
Di qui al 2025 ci saranno 16.700 dottori in meno di quello che ci servirebbe. Produciamo laureati che però restano bloccati dal sistema delle specializzazioni. Anche il recente aumento dei posti è insufficiente. Sono 20.000 i giovani intrappolati in questo folle meccanismo.Continuiamo a lamentarci perché non ci sono dottori negli ospedali, ma se il nostro Paese chiama a lavorare stranieri o pensionati è solo perché un medico italiano su due rimane fuori dalla specializzazione, quindi dal Sistema sanitario nazionale, per mancanza di borse di studio. Anche il recente aumento dei posti a disposizione, stanziato con decreto ministeriale dell'8 luglio, rimane insufficiente rispetto al numero di laureati. Conseguenza di anni di errate programmazioni del numero di contratti di formazione.Anaao assomed, il sindacato dei medici e dirigenti del Servizio sanitario nazionale, lo scorso marzo aveva stimato una carenza di 16.700 medici specialisti tra il 2018 e il 2025, legata anche ai pensionamenti. Un'emergenza che non può essere colmata: a fronte di 10.000 laureati in medicina ogni anno, nel prossimo quinquennio i giovani medici bloccati nell'imbuto formativo salirà a 20.000. Quelli che non ritentano l'ammissione o che non lasciano il Paese (con grande spreco di costi per la formazione che hanno ricevuto), rimangono senza lavoro. E le corsie d'ospedale restano sempre più vuote. «L'aumento odierno dei contratti resta nettamente inferiore al numero dei candidati e al potenziale formativo di quasi 11.000 posti l'anno dichiarato della rete universitario-ospedaliera», commenta Stefano Guicciardi, presidente di Federspecializzandi, l'associazione nazionale dei medici in formazione specialistica, riferendosi al numero di medici specialisti che il nostro Paese è in grado di formare in base a parametri ben precisi, ma che senza borse di studio rimane un obiettivo impossibile. Spiega meglio: «I sistemi di valutazione e il monitoraggio sono definiti dalla legge 402 del 2017 su standard, requisiti e indicatori di attività delle scuole di specializzazione di area sanitaria. Per formare un cardiologo, ad esempio, con il numero di interventi o visite che deve fare nel corso della sua specializzazione, serve la certezza che il policlinico o l'ospedale di riferimento possano garantire spazi adeguati, gestione organizzativa, amministrativa, didattica e tecnica sanitaria delle relative attività richieste. La rete viene coordinata dall'Osservatorio nazionale per la formazione medica specialistica che è un organo tecnico interministeriale, con rappresentanti del ministero della Salute e dell'Istruzione. Ogni anno riceve le proposte di accreditamento delle varie scuole di specializzazione, ne valuta standard quantitativi e qualitativi in base alla legge e definisce quante possono essere aperte, o rimanere autorizzate». L'aggiornamento ha scadenza annuale e rappresenta la capacità professionale (non finanziaria) del nostro Paese di formare specialisti. Elemento fondamentale, per capire il divario tra il numero di neolaureati che possono essere seguiti nel migliore dei modi e le borse di studio che invece vengono offerte da Stato e Regioni per rendere operativi i medici nel Sistema sanitario nazionale. Una differenza numerica pesantissima. «Per valutare quanti contratti realmente servono, occorre sapere quanti specialisti si possono formare e a questo ci pensa la rete universitario-ospedaliera, come appena spiegato», precisa Guicciardi. «Ogni triennio, inoltre, la Conferenza Stato Regioni stabilisce il numero di specialisti necessari per coprire i fabbisogni. Sono circa 8.500 ogni anno: situazione un po' strana, perché il numero è differente e più basso di quello fornito da università, aziende e istituzioni accreditate. Ma è anche inferiore al numero dei contratti che sono stati offerti fino a quest'anno, quando per la prima volta superano gli 8.500. Consideriamo poi quanti candidati tentano ogni anno il concorso: almeno il doppio. Sono tutti numeri non allineati. C'è una rete che potrebbe accogliere tutte le richieste degli specializzandi, ma le borse di studio non bastano. A fronte di un potenziale formativo superiore al numero di contratti messi a disposizione, le borse finanziate da Stato e Regioni non sono sufficienti. Da almeno 7-8 anni». Il paradosso è che servono medici specialisti, esiste un surplus di medici da formare ma non vengono fornite le risorse adeguate per formarli. Aggiunge il presidente di Federspecializzandi: «Attenzione, si pensa che l'università faccia lezioni frontali e l'ospedale impegni sul campo. Non è così, siamo in corsia dal primo anno». Guicciardi lamentava che il test per le scuole di specializzazione in medicina dello scorso 2 luglio si fosse svolto in un clima di «molta frustrazione e molta rabbia», perché «non si conosceva il numero effettivo dei posti totali né la distribuzione». Solo una settimana dopo, l'8 luglio, il Miur pubblicava infatti il decreto con i posti disponibili e la suddivisione dei contratti. Ne risultavano 8.776, poi ci sono state ulteriori integrazioni delle Regioni e la cifra complessiva è di 8.905 contratti di formazione medica specialistica per l'anno accademico 2018-2019, a fronte dei 6.934 assegnati lo scorso anno. Di questi, 8.000 sono finanziati con risorse statali (erano 6.200 l'anno scorso), 741 contratti vengono garantiti con fondi regionali (a fronte dei 640 dello scorso anno) e 164 con risorse di altri enti pubblici o privati (per il 2017/2018 erano 94). «In risposta al bisogno del Paese di un maggior numero di medici, il governo stanzia 100 milioni in più, a regime, per finanziare nuovi contratti di formazione per gli specializzandi medici. Vengono incrementate anche le borse per i corsi di medicina generale», dichiarava il ministro dell'Istruzione e dell'Università. Il nuovo decreto a firma Marco Bussetti aumenta le borse di studio (lo sorso anno al concorso si presentarono quasi 16.000 candidati mentre i posti erano 6.900), ma non basta: circa 8.000 medici restano anche quest'anno fuori dal Sistema sanitario nazionale e non potranno lavorare perché non possono accedere alle scuole di specializzazione post laurea. «I posti sono ancora troppo pochi. Purtroppo, però, si parla sempre e solo di carenze numeriche, senza considerare le condizioni in cui lavorano i medici che escono dalle scuole di formazione», interviene Giovanni Di Perri, direttore della divisione universitaria di malattie infettive dell'ospedale Amedeo di Savoia a Torino. «In ospedale devono svolgere le funzioni più delicate, devono accollarsi ogni genere di assicurazione, ma un primario guadagna meno di un medico di base, che percepisce uno stipendio netto di 5.000 euro al mese. Gli specialisti sono pagati male dal medesimo datore di lavoro, cioè lo Stato, per questo sono già scappati e con molte probabilità continueranno a farlo quelli che formeremo in più. O miglioriamo l'attrattiva dei nostri posti di lavoro o i giovani preferiranno andare all'estero. Cinque dei miei medici usciti dalla scuola di specializzazione sono a Londra e quella che guadagna meno, a 34 anni si porta a casa 9.000 sterline nette al mese. Il Regno Unito se li è presi già ben formati senza spendere nulla. Perché la nostra università lavora bene, smettiamola di denigrarla», si infiamma Di Perri. Il suo dipartimento avrà cinque borse di studio finanziate dallo Stato: «Non bastano. Intanto il cittadino deve pagare l'ufficio qualità, l'ufficio politiche del personale, l'ufficio relazioni con il pubblico. Il costo della sanità in Italia assorbe una serie di voci che non riguardano l'assistenza e il comparto amministrativo è spaventosamente elevato».Il professore considera prioritaria una riflessione: «Chiediamoci che mestiere è quello del medico. Se equivale a quello del posteggiatore abusivo, continuiamo a pagarlo come si sta facendo. Ma se riconosciamo che abbiamo un'ottima chirurgia, un'ottima medicina interna, un'ottima specialistica, teniamone conto con contratti dignitosi e retribuzioni coerenti. La generazione medica che andrà in pensione tra cinque o sei anni lavora secondo l'etica e l'estetica che le sono stata insegnate, quindi lo farà sempre bene. I pochi sostituti che tra poco tempo saranno disponibili a prendere il posto della vecchia guardia, varranno quel poco che saranno pagati. Gli altri, i migliori, non li avremo perché scappati fuori Italia». Conclude Di Perri: «Si stima che nel nostro Paese il costo di una laurea in medicina sia coperto per il 92% dalle tasse pagate da 18 famiglie per sei anni. Persone che investono nella formazione di medici e che vorrebbero ritrovarsi un sistema sanitario in cui vengono curate. Se i nostri giovani specialisti li lasciamo andare all'estero, che senso ha chiedere questo sacrificio economico?».
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