2024-02-26
«Grazie a Instagram oggi suono coi miei eroi. Io influencer? Mai»
Matteo Mancuso (Paolo Terlizzi/Sixhats Studio)
Il chitarrista siciliano Matteo Mancuso osannato da Steve Vai: «Per chi fa musica strumentale gli Usa sono un sogno. La tecnica è solo un mezzo».In America è nata una stella, ma si sono dimenticati di avvisarci, perché sarebbe di casa nostra. Più precisamente di Casteldaccia, Palermo. A star is born, come dice Lady Gaga, ma forse ci eravamo distratti noi, impegnati a discutere, tra un bicchier di vino e un caffè, di John Travolta, del Ballo del qua qua e del televoto di Sanremo. Nel frattempo Matteo Mancuso, 27 anni, una sorta di Sinner della chitarra elettrica (che però paga le tasse in Italia, Aldo Cazzullo stia sereno), faceva il suo ingresso come illustre docente nell’università del rock fondata da Steve Vai a Orlando (Florida). Inanellava date sold out sulla West Coast, firmava autografi al suo terzo Namm show (la più grande fiera al mondo dedicata agli strumenti musicali, ad Anaheim, in California). E veniva intervistato da Rick Beato. Per chi non lo conoscesse è il musicista-youtuber che accoglie nel suo studio di Atlanta solo l’élite mondiale degli strumentisti jazz, rock e blues. Ed è l’unico a cui Keith Jarrett ha aperto le porte di casa, mostrando - in un documento video eccezionale, per un artista che ai tempi non gradiva nemmeno i flash degli smartphone - cosa significhi improvvisare al pianoforte, dopo due ictus, adoperando solo la mano destra. Potremmo fermarci qui, ma mancano un paio di dettagli che fanno riflettere. Innanzitutto il titolo scelto da Beato per il suo dialogo con Matteo Mancuso: «È il miglior chitarrista del mondo?». E, senza dargli un peso eccessivo, le visualizzazioni su Youtube: 800.000 per Jarrett in undici mesi, 1,8 milioni per Mancuso in uno.Partirei dai social network, dato che i suoi idoli si sono accorti di lei proprio per i video che nel corso degli anni ha caricato in Rete. Niente balletti su TikTok, niente meme, né tantomeno «faccette». Piuttosto composizioni originali, cavalcate elettriche e trascrizioni di assoli di culto di qualche mostro sacro, che poi passava a commentare e a incoraggiare (due nomi pescati dal mazzo: il sassofonista Bob Mintzer e il chitarrista Joe Bonamassa). Il tutto senza mettere il naso fuori dal suo home studio in Sicilia. «Vent’anni fa tutto questo non sarebbe stato possibile e posso solo ringraziare la tecnologia. Conosco i lati negativi dei social, ma ho provato a sfruttare le loro potenzialità, avendo ben chiaro che i numeri non vanno confusi con il successo. Il mio profilo Instagram lo uso come curriculum. Dopodiché voglio fare il musicista, non l’influencer o il content creator».I riconoscimenti della scena che conta sono arrivati abbastanza in fretta. Che effetto le hanno fatto, soprattutto all’inizio? «Certi complimenti danno la carica, ma destabilizzano anche un po’. Uno dei primi fu Tosin Abasi, chitarrista prog metal americano, che in un’intervista disse delle cose bellissime su di me. Poi in qualche modo Al Di Meola mi ha notato e in poco tempo è nata l’occasione di suonare assieme. Non sembra vero neanche a raccontarlo». Il tam tam deve aver raggiunto in fretta anche Steve Vai, che circa due anni fa, su queste colonne, ci confidò: «È l’età dell’oro della chitarra elettrica. Matteo Mancuso sta portando avanti l’evoluzione dello strumento, sia nel suono, sia nella tecnica. È magnifico». Niente male, anche se il passaggio nel quale dichiarava di non aver mai sentito parlare dei Måneskin colpì di più.«Quella su di me è la classica frase che mette pressione, di cui parlavamo prima» (ride). «Scherzi a parte, Steve con me è sempre stato gentilissimo, anche se non trovavamo mai l’occasione di incontrarci di persona. Poi, finalmente, quest’anno ho potuto partecipare all’avventura della Vai Academy 7.0».Com’è stato insegnare insieme a colleghi come il funambolico tastierista dei Dream Theater, Jordan Rudess?«Per far capire che tipo di persona è Steve Vai basterebbe dire che c’erano più di 200 iscritti e lui ha voluto fare una jam session sul palco con ognuno di loro. Conoscere così tanti musicisti è stato fantastico anche per me. E poi Rudess era uno dei miei eroi, da adolescente consumavo i dischi della sua band. Ha una tecnica pianistica mostruosa e ora sta pure esplorando il mondo delle chitarre. Ad ogni modo, non ero l’unico italiano a insegnare là dentro. C’era un altro chitarrista fenomenale. Il suo nome è Daniele Gottardo».Senza vittimismi, ma sembra esserci più attenzione per quello che stanno combinando dei musicisti come lei e Gottardo dall’altra parte dell’oceano. Come se lo spiega?«Credo che contino i numeri e un aspetto culturale. Gli Stati Uniti sono un posto talmente enorme che radunare gli appassionati di musica strumentale risulta meno difficile. E forse, nella patria del blues, del jazz e del rock è anche considerato un genere meno di nicchia».Su come provare a definire la sua musica ci arriviamo dopo. Mi incuriosisce però la sua tecnica, che la differenzia da tutti gli altri e che suscita sempre parecchia curiosità. Forse per capirci qualcosa dobbiamo tornare ai suoi primi passi. «Ho iniziato a suonare intorno ai 10 anni, osservando mio padre, chitarrista professionista. Anche se è stato una guida all’ascolto, più che il classico insegnante».Un inizio da autodidatta guidato. «Esatto. Subito dopo mi sono iscritto al Conservatorio. All’epoca non esistevano i corsi di jazz e così mi sono imbattuto nella chitarra classica». Le piaceva?«Sì, ma non ero uno studente modello. Mi annoiava un pochino rispetto all’elettrica». Però le avrà dato una base importante. Il jazz invece quando l’ha approfondito?«Più avanti. E su questo è stato determinante mio papà, che pian piano ha iniziato a farmi ascoltare i dischi di Wes Montgomery, Django Reinhardt, Barney Kessel. Poi quando finalmente la materia è entrata nei Conservatori, il mio primo vero insegnante è stato Paolo Sorge». Da questo mix di esperienze è nato il suo approccio originale, che non prevede l’utilizzo del plettro nemmeno nell’ambito elettrico. «In realtà parte tutto da un equivoco. Io da bambino osservavo mio padre che con la mano destra utilizzava solo le dita, per cui ho immaginato che si facesse così con ogni tipo di chitarra, classica o elettrica che fosse. Gli altri invece per quest’ultima utilizzano il plettro. Quando ho scoperto la sua esistenza, ormai avevo già una mia impostazione solida e per pigrizia non l’ho mai cambiata. Mi dicevo: il plettro? Un giorno proverò, un giorno proverò...». Una fortuna, direi. Ma la sua tecnica ha un nome?«Non saprei, sicuramente è un mix di tecnica bassistica e classica. Qualcuno l’ha definita “chitarra flamenco”, ma credo che sia qualcosa di differente. Il fingerstyle non l’ho certo inventato io, ma mi sono costruito un mio mondo, come il brasiliano Andre Nieri, che con il suo ibrid picking va in una direzione ancora diversa. Io utilizzo le dita per qualsiasi cosa». Secondo lei perché non ci aveva pensato nessuno?«Innanzitutto perché la letteratura della chitarra elettrica è il regno del plettro, da Jimi Hendrix a Jimmy Page. E poi servono unghie molto forti, altrimenti con quel tipo di corde si consumano subito». Direi che chi vuole approfondire ancora può rivedersi la sua intervista sul canale Youtube di Nick Beato. «Sì, ma in generale mi piacerebbe che le persone parlassero di me più per quello che suono rispetto a come lo faccio. La tecnica è soltanto un mezzo, quello che conta è la musica. A proposito, Beato è stato davvero gentile, ma non mi sento “il più grande chitarrista del mondo”. L’arte non è come il tennis, non c’è ranking».Non credo che le etichette le piacciano, ma quando le chiedono che genere fa cosa risponde?«Classificare la musica è un errore a monte. A me piacciono molte cose differenti e sento di aver assorbito stili diversi».I jazzisti la osservano con curiosità, anche se lei frequenta mondi limitrofi. I festival del settore la invitano, con ottimi risultati, come è accaduto a Ravenna jazz l’anno scorso. Crossroads 2024 ha già annunciato il suo concerto del 13 luglio a Rimini. Domanda secca: si sente un jazzista?«Nel vero senso della parola no. Contaminato con altro sì. Non credo di poter suonare bebop in maniera convincente e non voglio dedicarmi a un genere solo, escludendone altri». La sua formazione preferita resta il trio?«Sì, ne ho due e il bello è che sono tutti musicisti palermitani: uno con Giuseppe Bruno alla batteria e Stefano India al basso, l’altro con Gianluca Pellerito e Riccardo Oliva. Si possono ascoltare entrambi nel mio primo album, The Journey».Sta già lavorando al secondo?«Sì, ma voglio prendermi tempo per trovare la direzione giusta. The Journey racconta la prima fase della mia vita artistica. Il prossimo non deve suonare dimostrativo. Potrebbe essere anche meno chitarristico, se così si può dire».Possono essere d’ispirazione i dischi di un’altra formazione strumentale italiana come il Trio Bobo (Faso, Christian Meyer, Alessio Menconi)?«Stiamo parlando di musicisti fantastici, che ascolto tantissimo. La mia dimensione però è più rockettara: non posso stare senza la chitarra in distorsione e gli overdub (sovraincisioni, ndr). Se devo fare un nome di cosa mi ispira di più oggi dico il Pat Metheny Group».Per chiudere, continuerà a vivere a Casteldaccia o pensa di trasferirsi negli Stati Uniti?«Voglio iniziare una nuova esperienza a Milano. Anzi, avrei già dovuto essere lì...».E cosa l’ha fermata?«Il costo degli affitti».