2022-12-19
Marco Fortis: «Ma quale canna del gas, siamo solidi»
Marco Fortis (Imagoeconomica)
L’economista: «Le nostre pmi sono leader nell’export con prodotti in tanti mercati del mondo. La pandemia ha evidenziato la forza italiana. Le defiscalizzazioni per le aziende vanno rese stabili, basta con le proroghe».Marco Fortis, vicepresidente e «motore» della Fondazione Edison, insegna economia industriale e commercio estero all’Università Cattolica. Economista atipico. Parla sempre di industria quasi lavorasse in officina. nguaribile ottimista. Secondo me esagera…«L’Italia spesso raccontata alla canna del gas in realtà alla canna non ci è mai arrivata. Vi sono spiegazioni sottostanti. L’economia reale è robusta. L’industria manifatturiera, il turismo e la stessa agricoltura ci vedono primeggiare nel mondo. Basi formidabili per resistere nei momenti difficili. Creano ricchezza e risparmio. E la dimensione aiuta».Piccolo è bello?«No. Non sono un cantore di questo slogan. Quando si dice piccolo, spesso si pensa alla microimpresa statisticamente con meno di 20 addetti. Ma le imprese da 20 a 49 dipendenti mettono in difficoltà anche le multinazionali. Sono leader nell’export con prodotti in tanti mercati del mondo nonostante le nostre criticità: settore pubblico inefficiente, divario nord sud e molti settori nei servizi non aperti alla concorrenza».Lei sostiene che la pandemia ha evidenziato la forza dell’Italia. Ho capito bene?«Sì, ha capito bene. Guardo i dati degli ultimi sette trimestri con Draghi al governo. Come crescita siamo sotto la Gran Bretagna la cui economia è però caduta più della nostra. Al terzo trimestre 2022 ancora sotto dello 0,4% rispetto al livello prepandemia. L’Italia +1,8%. La Francia +1%. La Germania +0,3%. La Spagna addirittura -2%. Abbiamo fatto meglio sia nei consumi delle famiglie che negli investimenti delle imprese. Anche il nostro export, misurato in quantità e non in valore ha fatto meglio. E aggiungiamoci poi che noi non abbiamo neanche fatto leva sulla spesa pubblica, come invece la Germania».Aggiungiamolo pure.«l nostro debito pubblico rispetto al 2019 aumenta del 14% circa. Francia e Spagna +20%. Stati Uniti e Gran Bretagna oltre il 30%. Le previsioni ci davano per spacciati e sbagliavano. Vedo e percepisco le innovazioni. La gran mole di investimenti resa possibile con l’industria 4.0».Ancora lei sostiene che le imprese italiane stanno investendo più dei concorrenti esteri. Anche qui ho capito bene?«Non solo stanno investendo ma hanno investito di più dei loro competitor. Fatto 100 nel 2015 il livello dei nostri investimenti, noi siamo arrivati a 140 e la Germania a 110. Investimenti fatti a tassi molto bassi. Chi oggi deve recuperare il gap deve pagare di più. Tutto reso possibile dall’industria 4.0. E lo dico con un pizzico di autocompiacimento». Ne deduco che lei sia il padre dell’industria 4.0.«Diciamo un ispiratore. Ci hanno lavorato i tecnici del Mise e Confindustria dopo che l’allora premier Renzi mi chiese come dare una frustata all’economia. Ma l’embrione del progetto risale al 2012».Addirittura?«Il premier Monti vedeva come l’austerità avesse provocato una caduta della domanda interna considerevole e proposi misure a basso costo che potessero rilanciare l’economia. Tra queste, la possibilità di defiscalizzare con i super ammortamenti gli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto. L’iniziativa non decollò perché vi furono le elezioni nel 2013 e il successivo governo Letta durò un anno. Con i governi Renzi prima, e Gentiloni poi, furono aggiunti gli iperammortamenti per investimenti in tecnologia digitale e cloud. Le dirò di più…».Dica pure.«Vede io non sto al tornio come dice lei. Quest’anno avrò visitato più di 50 aziende. E mi ha colpito l’impatto qualitativo oltreché quantitativo della misura. Le imprese italiane hanno fatto investimenti, ma hanno acquistato soprattutto tecnologie italiane. Se si toglie la robotica di grande dimensione che arriva dal Giappone, l’Italia è in grado di produrre e fornirsi la tecnologia che le serve. E per produrre tecnologia serve investire in tecnologia. Serve soltanto che questo governo comprenda come questa misura debba essere resa strutturale. Non proroghe di anno in anno. Le piccole imprese se decidono di fare il passo più lungo della gamba devono poter contare su un sistema stabile di crediti di imposta. Abbiamo imprese piccole e medie che non possono avere la capacità finanziaria di una Siemens, per intendersi. Vanno date certezze».Globalizzazione significa catene di produzione lunghe e disperse nel mondo. L’Italia preferisce un modello corto. Ed anche qui vince, dice lei. Il solito ottimista…«Sottolineo due aspetti. In primis la differenziazione della nostra industria. Tolta l’energia, abbiamo una bilancia commerciale positiva di 97 miliardi di dollari. Sesti al mondo dietro Cina, Germania, Giappone, Corea e Taiwan. Berlino dipende soprattutto dalle auto. La Corea da elettronica e telecomunicazioni. Noi non abbiamo grandissime aziende e neppure grandissimi comparti. Sa cosa significa?».Cosa?«Se a Taiwan togli i semiconduttori vanno in rosso. Se a Giappone e Corea togliamo i primi cinque comparti di export, scendono ad appena 20 miliardi di dollari. Ma se all’Italia togliamo i primi cinque comparti (soprattutto auto di lusso, farmaceutica, agroalimentare in particolare vino) perdiamo “appena” 27 miliardi su 97». Si direbbe oggi che siamo resilienti.«L’aggettivo non mi piace. Siamo meno vulnerabili ai nuovi ed imprevedibili caos. Poi c’è l’altro aspetto. Le faccio un esempio. Siamo leader mondiali nella produzione di yacht. Ma un grande cantiere ne produrrà al massimo quattro/otto in uno/due anni. Se viene a mancare un componente, perdoni la brutalità, l’elettricista sotto casa risolve il problema. Se l’industria dell’auto che viaggia su numeri enormi, perde la momentanea disponibilità di un fattore intermedio chiave, ecco che si blocca un intero comparto e tutto il relativo indotto. Oltre che meno vulnerabili siamo quindi più reattivi. Ci produciamo in casa semilavorati specifici ed in piccoli lotti. Non massificati ma funzionali all’industria di riferimento».Tento a scalfire il suo inguaribile ottimismo. La produzione industriale sta calando. Dati di questa settimana.«Se diminuisce in tutta Europa non può sfuggirvi l’Italia. Ma pure qui registriamo come la produzione industriale italiana sia quella cresciuta di più nel 2021. A parte l’Irlanda; caso anomalo data la presenza di multinazionali fiscalmente localizzate li più che fisicamente. La crisi energetica pesa. Ma nel 2022 si è aggiunta la rinascita del settore dei servizi e del turismo. Già a marzo le città d’arte erano piene di turisti stranieri. La campagna vaccinale di Draghi ha dato i suoi frutti».Fremo in vigoroso dissenso. Il green pass è stata una misura recessiva e lacerante.«Ma al di là delle opinioni diverse, rilevo come molto sia stato fatto anche per ridurre la disuguaglianza. Ad esempio l’estensione dell’assegno unico universale ai lavoratori autonomi. Un bonus mensile mediamente pari a 125 euro. 1.500 l’anno. Per un figlio. Se ha due figli sono 3.000 euro. Un week end in più in una città d’arte. Un successo che rende “sopportabile” un’inflazione al 12% a causa dell’energia. E l’Istat certifica che la disuguaglianza è diminuita. E prima o poi i dati Usa dicono che l’inflazione cesserà di aumentare anche qua».Pure qui ottimista.«No, guardi non è questione di ottimismo o pessimismo. Ma di conoscere le rudimentali basi della statistica. Una crescita tendenziale (anno su anno) a maggio pari all’8% e con crescite congiunturali (mese su mese) in diminuzione porteranno fra un anno a un’inflazione più bassa. Se poi il quadro geopolitico migliorasse avremmo ulteriori giovamenti. Sa che i consumi delle nostre famiglie nel terzo trimestre del 2022 sono superiori dello 0,4% rispetto ai livelli prepandemia e in Spagna sotto del 5%?».L’azzeramento della bilancia commerciale controbilanciato dalla crescita dei consumi?«Non è corretto. Inevitabilmente i consumi rallenteranno e cresceremo secondo le stime attuali dello 0,4%. E comunque la bilancia commerciale non peggiora perché esportiamo di meno o importiamo di più. Ma solo a causa del caro energia. Non vedo mai contributi negativi o positivi dalla bilancia commerciale superiori in valori assoluto dello 0,5% alla crescita del Pil. Le componenti più importanti sono consumi e investimenti. E se calassero gli investimenti privati in edilizia con l’esaurirsi del superbonus, ripartiranno le opere pubbliche anche grazie al Pnrr». Prima della guerra la Germania era la porta dell’ingresso in Europa del gas russo. Potremmo ora a ere noi quel ruolo con l’energia del Nord Africa?«Il gas servirà ancora per almeno 20-25 anni. Dai fondali off-shore in Medio Oriente si può tornare a pensare al gasdotto che parte da Israele (Paese più stabile di Azerbaijan o Mozambico). Il tubo passerebbe per Cipro e Grecia. E poi potremmo coinvolgere la Turchia. Un progetto dove sono Impegnate Chevron e Edison. Realizzabile in cinque anni. Ed avremmo 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Perché vede i rigassificatori - comunque necessari - non sono soluzioni stabili ma provvisorie. Il gas liquefatto viaggia per nave e va dove lo paghi di più. Quello via tubo è più stabile nella quantità e nel prezzo. Ma ci siamo illusi di poter comprare il gas russo a prezzo basso. Senza i rigassificatori già presenti e il Tap oggi dipenderemmo da Mosca per 35 miliardi di metri cubi di gas e non 20».Ita Airways, rete unica Telecom, Acciaierie Iilva e Lukoil Priolo. Quattro dossier complicati per il ministro del Made In Italy Urso. Che voto le dà?«Ha risposto lei. Dossier difficilissimi. Il ministro Urso ha competenza, conoscenza ed esperienza sul commercio estero. Lo vedo molto sul pezzo. Sono stato suo consulente nei governi Berlusconi. Un politico con solida preparazione tecnica. Giudizio ovviamente positivo!».