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2018-06-17
Dopo la pace, la Francia non molla: Macron vuol farci fuori dalla Libia
ANSA
L'apice delle tensioni si avrà il prossimo 28 e 29 giugno, quando i leader europei si ritroveranno all'hotel Marriott di Vienna per discutere di Libia. Si parlerà di petrolio, gas e soprattutto di sicurezza. È il primo vertice che affronta seriamente il tema Tripoli dopo la sciagurata campagna di guerra contro Muammar Gheddafi. Gli equilibri nel Paese magrebino sono più che mai instabili, ma a pagare gli spostamenti di potere siamo soprattutto noi italiani, che subiamo di conseguenza i flussi migratori.
C'è però da scommettere che l'incontro di Vienna sarà un ring tra noi e i francesi, che non nascondono la volontà di espandersi in tutto il Sahel. La politica di Emmanuel Macron è destinata a cozzare fortemente con la nostra presenza (già ai livelli minimi) nell'area. Tre mesi fa Parigi ha contribuito a stoppare la missione tricolore in Niger, e nelle settimane successive si è mossa per espandere i rapporti in tutto il Fezzan, l'area più meridionale della Libia dove per anni gli italiani sono stati il punto di riferimento per tutte le tribù. Il Fezzan è la parte di Libia più povera e periferica, ma è anche quella dove transitano le carovane di contrabbandieri e trafficanti. Nel 2017 l'allora ministro dell'Interno Marco Minniti convocò a Roma le diverse fazioni dell'area meridionale. L'intento era bloccare i flussi di immigrati dal Niger. Minniti è riuscito a imbastire una sorta di accordo provvisorio e instabile che si è rivelato una toppa dal punto di vista pratico, ma un successo dal punto di vista dell'intelligence. Le tribù del Fezzan avevano accettato di dialogare con gli italiani. Lo scorso aprile le cose sono cambiate. Stando a quanto riportato da Agenzia Nova, i francesi hanno organizzato a Niamey, capitale del Niger, un analogo incontro con il palese intento di sostituire gli accordi italiani. La fonte riportata dall'agenzia cita addirittura il capo della tribù degli Awlad Suleiman, una delle principali dell'area. «È stata una delegazione proveniente dalla Francia», il racconto di Al Senoussi Masoud, «a organizzare l'incontro. Si tratta di un'iniziativa che ha voluto far sedere attorno uno stesso tavolo noi e altre tribù del Sud». Sempre secondo il lancio di Agenzia Nova, «l'accordo siglato in Italia», afferma ancora al Senoussi Masoud, «rappresenta una base indispensabile, ma l'accordo non è stato rispettato in primo luogo per colpa del governo di unità nazionale, e dunque guardiamo con favore ad altre iniziative». Lo spunto colto al volo dagli uomini di Macron sono stati gli scontri di Sebha. La principale città del Sud libico tra febbraio e marzo è stata oggetto di pesanti scontri armati tra le tribù, alcune delle quali più rivolte a Occidente e altre ancora legate (soprattutto economicamente) al Qatar.
La fazione degli Awlad Suleiman è araba ed è sempre stata ostile ai Qadhadhfa, tribù a cui appartiene la famiglia Gheddafi. «Le due parti nel 2016 sono entrate in uno scontro aperto a Sebha nella cosiddetta guerra della scimmia, che ha lasciato sul campo centinaia di vittime», spiega Gliocchidellaguerra.it, il sito di Fausto Biloslavo. «Gli Awlad Suleiman appartengono alla grande dinastia dei Senussi, fondatori della congregazione religiosa della Senussia, da cui discendeva tra gli altri anche re Idris I, rovesciato dal colpo di Stato di Gheddafi del 1969». Un passo indietro nella storia che spiega molto bene come sia difficile intervenire nel Fezzan. Da qui si dipanano due teorie. Una porta ai soldi, ovvero la possibilità di finanziarie le singole tribù. L'altra all'occupazione militare. Inviare soldati di una coalizione o di singoli Stati aiuterebbe a ricompattare (non senza ricadute di sangue) il controllo del territorio. Macron vuole questa prerogativa. Il che presuppone che gli italiani non si palesino in Tunisia, in Niger e mano mano abbandonino la Libia. I consiglieri dell'Eliseo sanno infatti che non basta più l'accordo con il generale Khalifa Haftar (che controlla l'area di Tobruk e della Tripolitania) perché nel Sahel ha fatto capolino un nuovo player in grado di scombussolare le carte.
Il Niger infatti non interessa tanto per bloccare i flussi di immigrati (come abbiamo visto, è più importante il Fezzan), ma per definire una volta per tutti i rapporti tra Europa e Cina. Francia e Pechino si contendono la leadership in un ambiente che di fatto è anche il retrovia del conflitto libico. Consentire al presidente francese di tenersi il Niger offrirebbe alle nostre aziende un ritorno nel breve termine (sono previsti appalti infrastrutturali per 23 miliardi di euro) ma già nel medio termine finiremmo per l'essere gregari senza benefici reali sul costo dell'energia. Pechino ha già acquisito due importanti miniere di uranio nell'area Est del Paese africano. Un tempo sarebbe stato inconcepibile, il Niger è sempre stato terreno di caccia di Areva. Oggi una eventuale alleanza italiana con la Cina potrebbe aprire prospettive interessanti nel grande progetto «One belt one road», la strategia di connessione via terra inaugurata dal presidente Xi Jinping e dalla quale la Francia è stata tagliata fuori.
C'è da aspettarsi da parte di Macron nuovi colpi bassi. Il deserto non ha confini, è come il mare: perdere un tassello importante come il Fezzan può comportare per l'Italia l'espulsione dal continente.
Claudio Antonelli
In Liguria nuovo caso Bardonecchia
Un nuovo «caso Bardonecchia»? Qualche giorno fa, proprio mentre a Parigi si teneva il vertice tra il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, e il presidente francese Emmanuel Macron, il problema dell'immigrazione è tornato a mettere a rischio i rapporti tra Roma e Parigi. Il motivo? Ad Airole (in Liguria), il sindaco, Fausto Molinari, ha scoperto giovedì un'automobile della gendarmeria in piazza, nei pressi del Santuario e dei sentieri che portano a Breil. Il fatto non è stato gradito troppo dal primo cittadino. «La vettura è rimasta lì dalle 11 alle 16. A che titolo?», si è difatti chiesto. «Non ne sapevo nulla e trovo inaudito che le forze dell'ordine francesi vengano a pattugliare il mio territorio».
Si sospetta che alcuni membri della gendarmeria francese siano entrati in territorio italiano alla ricerca di migranti diretti in Francia. Non si tratterebbe della prima volta, d'altronde, che accade una cosa del genere. Il sindaco di Olivetta San Michele, Adriano Biancheri, ha non a caso dichiarato: «La scorsa estate li ho trovati nei pressi del cimitero: ho chiesto spiegazioni e mi hanno detto che avevano sbagliato. Poi un'altra volta li ho notati a Fanghetto, in territorio italiano, e ho chiamato la polizia. Da allora non li ho più visti».
Sotto il profilo legale, la situazione appare piuttosto ingarbugliata. La gendarmeria francese è infatti autorizzata ad agire in pattuglie miste, costituite da francesi e italiani. Così come detiene la facoltà di attraversare il confine in casi di emergenza (come l'inseguimento). Ciò detto, le forze d'Oltralpe non hanno l'autorità di effettuare pattugliamenti sul territorio italiano. Il tutto, senza dimenticare che - a quanto pare - le forze dell'ordine francesi non avrebbero informato le autorità italiane del nuovo sconfinamento ligure. In questa situazione grigia, a Ventimiglia, intanto, le cose non vanno esattamente per il meglio. E infatti, da quelle parti, non è che Parigi goda di troppa simpatia. Sui migranti «i francesi non possono darci lezione di morale», ha dichiarato due giorni fa il sindaco Enrico Ioculano. «Le posizioni del governo sono opinabili», ha aggiunto, «ma da certi pulpiti non ci possiamo aspettare questo tipo di prediche». Insomma, il rischio è che - da tutto questo - possa venir fuori un nuovo «caso Bardonecchia». Ricordate? Lo scorso marzo gli agenti delle dogane francesi effettuarono un blitz nei locali della stazione del Comune italiano al confine con la Francia, in Alta Val Susa. Scoppiò un incidente diplomatico abbastanza grave con Parigi. E adesso si teme il bis. In una situazione internazionale a dir poco delicata. Conte e Macron hanno infatti appena ricucito diplomaticamente sul caso della nave Aquarius e si accingono ad intervenire per cercare di cambiare le regole europee in tema di immigrazione.
Il caso di Airole, insomma, potrebbe determinare delle ripercussioni di politica internazionale non indifferenti. E - chissà - contribuire magari a ridisegnare gli equilibri di alleanza all'interno dell'Unione europea.
Stefano Graziosi
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Parigi non si accontenta del rapporto con Khalifa Haftar e riunisce le tribù del Sud per chiudere un accordo che si mangi quello siglato con Marco Minniti nel 2017. Alla conferenza di Vienna i nodi arriveranno al pettine.Il sindaco di Airole (Imperia) e i colleghi di altri paesi denunciano sconfinamenti ripetuti della gendarmeria transalpina. Proprio come avvenne a Bardonecchia.Lo speciale contiene due articoliL'apice delle tensioni si avrà il prossimo 28 e 29 giugno, quando i leader europei si ritroveranno all'hotel Marriott di Vienna per discutere di Libia. Si parlerà di petrolio, gas e soprattutto di sicurezza. È il primo vertice che affronta seriamente il tema Tripoli dopo la sciagurata campagna di guerra contro Muammar Gheddafi. Gli equilibri nel Paese magrebino sono più che mai instabili, ma a pagare gli spostamenti di potere siamo soprattutto noi italiani, che subiamo di conseguenza i flussi migratori. C'è però da scommettere che l'incontro di Vienna sarà un ring tra noi e i francesi, che non nascondono la volontà di espandersi in tutto il Sahel. La politica di Emmanuel Macron è destinata a cozzare fortemente con la nostra presenza (già ai livelli minimi) nell'area. Tre mesi fa Parigi ha contribuito a stoppare la missione tricolore in Niger, e nelle settimane successive si è mossa per espandere i rapporti in tutto il Fezzan, l'area più meridionale della Libia dove per anni gli italiani sono stati il punto di riferimento per tutte le tribù. Il Fezzan è la parte di Libia più povera e periferica, ma è anche quella dove transitano le carovane di contrabbandieri e trafficanti. Nel 2017 l'allora ministro dell'Interno Marco Minniti convocò a Roma le diverse fazioni dell'area meridionale. L'intento era bloccare i flussi di immigrati dal Niger. Minniti è riuscito a imbastire una sorta di accordo provvisorio e instabile che si è rivelato una toppa dal punto di vista pratico, ma un successo dal punto di vista dell'intelligence. Le tribù del Fezzan avevano accettato di dialogare con gli italiani. Lo scorso aprile le cose sono cambiate. Stando a quanto riportato da Agenzia Nova, i francesi hanno organizzato a Niamey, capitale del Niger, un analogo incontro con il palese intento di sostituire gli accordi italiani. La fonte riportata dall'agenzia cita addirittura il capo della tribù degli Awlad Suleiman, una delle principali dell'area. «È stata una delegazione proveniente dalla Francia», il racconto di Al Senoussi Masoud, «a organizzare l'incontro. Si tratta di un'iniziativa che ha voluto far sedere attorno uno stesso tavolo noi e altre tribù del Sud». Sempre secondo il lancio di Agenzia Nova, «l'accordo siglato in Italia», afferma ancora al Senoussi Masoud, «rappresenta una base indispensabile, ma l'accordo non è stato rispettato in primo luogo per colpa del governo di unità nazionale, e dunque guardiamo con favore ad altre iniziative». Lo spunto colto al volo dagli uomini di Macron sono stati gli scontri di Sebha. La principale città del Sud libico tra febbraio e marzo è stata oggetto di pesanti scontri armati tra le tribù, alcune delle quali più rivolte a Occidente e altre ancora legate (soprattutto economicamente) al Qatar. La fazione degli Awlad Suleiman è araba ed è sempre stata ostile ai Qadhadhfa, tribù a cui appartiene la famiglia Gheddafi. «Le due parti nel 2016 sono entrate in uno scontro aperto a Sebha nella cosiddetta guerra della scimmia, che ha lasciato sul campo centinaia di vittime», spiega Gliocchidellaguerra.it, il sito di Fausto Biloslavo. «Gli Awlad Suleiman appartengono alla grande dinastia dei Senussi, fondatori della congregazione religiosa della Senussia, da cui discendeva tra gli altri anche re Idris I, rovesciato dal colpo di Stato di Gheddafi del 1969». Un passo indietro nella storia che spiega molto bene come sia difficile intervenire nel Fezzan. Da qui si dipanano due teorie. Una porta ai soldi, ovvero la possibilità di finanziarie le singole tribù. L'altra all'occupazione militare. Inviare soldati di una coalizione o di singoli Stati aiuterebbe a ricompattare (non senza ricadute di sangue) il controllo del territorio. Macron vuole questa prerogativa. Il che presuppone che gli italiani non si palesino in Tunisia, in Niger e mano mano abbandonino la Libia. I consiglieri dell'Eliseo sanno infatti che non basta più l'accordo con il generale Khalifa Haftar (che controlla l'area di Tobruk e della Tripolitania) perché nel Sahel ha fatto capolino un nuovo player in grado di scombussolare le carte.Il Niger infatti non interessa tanto per bloccare i flussi di immigrati (come abbiamo visto, è più importante il Fezzan), ma per definire una volta per tutti i rapporti tra Europa e Cina. Francia e Pechino si contendono la leadership in un ambiente che di fatto è anche il retrovia del conflitto libico. Consentire al presidente francese di tenersi il Niger offrirebbe alle nostre aziende un ritorno nel breve termine (sono previsti appalti infrastrutturali per 23 miliardi di euro) ma già nel medio termine finiremmo per l'essere gregari senza benefici reali sul costo dell'energia. Pechino ha già acquisito due importanti miniere di uranio nell'area Est del Paese africano. Un tempo sarebbe stato inconcepibile, il Niger è sempre stato terreno di caccia di Areva. Oggi una eventuale alleanza italiana con la Cina potrebbe aprire prospettive interessanti nel grande progetto «One belt one road», la strategia di connessione via terra inaugurata dal presidente Xi Jinping e dalla quale la Francia è stata tagliata fuori.C'è da aspettarsi da parte di Macron nuovi colpi bassi. Il deserto non ha confini, è come il mare: perdere un tassello importante come il Fezzan può comportare per l'Italia l'espulsione dal continente.Claudio Antonelli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macron-libia-conte-2578651058.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-liguria-nuovo-caso-bardonecchia" data-post-id="2578651058" data-published-at="1766126094" data-use-pagination="False"> In Liguria nuovo caso Bardonecchia Un nuovo «caso Bardonecchia»? Qualche giorno fa, proprio mentre a Parigi si teneva il vertice tra il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, e il presidente francese Emmanuel Macron, il problema dell'immigrazione è tornato a mettere a rischio i rapporti tra Roma e Parigi. Il motivo? Ad Airole (in Liguria), il sindaco, Fausto Molinari, ha scoperto giovedì un'automobile della gendarmeria in piazza, nei pressi del Santuario e dei sentieri che portano a Breil. Il fatto non è stato gradito troppo dal primo cittadino. «La vettura è rimasta lì dalle 11 alle 16. A che titolo?», si è difatti chiesto. «Non ne sapevo nulla e trovo inaudito che le forze dell'ordine francesi vengano a pattugliare il mio territorio». Si sospetta che alcuni membri della gendarmeria francese siano entrati in territorio italiano alla ricerca di migranti diretti in Francia. Non si tratterebbe della prima volta, d'altronde, che accade una cosa del genere. Il sindaco di Olivetta San Michele, Adriano Biancheri, ha non a caso dichiarato: «La scorsa estate li ho trovati nei pressi del cimitero: ho chiesto spiegazioni e mi hanno detto che avevano sbagliato. Poi un'altra volta li ho notati a Fanghetto, in territorio italiano, e ho chiamato la polizia. Da allora non li ho più visti». Sotto il profilo legale, la situazione appare piuttosto ingarbugliata. La gendarmeria francese è infatti autorizzata ad agire in pattuglie miste, costituite da francesi e italiani. Così come detiene la facoltà di attraversare il confine in casi di emergenza (come l'inseguimento). Ciò detto, le forze d'Oltralpe non hanno l'autorità di effettuare pattugliamenti sul territorio italiano. Il tutto, senza dimenticare che - a quanto pare - le forze dell'ordine francesi non avrebbero informato le autorità italiane del nuovo sconfinamento ligure. In questa situazione grigia, a Ventimiglia, intanto, le cose non vanno esattamente per il meglio. E infatti, da quelle parti, non è che Parigi goda di troppa simpatia. Sui migranti «i francesi non possono darci lezione di morale», ha dichiarato due giorni fa il sindaco Enrico Ioculano. «Le posizioni del governo sono opinabili», ha aggiunto, «ma da certi pulpiti non ci possiamo aspettare questo tipo di prediche». Insomma, il rischio è che - da tutto questo - possa venir fuori un nuovo «caso Bardonecchia». Ricordate? Lo scorso marzo gli agenti delle dogane francesi effettuarono un blitz nei locali della stazione del Comune italiano al confine con la Francia, in Alta Val Susa. Scoppiò un incidente diplomatico abbastanza grave con Parigi. E adesso si teme il bis. In una situazione internazionale a dir poco delicata. Conte e Macron hanno infatti appena ricucito diplomaticamente sul caso della nave Aquarius e si accingono ad intervenire per cercare di cambiare le regole europee in tema di immigrazione. Il caso di Airole, insomma, potrebbe determinare delle ripercussioni di politica internazionale non indifferenti. E - chissà - contribuire magari a ridisegnare gli equilibri di alleanza all'interno dell'Unione europea. Stefano Graziosi
Getty Images
E come si può chiamare un tizio che promette «appena posso (violare la legge, ndr) lo rifaccio»?. «Costi quel che costi», disse Luca Casarini, «al vostro ordine continuerò a disobbedire, perché obbedisco ad altro, di fronte al quale le vostre leggi ingiuste e criminali, ciniche e orribili non possono niente». Quelle contestate sono le leggi dello Stato italiano, approvate dal Parlamento italiano, vigilate dalla Corte costituzionale italiana, rispettate dalla maggioranza degli italiani. Ma per Casarini e compagni si possono ignorare. Anzi, si devono violare. E nessuno può permettersi il diritto di critica e di chiamarli pirati. «Abbiamo disobbedito a un ordine ingiusto e inumano del ministero dell’Interno», disse Beppe Caccia, capo missione di Mediterranea, «ma così facendo abbiamo obbedito al diritto marittimo, alla Costituzione italiana, alle leggi dell’umanità». Chi si può arrogare il diritto di stabilire che ci si può infischiare di una legge? Ve la immaginate quale sarebbe la reazione di fronte a un tizio che ignora il codice della strada o la normativa fiscale e dice che lui risponde a una legge superiore? E vi ricorda qualche cosa la definizione di «legge criminale»? Negli anni della contestazione lo Stato era criminale, le misure repressive, i divieti autoritari. Come sia finita si sa.
Il soccorso in mare ha un obiettivo politico: è un’azione che mira a «contrastare e a sovvertire il sistema capitalista e patriarcale» come ha spiegato don Mattia Ferrari, il cappellano di Mediterranea. «Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo», ha aggiunto Carola Rackete, la capitana che nella foga di attraccare nonostante le fosse stato negato il diritto allo sbarco andò a sbattere con la sua nave contro una motovedetta della Guardia di finanza. E costoro non si possono definire pirati? Chiamarli tali, perché come diceva il filosofo Giulio Giorello a proposito dei bucanieri, ritengono la loro coscienza «superiore a ogni legge», sarebbe diffamatorio? E quale offesa alla propria reputazione, quale danno, avrebbero patito, di grazia? È evidente che le querele hanno un obiettivo: tappare la bocca a chi esprime un giudizio critico, impedire alla libera stampa di dire quel che pensa e di chiamare le cose con il loro nome.
Da una settimana si discute di giornali comprati e venduti, perché John Elkann ha messo in vendita Repubblica e La Stampa. Ma la minaccia all’articolo 21 della Costituzione non viene da un imprenditore greco o italiano che compra una testata, bensì dal tentativo di imbavagliare chi si oppone, con le inchieste e le notizie, alla strategia dell’immigrazione, arma - come predica don Ferrari - usata per abbattere il sistema capitalistico e patriarcale. Sono certo che di fronte alla sentenza contro Panorama non si leveranno le voci degli indignati speciali. Quelle si alzano solo quando condannano Roberto Saviano a pagare mille euro per aver chiamato bastardi Meloni e Salvini. Visti i risultati, mi conveniva titolare «I nuovi bastardi».
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Giorgia Meloni (Ansa)
La commissione per le libertà civili dell’Eurocamera e i negoziatori del Consiglio hanno concordato informalmente le nuove norme in base alle quali gli Stati membri possono decidere che un Paese extra Ue sia da considerarsi Paese terzo sicuro (Stc) nei confronti di un richiedente asilo che non ne è cittadino. Alla base di tutto c’è stata un’iniziativa del governo di Giorgio Meloni e l’appoggio di Ursula von der Leyen, che aveva capito che bisognava intervenire contro le interpretazioni creative.
La Commissione ha subito emesso una nota di soddisfazione: «Queste nuove norme aiuteranno gli Stati membri ad accelerare il trattamento delle domande di asilo, a ridurre la pressione sui sistemi di asilo e a ridurre gli incentivi alla migrazione illegale verso l’Ue, preservando nel contempo le garanzie giuridiche per i richiedenti e garantendo il rispetto dei diritti fondamentali».
Il fronte contrario a una miglior specificazione del concetto di Paese sicuro teme che le nuove regole possano tradursi in una minor tutela dei richiedenti asilo. Ma dall’altro, i contrari non sembrano propensi ad ammettere che i Paesi veramente democratici, almeno secondo i canoni occidentali, sono sempre meno.
A margine del Consiglio europeo, Giorgia Meloni, insieme ai colleghi danese, Mette Frederiksen, e olandese, Dick Schoof, ha ospitato una nuova riunione informale dei 15 Stati membri più interessati al tema delle soluzioni in ambito migratorio.
Insieme a Italia, Danimarca, Paesi Bassi e Commissione europea, hanno preso parte all’incontro i leader di Austria, Bulgaria, Cipro, Croazia, Germania, Grecia, Polonia, Repubblica ceca, Lettonia, Malta, Ungheria e Svezia.
In questa sede, come spiega una nota di Palazzo Chigi, il premier italiano ha aggiornato i colleghi sul lavoro in corso «sul tema della capacità delle Convenzioni internazionali di rispondere alle sfide della migrazione irregolare e sulle prossime iniziative previste».
Dopo il risultato dello scorso 10 dicembre, quando 27 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno sottoscritto la dichiarazione politica italo-danese, ora il lavoro continua in vista della Ministeriale del Consiglio d’Europa, sotto la presidenza moldava, del prossimo 15 maggio.
I leader hanno anche concordato di lanciare iniziative congiunte anche nei diversi contesti internazionali, a partire dall’Onu, per «promuovere più efficacemente l’approccio europeo ad una gestione ordinata dei flussi migratori».
Per Alessandro Ciriani, eurodeputato di Fdi-Ecr e relatore per il Parlamento europeo del dossier sui Paesi terzi sicuri, «la lista concordata - che comprende, oltre ai Paesi candidati, Egitto, Bangladesh, Tunisia, India, Colombia, Marocco e Kosovo - produrrà effetti immediati sulle pratiche di esame delle domande di protezione internazionale, accelerando le procedure e rafforzando la certezza applicativa». In generale, per Ciriani «è un momento storico: grazie al lavoro del governo italiano, anche in Europa si supera la polarizzazione politica in tema di immigrazione e si sceglie la via del buonsenso».
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Carola Rackete (Getty Images)
Era marzo 2021 e così prometteva di sfidare la magistratura Luca Casarini, fondatore e capomissione di Mediterranea Saving Humans. L’ex disobbediente del Nord-Est dichiarava di voler continuare a non rispettare le regole, l’ha ribadito anche lo scorso ottobre in apertura del processo a Ragusa dove è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con l’aggravante di averne tratto profitto. «¡Aquí no se rinde nadie! qui non si arrende nessuno», terminò il suo post su Facebook poco prima dell’udienza, citando la frase pronunciata dal comandante rivoluzionario Juan Almeida Bosque durante lo sbarco dei guerriglieri a Cuba. Casarini non riconosce la legge e poco importa se traveste l’inosservanza con scuse umanitarie: la lista dei disobbedienti per torti e offese subìte sarebbe interminabile, mentre in uno Stato di diritto non si fa giustizia a propria misura calpestando l’ordinamento.
Il capomissione della Ong si vanta di essere un trasgressore, solca i mari con «la nave dei centri sociali» agendo senza regole se non le condivide. «Io ho fatto del ragionamento sulla disobbedienza una caratteristica della mia vita [...] Sono i governi che violano continuamente la legge», è una sua precedente affermazione datata marzo 2019 in piena vicenda Mare Jonio, la barca entrata nel porto di Lampedusa malgrado il no del Viminale allora retto da Matteo Salvini.
Non è da meno il capo missione di Mediterranea, Beppe Caccia, che lo scorso agosto ammetteva con orgoglio di avere infranto la legge: «Abbiamo disobbedito a un ordine ingiusto e inumano del ministero dell’Interno. Ma così facendo abbiamo obbedito al diritto marittimo, alla Costituzione italiana e alle leggi dell’umanità». No, la Costituzione afferma che la legge è uguale per tutti, senza distinzioni di sorta e che tutti sono tenuti a rispettarla.
Eppure Carola Rackete si è vantata più volte di averla calpestata nel nostro Paese. La comandante tedesca della nave Sea Watch 3, che con le sue 650 tonnellate di stazza aveva investito la motovedetta della Guardia di finanza colpevole solo di avere intimato l’alt, nel giugno del 2019 giustificava l’azione. «Non è stato un atto di violenza. Solo di disobbedienza. Ma ho sbagliato la manovra. Per me era vietato obbedire. Mi chiedevano di riportarli in Libia. Ma per la legge sono persone che fuggono da un Paese in guerra, la legge vieta che io le possa riportare là», era la sua strabiliante versione accolta anche dal gip del tribunale di Agrigento che archiviò le accuse di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina e disobbedienza a nave da guerra. Salvini protestò: «Quindi, se capisco bene la sentenza, speronare una motovedetta militare italiana con uomini a bordo non è reato. Torniamo ai tempi dei pirati… No comment». Rackete un mese dopo tornava a vantarsi: «Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal Decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo. Talvolta servono azioni di disobbedienza civile per affermare diritti umani e portare leggi sbagliate di fronte a un giudice».
In quest’ottica, l’assurdità dei decreti legge emanati durante l’emergenza Covid dovrebbero giustificare gli atti di disobbedienza compiuti, anche con il rifiuto di vaccinarsi che invece è stato perseguito e punito. Spesso il principio di legalità non ha affatto rappresentato la massima garanzia di libertà, anzi ha modificato diritti fondamentali dei cittadini e chi si è ribellato ne ha pagato le conseguenze. Solo le Ong sarebbero libere di infrangere le leggi?
Nel maggio del 2024 associazioni come Baobab experience, Collettivo rotte balcaniche, Linea d’ombra, Kitchen on borders difendevano un network nato «nell’autodenuncia della propria pratica quotidiana di disobbedienza civile, contro le politiche migratorie italiana ed europea, contro i confini interni ed esterni».
E se ci si mette anche la Chiesa, la disobbedienza può appare il nuovo credo a cui dare ascolto. In spregio alle leggi e ai tribunali, stando alle parole di don Mattia Ferrari, il cappellano di Mediterranea Saving Humans. «La morale per noi invece è che tu devi lottare accanto a chi è oppresso. Tu devi contrastare questo sistema. Tu devi sovvertire questo sistema capitalista e patriarcale. E allora abbiamo introdotto l’espressione disobbedienza morale», spiegava nel luglio del 2023.
Anche Alessandra Sciurba, già presidente di Mediterranea Saving Humans, nel 2020 parlava di «disobbedienza morale e obbedienza civile» che l’aveva animata a soccorrere migranti sulla barca a vela Alex sfidando decreti-legge e imposizioni governative illegittimi. È la stessa Associazione di promozione sociale (Aps) in cui si è trasformata Mediterranea a lamentarsi perché «le Ong sono costrette a spendere una gran quantità di tempo e risorse per contestare la restrittiva legislazione italiana e i fermi amministrativi arbitrariamente imposti». Navigano contro legge.
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David Neres festeggia con Rasmus Hojlund dopo aver segnato il gol dell'1-0 durante la semifinale di Supercoppa italiana tra Napoli e Milan a Riyadh (Ansa)
Nella prima semifinale in Arabia Saudita i campioni d’Italia superano 2-0 i rossoneri con un gol per tempo di Neres e Hojlund. Conte: «Vincere contro un top team dà fiducia, entusiasmo e consapevolezza». Allegri: «Il Napoli ha meritato perché ha difeso molto meglio di noi. Dobbiamo migliorare la fase difensiva, è lì che nascono le difficoltà».
È il Napoli la prima finalista della Supercoppa italiana. All’Alawwal Park di Riyadh, davanti a 24.941 spettatori, i campioni d’Italia superano 2-0 il Milan al termine di una semifinale mai realmente in discussione e torneranno lunedì nello stadio dell’Al Nassr per giocarsi il primo trofeo stagionale contro la vincente di Bologna-Inter, in programma domani sera.
Decidono un gol per tempo di Neres e Hojlund, protagonisti assoluti di una gara che la squadra di Antonio Conte ha interpretato con maggiore lucidità, intensità e qualità rispetto ai rossoneri. Il pubblico saudita, arrivato a scaglioni sugli spalti come da consuetudine locale, si è acceso soprattutto per Luka Modric durante il riscaldamento, più inquadrato sugli smartphone che realmente seguito sul campo, ma alla lunga è stato il Napoli a prendersi scena e risultato. Un successo meritato per i partenopei che rispetto al Milan hanno dimostrato di avere più idee e mezzi per colpire.
Conte ha scelto la miglior formazione possibile, confermando il 3-4-2-1 con l’unica eccezione rispetto alle ultime gare di campionato che riguarda il ritorno tra i titolari di Politano al posto di Lang. Davanti la coppia McTominay-Neres ad agire alle spalle di Hojlund. Ed è stato proprio il centravanti danese uno dei protagonisti del match e della vittoria del Napoli, mettendo lo zampino in entrambi i gol e facendo impazzire in marcatura De Winter. L’ex difensore del Genoa è stato scelto da Allegri come perno della difesa a tre per sostituire l'infortunato Gabbia, un’assenza che alla fine dei conti si è rivelata più pesante del previsto. Ma se quella del difensore centrale era praticamente una scelta obbligata, il turnover applicato in mezzo al campo e sulla corsia di destra non ha restituito gli effetti desiderati. Nel solito 3-5-2 hanno trovato spazio dal primo minuto anche Jashari e Loftus-Cheek, titolari al posto di Modric e Fofana, ed Estupinan per far rifiatare Bartesaghi, uno degli uomini più in forma tra i rossoneri.
Il Napoli ha preso infatti fin da subito l’iniziativa, con Elmas al tiro già al 2’ e con Maignan attento a bloccare senza problemi. Il Milan ha poi avuto due ghiotte occasioni: al 5’ sugli sviluppi di una rimessa laterale Pavlovic ha tentato una rovesciata, il pallone è arrivato a Loftus-Cheek che, solo davanti a Milinkovic-Savic, ha mancato incredibilmente l’impatto; al 16' Saelemaekers ha sprecato calciando alto da buona posizione. È l’illusione rossonera, perché da quel momento sono i partenopei a comandare il gioco. Al 32' McTominay ha sfiorato il vantaggio con un destro di prima poco fuori, mentre Nkunku al 37’ ha confermato il suo momento negativo non inquadrando nemmeno la porta a conclusione di un contropiede che poteva cambiare la partita. Partita che è cambiata in maniera decisiva due minuti dopo, al 39’, quando è arrivato il gol che ha sbloccato la semifinale: da un'azione insistita di Elmas sulla sinistra, il pallone è arrivato a Hojlund il cui tiro in diagonale ha messo in difficoltà Maignan. La respinta troppo corta del portiere francese è finita sui piedi di Neres, il più rapido ad avventarsi sul pallone e a depositarlo in rete. Il Napoli è andato vicino al raddoppio già prima dell’intervallo con un altro contropiede orchestrato da Elmas e concluso da Hojlund, su cui Maignan ha dovuto compiere un mezzo miracolo.
Nella ripresa il copione non è cambiato. Rrahmani ha impegnato ancora Maignan da fuori area, poi al 64’ è arrivato il 2-0 che ha chiuso la partita: Spinazzola ha affondato a sinistra e servito Hojlund, veloce e preciso a finalizzare con freddezza, firmando così una prestazione dominante contro un De Winter in grande difficoltà. Allegri ha provato a cambiare volto alla gara passando al 4-1-4-1 con l’ingresso di Fofana e Athekame, ma il Milan non è riuscito di fatto mai a rientrare davvero in partita. Anzi. Al 73' uno scatenato Hojlund ha sfiorato la doppietta personale. Poi, al 75', il Milan ha regalato alla parte di stadio rossonera la gioia più grande di tuta la serata, ovvero l'ingresso in campo di Modric. Il croato è entrato tra gli applausi del pubblico, ma è solo una nota di colore in una serata che resta saldamente nelle mani del Napoli. Nel finale spazio anche a qualche tensione, sia in campo che in panchina. Prima le scintille tra Tomori e McTominay, ammoniti entrambi da Zufferli. Poi, in pieno recupero, un battibecco verbale tra Oriali e Allegri. E mentre scorrevano i sette minuti di recupero concessi dal direttore di gara, accompagnato dal coro dei tifosi sauditi di fede azzurra «Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi», è arrivato il verdetto definitivo.
Nel post partita Massimiliano Allegri ha riconosciuto i meriti degli avversari: «Il Napoli ha meritato perché ha difeso molto meglio di noi. Dobbiamo migliorare la fase difensiva, è lì che nascono le difficoltà». Sull’eliminazione da Coppa Italia e Supercoppa è stato netto: «Siamo dispiaciuti, ma il nostro obiettivo resta la qualificazione in Champions, che è un salvavita per la società». Di tutt’altro tono Antonio Conte, soddisfatto della risposta della sua squadra: «Battere il Milan fa morale. Vincere contro un top team dà fiducia, entusiasmo e consapevolezza. Con energia, anche in emergenza, siamo difficili da affrontare». Parole di elogio per Hojlund: «Ha 22 anni, grandi margini di crescita e oggi è stato determinante. Sta capendo sempre di più quello che gli chiedo».
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