2021-04-26
Claudio Marenzi: «Siamo allo stremo. È inammissibile dover restare chiusi»
Il presidente di Pitti Immagine: «La moda fattura 100 miliardi di euro. Mai chiesto aiuti allo Stato. E ora la politica ci snobba».Come va? «Andiamo. Ormai ho dei muscoli nelle braccia pazzeschi a furia di remare controcorrente, è un bell'allenamento e per fortuna ci siamo allenati anche prima». Claudio Marenzi, presidente e amministratore delegato di Herno, azienda produttrice di impermeabili dal 1948 a Lesa (Novara) nella valle dell'Erno, l'industriale che di fatto ha creato Confindustria moda ed è l'attuale presidente di Pitti Immagine, guarda alla situazione del settore con una certa preoccupazione ma è carico come una molla.Che significa remare controcorrente?«I problemi sono tantissimi. Chiusure, aperture, richiusure. Paesi che vanno bene, altri che vanno male. La distribuzione si è divaricata in due: parafrasando Bauman, una è “liquida" ed è quella del commercio online, anche perché non è del tutto regolarizzata nei prezzi e nei canali distributivi. Ma è vincente, la strada era già aperta e il Covid ha fatto da acceleratore a situazioni in atto». E l'altra?«Direzione esattamente opposta, per cui si parla sempre più di una distribuzione di prossimità. Puoi comprare dall'altra parte del mondo da casa sul tuo computer e poi scendi le scale e ti compri qualcos'altro lì sotto».Che cosa ha comportato questo?«Una rivisitazione del prodotto, perché devi soddisfare il consumatore di tante zone. Quel che va in Italia non va in Russia o in Cina. L'idea stessa della collezione cambia, devi essere più flessibile. Devi immaginare e capire i mercati singoli, non più fare proposte ampie e sparare nel mucchio. Devi essere molto preciso». Quindi?«C'è un aspetto di ricerca e sviluppo che deve aumentare e di conseguenza salgono i costi perché va diversificata la produzione».Tutto questo accade a causa della pandemia?«Certo. Ad esempio, la Russia è un Paese che per noi ha dato numeri positivi: le vendite sono cresciute. I grandi marchi, che sono i catalizzatori del consumo, vendono ovunque ma i medio piccoli devono essere più flessibili. Chi ha avuto il maggior nocumento dalla pandemia sono quei luoghi che prima attraevano il turismo dello shopping. Si tornerà alla normalità, ma ci vorrà tempo». Che ne pensa del rischio calcolato che si è preso Mario Draghi di riaprire gradualmente?«Hanno ragionato calcolando pro e contro e hanno capito che nella chiusura ci sono tanti contro. E poi non è più ammesso restare chiusi. La Germania allungherà di un altro mese ma non ha il nostro debito, è sicuramente più sana di noi e se lo può permettere. Noi no. Non si può giocare sulla pelle delle persone dato che ci sono ancora centinaia di morti al giorno, ma non possiamo pensare come i Paesi più forti. Sarebbe come se io ragionassi come Gucci: non ho quel fatturato, quei margini e quella disponibilità economica. La nostra società, la nostra vita è fatta anche dall'economia: dobbiamo creare i soldi che ci servono anche per la sanità». Se dovesse dire che cosa non va?«Quando tolgono i divieti sembra aprano le gabbie degli zoo. Mi considero un ragazzo di campagna, vivo sul lago, non mi viene d'andare a girare come un matto, semmai vado in bicicletta nei boschi. Mi stupisce la reazione delle persone. E mi spaventa questo casino che si crea. Dall'altra parte, mi fa pensare che quando ne usciremo si tornerà alla normalità tanta è la foga». Secondo lei si ripartirà alla grande, quindi?«Brunello Cucinelli ha detto che quando si potrà tornare al ristorante cenerà tre volte per sera. Ha ragione, si vede questa voglia pazzesca e questo mi fa ben pensare che torneremo alla nostra vita. In questo momento bisogna essere estremamente flessibili, rapidi, veloci di mente, cambiare e mettere in discussione qualsiasi cosa. E lenti nel medio e lungo termine. Bisogna essere freddi, non avere paura di fare passi importanti sul lato economico e organizzativo, sapendo che le cose torneranno come prima. Lo dico guardando la reazione della gente appena si apre». Come si possono incentivare la ripresa e la crescita?«È un momento drammatico ma, al contempo, estremamente eccitante, pieno di energia e di possibilità di fare cose diverse da prima e operare grandi cambiamenti». In che senso?«Mi sento imprenditore, industriale con la i maiuscola, non faccio speculazioni, mi piace fare, lavorare, cambiare. Se torno indietro di un paio d'anni era tutto già segnato, quasi noioso, piatto. Ora c'è un mondo da riscoprire e riconquistare. E guardi che nel periodo buio ci siamo finiti anche noi. Nel 2020 abbiamo chiuso con un -15% mentre avevamo previsto un +10% per cui, di fatto, la differenza è 25%. E quest'anno soffriremo ancora. Abbiamo davanti una primavera 2022 difficilissima perché non abbiamo venduto le due precedenti. Ci stiamo inventando nuovi prodotti, sempre diversi. Ogni giorno che entri in azienda ti rendi conto di quello che devi affrontare». La politica aiuta la moda o siete voi a non chiedere aiuti?«Ora li stiamo chiedendo tutti, e il problema è che lo stiamo facendo in troppi. Ci ho provato, da presidente di Confindustria moda, a mettere insieme il più possibile l'intera filiera ma non è stato sufficiente. La moda si è sempre dovuta confrontare con il mercato, non abbiamo mai avuto il settore pubblico come referente a differenza di altri settori produttivi, come l'edilizia o la sanità, che possono averlo come fornitore o cliente. Anche in Confindustria ci sono settori meno importanti del nostro per fatturato ed export, ma hanno maggior peso perché sono sempre stati in contatto con il pubblico». E ora cosa chiedete?«Per vendere a Neiman Marcus, grandi magazzini del lusso americani, non hai bisogno di parlare con il ministro. Ora, invece, anche la moda ha bisogno di una mano, soprattutto negozi e aziende con posizioni finanziarie difficili. Chiediamo aiuto senza esserci abituati e quindi facciamo casino. Siamo scoordinati, c'è Altagamma, Camera della moda, Smi, Confindustria moda, le varie nostre associazioni. Ma sono positivo e vedo tutte le cose in modo laico. Vedo l'impegno». Dal canto suo, invece, come pensa che la politica abbia visto il vostro settore?«A volte non l'ha manco considerata un settore industriale, tutt'al più un fatto di costume con valenze d'immagine per promuovere il made in Italy. Non hanno mai visto i numeri ma li abbiamo dimostrati e ne parlano tutti. Ora si rendono conto che si tratta di un comparto da 100 miliardi di fatturato, 28 miliardi di bilancia commerciale positiva, 650.000 addetti. I politici si sono sempre vergognati di mettere la faccia nel nostro mondo, a parte un paio di casi. Dovrebbero prendere esempio dalla regina Elisabetta o da Emmanuel Macron, sempre presenti agli appuntamenti importanti della moda nei loro Paesi. Qualcuno ha riconosciuto che a fine anni Novanta siamo stati i primi a prenderci in faccia la globalizzazione e a subirne le conseguenze, con più di 400.000 posti di lavoro persi in 20 anni. Il settore del tessile, abbigliamento e accessori è stato devastato per la delocalizzazione in Cina e le aperture selvagge fatte in Europa senza dazi. Nessuno ci ha mai aiutato: ci siamo rimboccati le maniche e siamo andati avanti».Pensa sia possibile un reshoring?«È possibile solo se si mette mano al costo del lavoro e alla parte contributiva. Il reshoring lo abbiamo in parte fatto accordandoci nello sviluppare l'alto di gamma dove siamo i leader mondiali. In Europa rappresentiamo il 44% di tutta la produzione della moda e accessori, il secondo Paese è la Germania con l'11% e la Francia intorno al 7%. Siamo 30 punti sopra il secondo Paese, così come la Germania nell'automotive. Chi vuole produrre nell'alto di gamma deve venire in Italia tanto che i francesi arrivano qui a comprare non solo marchi ma fabbriche che mantengono così e spesso le migliorano». In questo momento particolare di grandi difficoltà si rischia una guerra di acquisizioni da parte di gruppi o fondi stranieri?«Il sistema della moda ora è debole. Per chi vuole speculare è un'occasione, si compra a cifre vantaggiose. Una forma di speculazione anche necessaria, perché ci sono aziende che avranno bisogno di essere ricapitalizzate. Il problema è che la crisi diventa patrimoniale e dopo ci sono le chiusure. C'è chi non sa più come andare avanti e succede anche nelle aziende».C'è un'Italia con la pancia piena, quella delle buste paga garantite, e una con la pancia vuota. «Questo ha anche acutizzato una battaglia sociale tra chi ha lo stipendio fisso e le partite Iva. Si sta acutizzando una diatriba sociale che è l'opposto della solidarietà che dovrebbe esserci in questo momento. Invece si allargano sempre più i divari sociali». Secondo lei Draghi ce la farà? Se dovesse dargli qualche consiglio, cosa gli direbbe?«Di mettere in pratica quello che ha sempre detto: creare debito buono, tutto quello che può portare a una crescita, e riducendo l'assistenzialismo aiutando chi ha bisogno nelle forme giuste. Non lasciare nessuno indietro ma affrontare qualsiasi tema con uno spirito di crescita. Bisogna essere molto selettivi sui progetti da portare avanti domandandosi sempre se porta ricchezza, valore aggiunto, possibilità d'incrementare i posti di lavoro». Ha fatto il vaccino?«Non ancora. Attendo il mio turno. Qui in Piemonte mi sembrano abbastanza avanti quindi mi aspetto di esser chiamato a breve».