2024-07-30
Maduro vince elezioni finte e inventa fascisti
Il socialista si proclama presidente del Venezuela e strilla: «Volevano impedire la mia vittoria». Il despota usa uno «storytelling» molto simile a quello dei nostri politici dem, i quali sventolano la bandiera antifa nella speranza di restare attaccati alle poltrone.Nicolás Maduro è il delfino di Hugo Chávez. Dal quale non ha ereditato l’acume né l’intelligenza politica. Solo la propensione alla violenza e alle intimidazioni, assieme alla dura dottrina del socialismo reale. Alla rumba del motto «Socialismo o muerte». Ieri ha festeggiato quella che ha definito la sua terza rielezione. A certificare la validità del voto, infatti, Maduro ha invitato principalmente osservatori da Paesi come Russia, Cina e Turchia. Tre nazioni che guarda caso hanno una grande esperienza democratica. Risultato: ieri il leader bolivariano ha tirato una linea e si è proclamato presidente con oltre il 51% dei voti. Poco importa se internet è pieno di video di squadroni al soldo del governo intenti a saccheggiare le urne. Poco importa la lista infinita di denunce di brogli. La comunità internazionale ammicca e si gira dall’altra parte. Con rare eccezioni. Il presidente dell’Argentina, Javier Milei, ha annunciato ieri mattina che il suo Paese «non riconoscerà un’altra frode» in Venezuela e si è augurato che le Forze armate di Caracas «questa volta difendano la democrazia e la volontà popolare». «I dati annunciano una vittoria schiacciante per l’opposizione e il mondo attende che si riconosca la sconfitta dopo anni di socialismo, miseria, decadenza e morte», ha affermato il leader liberista in un messaggio pubblicato su X. Pure la ministra degli Esteri argentina, Diana Mondino, ha usato i social per chiedere a Maduro, riconfermato presidente dal Consiglio nazionale elettorale del Venezuela, di «riconoscere la sconfitta». Parole cadute nel vuoto. D’altronde la rinnovata fortuna del Bolivariana sta nella necessità degli Stati Uniti di riaprire i rubinetti di greggio anche in Latinoamerica. Dettaglio che fino ad oggi lo ha puntellato per bene rendendolo il punto di snodo verso la Russia e l’Iran. Ovviamente questa è una delle principali ciniche ragioni che tiene in vita lui e la sua dittatura. Bene dirselo al di là di tutte le ipocrisie. Il tema è però un altro. Cioè tutti coloro di qua e di là dall’oceano che sostengono Maduro e l’ideologia che egli rappresenta e che prima di lui Chávez ha imposto con forza e brutalità in tutto il Paese, da Caracas fino al confine con la Guyana, passando da Maracaibo. E per tenere assieme tutti i simpatizzanti di sinistra l’altra sera il presidente ha urlato: «In Venezuela i fascisti non passeranno mai». Caspita, uno storytelling originale che accomuna il dittatore ai nostri politici dem, Elly Schlein in prima fila, che sventolano la bandiera usurato dell’antifascismo nella speranza di poter azzerare qualunque opposizione e tenersi tutte le poltrone del comando. Ecco, in questo i due leader venezuelani sono stati più bravi e sono andati fino in fondo. Chi scrive ha avuto la fortuna di trascorrere un po’ di mesi nel Venezuela governato dal presidente Rafael Caldera. Era il 1997. Una vita fa. Il Paese era stupendo anche se la corruzione era un tutt’uno con la quotidianità. Mi stupivano certe scene. Passeggiare per strada e a un certo punto vedere accostare camion militari alle fermate degli autobus. Controllare i documenti e caricare al volo i giovani che non erano ancora stati arruolati nella Guardia Nacional. Pronti, via, diretti in caserma. Per essere congedati dopo poche settimane se il padre o il datore di lavoro era in grado di riempire una busta. Un Paese totalmente diverso dall’Italia già allora. Da ventenne mi colpivano i dettagli. Non solo le retate dei militari, ma anche le auto che circolavano con un pezzo di cartone al posto della targa. Cartone che recitava «Anzoategui», il nome dello Stato-regione di appartenenza e «Perdida». Parola semplice da comprendere in italiano. Eppure nonostante le peculiarità sudamericane nessuno all’epoca avrebbe immaginato cosa sarebbe successo da lì a poco. Le persone per cui avevo lavorato, una volta tornato in Italia sono diventati amici. E ho sofferto con loro quando sono stati espropriati delle loro case. Quando hanno scoperto che la loro banca era stata nazionalizzata, ma il loro conto non esisteva più. E quando sono stati costretti a riparare a Miami, estranei in un Paese che non sono mai riusciti a interiorizzare. E mentre Chávez espropriava e metteva al bando i professori universitari che non accettavano di tacere di fronte al socialismo, faceva assumere alla Pdvsa, la compagnia petrolifera nazionale, ufficiali del suo reparto, amici, amici di amici che nulla capivano di greggio. E così a scalare fino ai ranghi più bassi e per tutti gli altri settori dell’economia. Questo è il comunismo. Questo è il socialismo reale. E per metterlo a terra nel Duemila, quando prese il potere Chávez, e l’altro ieri quando Maduro si è tenuto lo scettro del comando il motto è sempre lo stesso: l’allarme fascismo. Per cui «Basta con sto fascismo» per citare un libro di Daniele Capezzone. Ma anche attenzione che il socialismo non dorme mai. Cambia forma e colore come i virus. E quando vede fascisti immaginari lo fa con uno scopo preciso. Estromettere l’avversario politico dall’arco parlamentare o dai palazzi del potere. Da noi i dem puntano ai grand commis di Stato, ai consiglieri, ai giudici della Consulta, a quelli della Corte dei conti. Ma lo schema è lo stesso. In ballo c’è sempre la libertà. «Il socialismo non vuole che la gente comune sia libera di scegliere», diceva Margaret Thatcher, «altrimenti non sceglierebbero mai il socialismo». E per lo stesso motivo a sinistra si giustifica anche gente come Maduro: è un tassello dello stesso puzzle.
Il caffè di ricerca e qualità è diventato di gran moda. E talvolta suscita fanatismi in cui il comune mortale si imbatte suo malgrado. Ascoltare per credere.