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2018-06-17
Dopo la pace, la Francia non molla: Macron vuol farci fuori dalla Libia
ANSA
L'apice delle tensioni si avrà il prossimo 28 e 29 giugno, quando i leader europei si ritroveranno all'hotel Marriott di Vienna per discutere di Libia. Si parlerà di petrolio, gas e soprattutto di sicurezza. È il primo vertice che affronta seriamente il tema Tripoli dopo la sciagurata campagna di guerra contro Muammar Gheddafi. Gli equilibri nel Paese magrebino sono più che mai instabili, ma a pagare gli spostamenti di potere siamo soprattutto noi italiani, che subiamo di conseguenza i flussi migratori.
C'è però da scommettere che l'incontro di Vienna sarà un ring tra noi e i francesi, che non nascondono la volontà di espandersi in tutto il Sahel. La politica di Emmanuel Macron è destinata a cozzare fortemente con la nostra presenza (già ai livelli minimi) nell'area. Tre mesi fa Parigi ha contribuito a stoppare la missione tricolore in Niger, e nelle settimane successive si è mossa per espandere i rapporti in tutto il Fezzan, l'area più meridionale della Libia dove per anni gli italiani sono stati il punto di riferimento per tutte le tribù. Il Fezzan è la parte di Libia più povera e periferica, ma è anche quella dove transitano le carovane di contrabbandieri e trafficanti. Nel 2017 l'allora ministro dell'Interno Marco Minniti convocò a Roma le diverse fazioni dell'area meridionale. L'intento era bloccare i flussi di immigrati dal Niger. Minniti è riuscito a imbastire una sorta di accordo provvisorio e instabile che si è rivelato una toppa dal punto di vista pratico, ma un successo dal punto di vista dell'intelligence. Le tribù del Fezzan avevano accettato di dialogare con gli italiani. Lo scorso aprile le cose sono cambiate. Stando a quanto riportato da Agenzia Nova, i francesi hanno organizzato a Niamey, capitale del Niger, un analogo incontro con il palese intento di sostituire gli accordi italiani. La fonte riportata dall'agenzia cita addirittura il capo della tribù degli Awlad Suleiman, una delle principali dell'area. «È stata una delegazione proveniente dalla Francia», il racconto di Al Senoussi Masoud, «a organizzare l'incontro. Si tratta di un'iniziativa che ha voluto far sedere attorno uno stesso tavolo noi e altre tribù del Sud». Sempre secondo il lancio di Agenzia Nova, «l'accordo siglato in Italia», afferma ancora al Senoussi Masoud, «rappresenta una base indispensabile, ma l'accordo non è stato rispettato in primo luogo per colpa del governo di unità nazionale, e dunque guardiamo con favore ad altre iniziative». Lo spunto colto al volo dagli uomini di Macron sono stati gli scontri di Sebha. La principale città del Sud libico tra febbraio e marzo è stata oggetto di pesanti scontri armati tra le tribù, alcune delle quali più rivolte a Occidente e altre ancora legate (soprattutto economicamente) al Qatar.
La fazione degli Awlad Suleiman è araba ed è sempre stata ostile ai Qadhadhfa, tribù a cui appartiene la famiglia Gheddafi. «Le due parti nel 2016 sono entrate in uno scontro aperto a Sebha nella cosiddetta guerra della scimmia, che ha lasciato sul campo centinaia di vittime», spiega Gliocchidellaguerra.it, il sito di Fausto Biloslavo. «Gli Awlad Suleiman appartengono alla grande dinastia dei Senussi, fondatori della congregazione religiosa della Senussia, da cui discendeva tra gli altri anche re Idris I, rovesciato dal colpo di Stato di Gheddafi del 1969». Un passo indietro nella storia che spiega molto bene come sia difficile intervenire nel Fezzan. Da qui si dipanano due teorie. Una porta ai soldi, ovvero la possibilità di finanziarie le singole tribù. L'altra all'occupazione militare. Inviare soldati di una coalizione o di singoli Stati aiuterebbe a ricompattare (non senza ricadute di sangue) il controllo del territorio. Macron vuole questa prerogativa. Il che presuppone che gli italiani non si palesino in Tunisia, in Niger e mano mano abbandonino la Libia. I consiglieri dell'Eliseo sanno infatti che non basta più l'accordo con il generale Khalifa Haftar (che controlla l'area di Tobruk e della Tripolitania) perché nel Sahel ha fatto capolino un nuovo player in grado di scombussolare le carte.
Il Niger infatti non interessa tanto per bloccare i flussi di immigrati (come abbiamo visto, è più importante il Fezzan), ma per definire una volta per tutti i rapporti tra Europa e Cina. Francia e Pechino si contendono la leadership in un ambiente che di fatto è anche il retrovia del conflitto libico. Consentire al presidente francese di tenersi il Niger offrirebbe alle nostre aziende un ritorno nel breve termine (sono previsti appalti infrastrutturali per 23 miliardi di euro) ma già nel medio termine finiremmo per l'essere gregari senza benefici reali sul costo dell'energia. Pechino ha già acquisito due importanti miniere di uranio nell'area Est del Paese africano. Un tempo sarebbe stato inconcepibile, il Niger è sempre stato terreno di caccia di Areva. Oggi una eventuale alleanza italiana con la Cina potrebbe aprire prospettive interessanti nel grande progetto «One belt one road», la strategia di connessione via terra inaugurata dal presidente Xi Jinping e dalla quale la Francia è stata tagliata fuori.
C'è da aspettarsi da parte di Macron nuovi colpi bassi. Il deserto non ha confini, è come il mare: perdere un tassello importante come il Fezzan può comportare per l'Italia l'espulsione dal continente.
Claudio Antonelli
In Liguria nuovo caso Bardonecchia
Un nuovo «caso Bardonecchia»? Qualche giorno fa, proprio mentre a Parigi si teneva il vertice tra il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, e il presidente francese Emmanuel Macron, il problema dell'immigrazione è tornato a mettere a rischio i rapporti tra Roma e Parigi. Il motivo? Ad Airole (in Liguria), il sindaco, Fausto Molinari, ha scoperto giovedì un'automobile della gendarmeria in piazza, nei pressi del Santuario e dei sentieri che portano a Breil. Il fatto non è stato gradito troppo dal primo cittadino. «La vettura è rimasta lì dalle 11 alle 16. A che titolo?», si è difatti chiesto. «Non ne sapevo nulla e trovo inaudito che le forze dell'ordine francesi vengano a pattugliare il mio territorio».
Si sospetta che alcuni membri della gendarmeria francese siano entrati in territorio italiano alla ricerca di migranti diretti in Francia. Non si tratterebbe della prima volta, d'altronde, che accade una cosa del genere. Il sindaco di Olivetta San Michele, Adriano Biancheri, ha non a caso dichiarato: «La scorsa estate li ho trovati nei pressi del cimitero: ho chiesto spiegazioni e mi hanno detto che avevano sbagliato. Poi un'altra volta li ho notati a Fanghetto, in territorio italiano, e ho chiamato la polizia. Da allora non li ho più visti».
Sotto il profilo legale, la situazione appare piuttosto ingarbugliata. La gendarmeria francese è infatti autorizzata ad agire in pattuglie miste, costituite da francesi e italiani. Così come detiene la facoltà di attraversare il confine in casi di emergenza (come l'inseguimento). Ciò detto, le forze d'Oltralpe non hanno l'autorità di effettuare pattugliamenti sul territorio italiano. Il tutto, senza dimenticare che - a quanto pare - le forze dell'ordine francesi non avrebbero informato le autorità italiane del nuovo sconfinamento ligure. In questa situazione grigia, a Ventimiglia, intanto, le cose non vanno esattamente per il meglio. E infatti, da quelle parti, non è che Parigi goda di troppa simpatia. Sui migranti «i francesi non possono darci lezione di morale», ha dichiarato due giorni fa il sindaco Enrico Ioculano. «Le posizioni del governo sono opinabili», ha aggiunto, «ma da certi pulpiti non ci possiamo aspettare questo tipo di prediche». Insomma, il rischio è che - da tutto questo - possa venir fuori un nuovo «caso Bardonecchia». Ricordate? Lo scorso marzo gli agenti delle dogane francesi effettuarono un blitz nei locali della stazione del Comune italiano al confine con la Francia, in Alta Val Susa. Scoppiò un incidente diplomatico abbastanza grave con Parigi. E adesso si teme il bis. In una situazione internazionale a dir poco delicata. Conte e Macron hanno infatti appena ricucito diplomaticamente sul caso della nave Aquarius e si accingono ad intervenire per cercare di cambiare le regole europee in tema di immigrazione.
Il caso di Airole, insomma, potrebbe determinare delle ripercussioni di politica internazionale non indifferenti. E - chissà - contribuire magari a ridisegnare gli equilibri di alleanza all'interno dell'Unione europea.
Stefano Graziosi
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Parigi non si accontenta del rapporto con Khalifa Haftar e riunisce le tribù del Sud per chiudere un accordo che si mangi quello siglato con Marco Minniti nel 2017. Alla conferenza di Vienna i nodi arriveranno al pettine.Il sindaco di Airole (Imperia) e i colleghi di altri paesi denunciano sconfinamenti ripetuti della gendarmeria transalpina. Proprio come avvenne a Bardonecchia.Lo speciale contiene due articoliL'apice delle tensioni si avrà il prossimo 28 e 29 giugno, quando i leader europei si ritroveranno all'hotel Marriott di Vienna per discutere di Libia. Si parlerà di petrolio, gas e soprattutto di sicurezza. È il primo vertice che affronta seriamente il tema Tripoli dopo la sciagurata campagna di guerra contro Muammar Gheddafi. Gli equilibri nel Paese magrebino sono più che mai instabili, ma a pagare gli spostamenti di potere siamo soprattutto noi italiani, che subiamo di conseguenza i flussi migratori. C'è però da scommettere che l'incontro di Vienna sarà un ring tra noi e i francesi, che non nascondono la volontà di espandersi in tutto il Sahel. La politica di Emmanuel Macron è destinata a cozzare fortemente con la nostra presenza (già ai livelli minimi) nell'area. Tre mesi fa Parigi ha contribuito a stoppare la missione tricolore in Niger, e nelle settimane successive si è mossa per espandere i rapporti in tutto il Fezzan, l'area più meridionale della Libia dove per anni gli italiani sono stati il punto di riferimento per tutte le tribù. Il Fezzan è la parte di Libia più povera e periferica, ma è anche quella dove transitano le carovane di contrabbandieri e trafficanti. Nel 2017 l'allora ministro dell'Interno Marco Minniti convocò a Roma le diverse fazioni dell'area meridionale. L'intento era bloccare i flussi di immigrati dal Niger. Minniti è riuscito a imbastire una sorta di accordo provvisorio e instabile che si è rivelato una toppa dal punto di vista pratico, ma un successo dal punto di vista dell'intelligence. Le tribù del Fezzan avevano accettato di dialogare con gli italiani. Lo scorso aprile le cose sono cambiate. Stando a quanto riportato da Agenzia Nova, i francesi hanno organizzato a Niamey, capitale del Niger, un analogo incontro con il palese intento di sostituire gli accordi italiani. La fonte riportata dall'agenzia cita addirittura il capo della tribù degli Awlad Suleiman, una delle principali dell'area. «È stata una delegazione proveniente dalla Francia», il racconto di Al Senoussi Masoud, «a organizzare l'incontro. Si tratta di un'iniziativa che ha voluto far sedere attorno uno stesso tavolo noi e altre tribù del Sud». Sempre secondo il lancio di Agenzia Nova, «l'accordo siglato in Italia», afferma ancora al Senoussi Masoud, «rappresenta una base indispensabile, ma l'accordo non è stato rispettato in primo luogo per colpa del governo di unità nazionale, e dunque guardiamo con favore ad altre iniziative». Lo spunto colto al volo dagli uomini di Macron sono stati gli scontri di Sebha. La principale città del Sud libico tra febbraio e marzo è stata oggetto di pesanti scontri armati tra le tribù, alcune delle quali più rivolte a Occidente e altre ancora legate (soprattutto economicamente) al Qatar. La fazione degli Awlad Suleiman è araba ed è sempre stata ostile ai Qadhadhfa, tribù a cui appartiene la famiglia Gheddafi. «Le due parti nel 2016 sono entrate in uno scontro aperto a Sebha nella cosiddetta guerra della scimmia, che ha lasciato sul campo centinaia di vittime», spiega Gliocchidellaguerra.it, il sito di Fausto Biloslavo. «Gli Awlad Suleiman appartengono alla grande dinastia dei Senussi, fondatori della congregazione religiosa della Senussia, da cui discendeva tra gli altri anche re Idris I, rovesciato dal colpo di Stato di Gheddafi del 1969». Un passo indietro nella storia che spiega molto bene come sia difficile intervenire nel Fezzan. Da qui si dipanano due teorie. Una porta ai soldi, ovvero la possibilità di finanziarie le singole tribù. L'altra all'occupazione militare. Inviare soldati di una coalizione o di singoli Stati aiuterebbe a ricompattare (non senza ricadute di sangue) il controllo del territorio. Macron vuole questa prerogativa. Il che presuppone che gli italiani non si palesino in Tunisia, in Niger e mano mano abbandonino la Libia. I consiglieri dell'Eliseo sanno infatti che non basta più l'accordo con il generale Khalifa Haftar (che controlla l'area di Tobruk e della Tripolitania) perché nel Sahel ha fatto capolino un nuovo player in grado di scombussolare le carte.Il Niger infatti non interessa tanto per bloccare i flussi di immigrati (come abbiamo visto, è più importante il Fezzan), ma per definire una volta per tutti i rapporti tra Europa e Cina. Francia e Pechino si contendono la leadership in un ambiente che di fatto è anche il retrovia del conflitto libico. Consentire al presidente francese di tenersi il Niger offrirebbe alle nostre aziende un ritorno nel breve termine (sono previsti appalti infrastrutturali per 23 miliardi di euro) ma già nel medio termine finiremmo per l'essere gregari senza benefici reali sul costo dell'energia. Pechino ha già acquisito due importanti miniere di uranio nell'area Est del Paese africano. Un tempo sarebbe stato inconcepibile, il Niger è sempre stato terreno di caccia di Areva. Oggi una eventuale alleanza italiana con la Cina potrebbe aprire prospettive interessanti nel grande progetto «One belt one road», la strategia di connessione via terra inaugurata dal presidente Xi Jinping e dalla quale la Francia è stata tagliata fuori.C'è da aspettarsi da parte di Macron nuovi colpi bassi. Il deserto non ha confini, è come il mare: perdere un tassello importante come il Fezzan può comportare per l'Italia l'espulsione dal continente.Claudio Antonelli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macron-libia-conte-2578651058.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-liguria-nuovo-caso-bardonecchia" data-post-id="2578651058" data-published-at="1766300832" data-use-pagination="False"> In Liguria nuovo caso Bardonecchia Un nuovo «caso Bardonecchia»? Qualche giorno fa, proprio mentre a Parigi si teneva il vertice tra il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, e il presidente francese Emmanuel Macron, il problema dell'immigrazione è tornato a mettere a rischio i rapporti tra Roma e Parigi. Il motivo? Ad Airole (in Liguria), il sindaco, Fausto Molinari, ha scoperto giovedì un'automobile della gendarmeria in piazza, nei pressi del Santuario e dei sentieri che portano a Breil. Il fatto non è stato gradito troppo dal primo cittadino. «La vettura è rimasta lì dalle 11 alle 16. A che titolo?», si è difatti chiesto. «Non ne sapevo nulla e trovo inaudito che le forze dell'ordine francesi vengano a pattugliare il mio territorio». Si sospetta che alcuni membri della gendarmeria francese siano entrati in territorio italiano alla ricerca di migranti diretti in Francia. Non si tratterebbe della prima volta, d'altronde, che accade una cosa del genere. Il sindaco di Olivetta San Michele, Adriano Biancheri, ha non a caso dichiarato: «La scorsa estate li ho trovati nei pressi del cimitero: ho chiesto spiegazioni e mi hanno detto che avevano sbagliato. Poi un'altra volta li ho notati a Fanghetto, in territorio italiano, e ho chiamato la polizia. Da allora non li ho più visti». Sotto il profilo legale, la situazione appare piuttosto ingarbugliata. La gendarmeria francese è infatti autorizzata ad agire in pattuglie miste, costituite da francesi e italiani. Così come detiene la facoltà di attraversare il confine in casi di emergenza (come l'inseguimento). Ciò detto, le forze d'Oltralpe non hanno l'autorità di effettuare pattugliamenti sul territorio italiano. Il tutto, senza dimenticare che - a quanto pare - le forze dell'ordine francesi non avrebbero informato le autorità italiane del nuovo sconfinamento ligure. In questa situazione grigia, a Ventimiglia, intanto, le cose non vanno esattamente per il meglio. E infatti, da quelle parti, non è che Parigi goda di troppa simpatia. Sui migranti «i francesi non possono darci lezione di morale», ha dichiarato due giorni fa il sindaco Enrico Ioculano. «Le posizioni del governo sono opinabili», ha aggiunto, «ma da certi pulpiti non ci possiamo aspettare questo tipo di prediche». Insomma, il rischio è che - da tutto questo - possa venir fuori un nuovo «caso Bardonecchia». Ricordate? Lo scorso marzo gli agenti delle dogane francesi effettuarono un blitz nei locali della stazione del Comune italiano al confine con la Francia, in Alta Val Susa. Scoppiò un incidente diplomatico abbastanza grave con Parigi. E adesso si teme il bis. In una situazione internazionale a dir poco delicata. Conte e Macron hanno infatti appena ricucito diplomaticamente sul caso della nave Aquarius e si accingono ad intervenire per cercare di cambiare le regole europee in tema di immigrazione. Il caso di Airole, insomma, potrebbe determinare delle ripercussioni di politica internazionale non indifferenti. E - chissà - contribuire magari a ridisegnare gli equilibri di alleanza all'interno dell'Unione europea. Stefano Graziosi
Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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