindacato rivendicare lavoro più pagato e tutelato mentre si batte contro ogni forma di controllo dei flussi migratori cui non a caso strizza l’occhio chiedendo di semplificare l’ottenimento della cittadinanza. Come mai, visto che ben dovrebbe conoscere Marx, non si interroghi sul fatto che, se il costo del lavoro diminuisce, non lo si deve solo alle misure che hanno favorito flessibilità e precarietà ma anche a un aumento dell’offerta di manodopera (la famosa creazione dell’esercito di riserva) e che dunque, in questa fase di rallentamento dell’economia, gli stranieri non colmano un bisogno di lavoro, bensì di lavoro sfruttato.Curioso che non si accorga che gli stranieri sono vittime del lavoro nero più degli italiani, non in quanto irregolari, ma in quanto stranieri visto che quando entrano in un mercato del lavoro già povero e vanno a occupare posizioni poco qualificate, l’impiego lo trovano solo se accettano salari più bassi e condizioni lavorative peggiori che minacciano anche la loro vita.
Antonio Quirici e Diego Dolcini (iStock)
content.jwplatform.com
Arrivò prima dei fratelli Lumière il pioniere del cinema Filoteo Alberini, quando nel 1894 cercò di brevettare il kinetografo ispirato da Edison ed inventò una macchina per le riprese su pellicola. Ma la burocrazia italiana ci mise un anno per rilasciare il brevetto, mentre i fratelli francesi presentavano l’anno successivo il loro cortometraggio «L’uscita dalle officine Lumière». Al di là del mancato primato, il regista e produttore italiano nato ad Orte nel 1865 poté fregiarsi di un altro non meno illustre successo: la prima proiezione della storia in una pubblica piazza di un’opera cinematografica, avvenuta a Roma in occasione dell’anniversario della presa di Roma. Era il 20 settembre 1905, trentacinque anni dopo i fatti che cambiarono la storia italiana, quando nell’area antistante Porta Pia fu allestito un grande schermo per la proiezione di quello che si può considerare il primo docufilm in assoluto. L’evento, pubblicizzato con la diffusione di un gran numero di volantini, fu atteso secondo diverse fonti da circa 100.000 spettatori.
Filoteo Alberini aveva fondato poco prima la casa di produzione «Alberini & Santoni», in uno stabile di via Appia Nuova attrezzato con teatri di posa e sale per il montaggio e lo sviluppo delle pellicole. La «Presa di Roma» era un film della durata di una decina di minuti per una lunghezza totale di 250 metri di pellicola, della quale ne sono stati conservati 75, mentre i rimanenti sono andati perduti. Ciò che oggi è visibile, grazie al restauro degli specialisti del Centro Sperimentale di Cinematografia, sono circa 4 minuti di una storia divisa in «quadri», che sintetizzano la cronaca di quel giorno fatale per la storia dell’Italia postunitaria. La sequenza parte con l’arrivo a Ponte Milvio del generale Carchidio di Malavolta, intenzionato a chiedere al generale Kanzler la resa senza spargimento di sangue. Il secondo quadro è girato in un interno, probabilmente nei teatri di posa della casa di Alberici e mostra in un piano sequenza l’incontro tra il messo italiano e il comandante delle forze pontificie generale Hermann Kanzler, che rifiuta la resa agli italiani. I quadri successivi sono andati perduti e il girato riprende con i Bersaglieri che passano attraverso la breccia nelle mura di Porta Pia, per passare quindi all’inquadratura di una bandiera bianca che sventola sopra le mura vaticane. L’ultimo quadro non è animato ed è colorato artificialmente (anche se negli anni alcuni studiosi hanno affermato che in origine lo fosse). Nominata «Apoteosi», l’ultima sequenza è un concentrato di allegorie, al centro della quale sta l’Italia turrita affiancata dalle figure della mitopoietica risorgimentale: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini. Sopra la figura dell’Italia brilla una stella che irradia la scena. Questo dettaglio è stato interpretato come un simbolo della Massoneria, della quale Alberici faceva parte, ed ha consolidato l’idea della forte impronta anticlericale del film. Le scene sono state girate sia in esterna che in studio e le scenografie realizzate da Augusto Cicognani, che si basò sulle foto dell’epoca scattate da Ludovico Tumminello nel giorno della presa di Roma. Gli attori principali del film sono Ubaldo Maria del Colle e Carlo Rosaspina. La pellicola era conosciuta all’epoca anche con il titolo di «La Breccia di Porta Pia» e «Bandiera Bianca».
Continua a leggereRiduci