2024-06-26
Macron disperato sparge terrorismo: «Se non vinco io sarà guerra civile»
Per i sondaggi sarà arduo formare una maggioranza. I giornali lanciano l’idea di un governo tecnico: una novità in Francia.Nei piani del Rassemblement national lo stop allo ius soli e paletti ai ricongiungimenti.Lo speciale contiene due articoli. Renaissance, il partito fondato da Emmanuel Macron, va malissimo nei sondaggi per le elezioni legislative, così il presidente francese ha adottato una strategia del terrore paventando il rischio di «una guerra civile» in caso di vittoria del Rassemblement national o del Nouveau Front Populaire. Macron ha evocato scenari catastrofici in un episodio di Génération Do It Yourself, un podcast destinato ad un pubblico tanto apprezzato dal leader francese, quello dei giovani imprenditori startupper. L’inquilino dell’Eliseo ha detto che, in tema di sicurezza «la risposta dell’estrema destra» rinvia «le persone a una religione o ad un’origine» inoltre «divide e spinge alla guerra civile». Anche le proposte formulate da La France Insoumise (uno dei principali partiti del Nouveau Front Populaire) conducono alla «guerra civile» perché consistono nell’associare le persone «esclusivamente alla loro appartenenza religiosa o comunitaria».Ventiquattro ore prima di avviare la strategia del terrore, Macron aveva scritto una lettera ai francesi, pubblicata dai quotidiani locali e regionali. Nella missiva indirizzata ai suoi connazionali, Macron ha fatto un mea culpa ammettendo che c’è della «collera» nei suoi confronti, poi ha riconosciuto che i francesi vogliono un cambiamento «sulla sicurezza» e sulla «impunità» dei responsabili di reati e infrazioni. Poi, il capo dello Stato transalpino ha fatto una lista dei sogni come se, negli ultimi sette anni, lui non fosse stato il presidente della République. Alla fine della lettera ai suoi concittadini, Macron ha affermato che «il modo di governare deve cambiare profondamente» perché c’è un «malessere democratico» e una «frattura tra il popolo e coloro che governano». Tuttavia il numero uno di Parigi non ha spiegato come questo cambiamento possa avvenire, soprattutto nell’eventualità di una vittoria di Renaissance, che rimane alquanto improbabile. In effetti gli ultimi sondaggi pubblicati da vari media ipotizzano una débacle per il partito macroniano che arriva terzo praticamente in tutte le proiezioni. Secondo l’analisi realizzata da Touluna-Harris Interactive per Challenges, M6 et Rtl, il Rassemblement national (Rn) otterrebbe il 33% dei voti, seguito dal Nouveau Front Populaire (Nfp) con il 27% delle preferenze e da Renaissance, ferma al 20%. Gli eletti de Les Républicains (Lr anti-Ciotti) contrari ad una alleanza con il Rn si attesterebbero al 7% dei voti, mentre Les Républicains che si sono avvicinati al Rassemblement national (Lr-pro Ciotti) potrebbero arrivare al 4% dei voti. Percentuali simili si trovano nel sondaggio Elabe per Bfm Tv e La Tribune du Dimanche, secondo il quale l’Rn otterrebbe il 36% dei suffragi, l’Nfp il 27% e Renaissance il 20%. Un sondaggio Odoxa commissionato dal canale Public Sénat indica invece che solo il 27% dei francesi ha fiducia nel presidente della Repubblica. Infine, il 41% dei datori di lavoro starebbe valutando la possibilità di votare Rn, guidato da Jordan Bardella e Marine Le Pen. Certo, i sondaggi non sono perfetti. Inoltre, la trasformazione di queste percentuali in seggi non è semplice con il doppio turno. In effetti, ad oggi gli scranni occupati dal Rn sarebbero, a seconda dei sondaggi, tra i 215 e i 280, per questo servirebbe un sostegno di altri deputati (magari dei fuoriusciti Lr anti-Ciotti) per arrivare alla soglia dei 289 parlamentari, ovvero la maggioranza assoluta.L’ipotesi che nessun partito riesca ad ottenere una maggioranza stabile all’Assemblea Nazionale ha portato alcuni media ad ipotizzare la formazione di un governo tecnico, qualcosa di assolutamente sconosciuto al di là delle Alpi. Il primo a parlarne è stato Le Parisien che è andato anche oltre le legislative. Il quotidiano ha intervistato Stéphane Rozès, politologo e docente all’Institut catholique di Parigi. Secondo l’intervistato, un eventuale esecutivo tecnico sarebbe incaricato di gestire gli affari correnti «in attesa di un nuovo scioglimento o di una nuova elezione presidenziale».Lasciando da parte un attimo lo scenario di un governo tecnico, i sondaggi disastrosi hanno agito da stimolo ad altre personalità macroniane trasformatesi in Cassandre. Ad esempio, il ministro dell’Interno uscente e candidato alle legislative Gérald Darmanin, ha dichiarato su Cnews che «delle informative dei servizi di intelligence parlano di possibili problemi di ordine pubblico il 30 giugno e, con più certezza, il 7 luglio».Al terrore fomentato da Macron e compagni, hanno risposto i suoi avversari. Jean-Luc Mélenchon, numero uno di La France Insoumise, ha dichiarato che Macron è «sempre pronto» ad «appiccare il fuoco» e che, per ora, l’unica guerra civile in corso «è quella che Macron ha scatenato in Nuova Caledonia». Il leader del Rn Bardella ha attaccato chi, come Darmanin, ha parlato del rischio di disordini. Per Bardella, le uniche «sommosse» di cui si può parlare, sono quelle esplose un anno fa, dopo la morte di Nahel Merzouk, un minorenne noto alle forze dell’ordine, che aveva rifiutato di fermarsi ad un controllo stradale. A questo proposito, la madre del giovane scomparso ha gettato benzina sul fuoco annunciando una «marcia silenziosa» il 29 giugno, ovvero alla vigilia del primo turno. Ieri sera intanto, quando La Verità andava in stampa, si è tenuto il primo dibattito elettorale tra il premier Gabriel Attal, Jordan Bardella e il deputato Lfi Manuel Bompard.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macron-disperato-sparge-terrorismo-2668603582.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="prima-la-sicurezza-poi-le-riforme-il-programma-in-due-fasi-di-bardella" data-post-id="2668603582" data-published-at="1719338627" data-use-pagination="False"> Prima la sicurezza, poi le riforme. Il programma in due fasi di Bardella Non è affatto impossibile, per la prima volta nella Terza Repubblica, che un partito francese di destra – che rifiuta o l’etichetta di estrema destra – prenda la maggioranza assoluta dei voti, formi un governo e ottenga il primo ministro. Le elezioni del 30 giugno e del 7 luglio ci diranno se il ventottenne italo-francese Jordan Bardella, il cui nonno paterno Guerino era di Frosinone, riuscirà in questa nuova Rivoluzione francese del 2024. Intanto il suo Rassemblement national (Rn) ha pubblicato il programma, in 12 pagine. L’ambizione è quella di «rimettere ordine nelle strade e nelle istituzioni, nelle finanze e nell’economia, nelle scuole e nelle nostre vite». Si tratta di misure che danno l’idea dell’abisso che separa il popolo e le sue esigenze di sicurezza, espresse dal Rn, dal blocco sociale che vota sinistra (alta finanza, magistratura, docenti, intellettuali, artisti, milionari e milioni di stranieri, specie musulmani). I cattolici sono spaccati: gli anziani e i presuli della Chiesa alta stanno con Macron e Mélenchon, i giovani laici e i sacerdoti con la destra. Col titolo di «L’unione fa la Francia», il «grande progetto di restaurazione nazionale» si articolerà «in due fasi, conformemente al calendario regolamentare, legislativo e costituzionale». La prima fase, che inizierà subito, toccherà il problema sentito come prioritario dalla maggioranza dei francesi: «l’urgenza sociale e di sicurezza». La seconda fase, che inizierà a settembre, sarà «il tempo delle riforme»: riduzione delle tassazioni più abnormi, «numerose misure fiscali e finanziarie», rilancio dell’occupazione, recupero del livello scolastico, da decenni in crollo verticale, partendo dall’insegnamento dei fondamentali: «scienze, francese, storia». I punti più urgenti e forti del programma sono quelli su sicurezza e immigrazione. Tra le misure che Bardella si propone figurano: la «sospensione degli assegni familiari» ai genitori di «minorenni criminali o delinquenti recidivi». Poi, le «pene minime garantite», che non possono dunque essere annacquate dal magistrato sessantottino di turno, per gli spacciatori e per chi commette violenza contro «le pubbliche autorità» (poliziotti, insegnanti, medici, impiegati dello Stato). Quanto all’immigrazione, il linguaggio è limpido: «soppressione dello ius soli», e ripristino dello ius sanguinis; reintroduzione del «delitto di immigrazione clandestina»; «soppressione di tutte le deroghe che impediscono l’espulsione degli stranieri»; «limitazione del ricongiungimento familiare», la prima causa, dal lontano 1978, del cambiamento del volto della Francia, «inasprendone le condizioni». Tra le altre misure che dovrebbero aiutare alla nascita di una nuova Francia (o alla rinascita della Francia storica), si segnalano il «miglioramento della difesa del territorio nazionale», il rifiuto di «trasferire all’Ue» tutto quel che concerne «la difesa e la diplomazia», il «rilancio della francofonia», la cancellazione delle «tasse sulle eredità» per i ceti meno fortunati. Sulla giustizia, Bardella e Marine Le Pen si propongono di sostituire il lassismo con la fermezza. Dalla costruzione di nuove prigioni all’abbassamento «dell’età penale a 16 anni», dalla «creazione di una nuova polizia municipale» nei piccoli comuni, alla «presunzione di legittima difesa per le forze dell’ordine». E la registrazione dei «molestatori di strada come criminali sessuali», con pene certe e aggravate. Altre misure programmatiche riguardano la sanità e «il rifiuto dell’ecologia punitiva», pur nella tutela della natura e la lotta alle «emissioni» nocive. I limiti che vediamo noi nel progetto sono opposti a quelli gridati dalla sinistra e cioè l’assenza di imprescindibili paletti in materia etica (vita, famiglia, stop all’eutanasia voluta dalla sinistra etc.). Ma non si può forse chiedere tutto ad un futuro primo ministro che, semmai ce la farà, avrà un’ardura coabitazione con Emmanuel Macron, in attesa che Marine Le Pen diventi la novella Thatcher (o la Giorgia Meloni) dei francesi.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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