2021-05-05
Ezio Luzzi: «I radiocronisti d’oggi? Urlatori tutti uguali»
È stata la voce della serie B a «Tutto il calcio»: «Mi hanno definito il Robin Hood post moderno: rubavo spazi alla A per darli ai cadetti. Sono graniticamente convinto che un loro gol vale quanto uno delle grandi squadre. Ma questo spirito l'hanno ucciso».A Tutto il calcio minuto per minuto poteva accadere che i radiocronisti di punta Enrico Ameri e Sandro Ciotti, interrotti dalle retrovie della domenica calcistica, San Benedetto del Tronto o Monza, Terni o Busto Arsizio, si lasciassero sfuggire un principio di stizza. Ma Ezio Luzzi ottemperava al proprio dovere e irrompeva implacabile con un orgoglioso «Attenzioneee!», per segnalare il realizzo di una rete, la decretazione di un rigore o altri episodi degni di nota che si verificavano in uno di quei campi, considerati minori, del torneo cadetto. Altro che timidezza. Il suo caporedattore, Guglielmo Moretti, l'aveva inviato in una di quelle piazze periferiche del calcio italiano, lontane dai potenti riflettori il più delle volte puntati sui blasonati club di Milano, Torino, Roma e Genova, per dare resoconto dell'andamento delle ostilità anche nelle partite rischiarate da luce più fioca. Quelle, ritenute più interessanti, della cadetteria. Ci fosse in gioco una promozione in A, una retrocessione in C, oppure si trattasse di confronti interlocutori d'inizio o metà campionato, il concetto cui Luzzi, classe 1933, si affidava, è lo stesso che tutt'oggi ribadisce. «Ne sono graniticamente convinto, un gol di serie B vale quanto uno di serie A». Lo scrive nel suo spassoso libro di memorie Tutto il mio calcio minuto per minuto, edito da Baldini & Castoldi. I suoi colleghi fissi della squadra storica del popolarissimo programma domenicale di Radio Rai - composta, oltre che da Ameri e Ciotti, da Provenzali, Ferretti, Pasini e Viola - sono volati verso miglior vita, «e io sono ancora qui», dice in collegamento da Roma, dove vive non solo di ricordi, dato che è direttore di un'emittente radiofonica, Radioelle, che trasmette nella capitale e nei suoi dintorni. «Sono l'ultimo dei Mohicani». Timbro di voce e quasi impalpabile verve sono le stesse di allora. «Mister B», tuttavia, non ha legato la sua carriera nel broadcast di Stato solo alla seconda serie, ma anche ai campionati del mondo di calcio. Ne ha seguiti 8, da Messico 1970 a Francia 1998, nel trio dalla formula classica «Ameri per la cronaca, Ciotti in tribuna stampa e Luzzi dagli spogliatoi». A ciò si aggiungono svariati europei e 9 Olimpiadi. Il 21 gennaio 1977, con accortezza e garbo, fece intuire ai radioascoltatori che qualcosa di molto grave era accaduto al centrocampista della Lazio Luciano Re Cecconi («all'epoca era inderogabile accertare che i familiari fossero stati avvertiti prima di dare la notizia»), come noto ucciso da un gioielliere a Roma con una Walther 7.65 nel corso della simulazione di rapina organizzata per scherzo con due amici. Per primo dette la notizia, divulgata poi in tutto il mondo, dell'attentato dinamitardo causato dall'estremista statunitense Richard Jewell, il 27 giugno 1996, al Centennial olimpic park di Atlanta, durante le Olimpiadi, che consentì al Gr2 di anticipare l'Ansa. Il caso volle che si trovasse a pochi passi dal luogo dell'esplosione, che causò un morto e 111 feriti. Fu sbalzato in aria, ma la prima cosa che ricordò fu di essere un giornalista («Una questione di metri… Forse il mio angelo custode mi diede una mano»). D'altra parte, il luogo della sua nascita fu esso stesso una perentoria predestinazione. Venne alla luce nel complesso dello stadio del Deportivo Colòn, a Santa Fe, in Argentina, di cui suo padre, emigrato da Terracina, era il principale custode.Partiamo dalla serie B. «Oggi la B imita la A, si affida a costosi stranieri, ha sponsor rinnovati e sicuramente più soldi di un tempo. Ma tradisce la propria tradizione, i propri figli e, in definitiva, il calcio italiano non ha più un vivaio» scrive nel suo libro. La progressiva esasperazione del business ha rovinato il mondo del calcio?«Sì, indubbiamente. La serie B era il serbatoio del calcio italiano e della Nazionale. Solo per fare degli esempi, Rossi, Vierchowod, Tardelli provenivano da lì. Era il banco di prova di questi ragazzi che, per quanto giocassero in un campionato snobbato, consentiva loro di mettersi in evidenza. Quando iniziai a seguirla, per il campionato cadetto non rimanevano che briciole delle risorse che la Federazione stanziava. Allora il presidente del Lecce, Franco Jurlano, mi chiese di dargli una mano, fondando una rivista, Tutto B, che poi divenne Super B. Parlava dei problemi delle squadre in seconda divisione. La cosa fu utile. Poi le cose cambiarono, e la serie B si è adeguata alla serie A. Ecco perché oggi ne tradisce lo spirito. L'eccessiva rincorsa a stranieri affermati finisce per impedire ai giovani di crescere».Peppino Meazza, negli anni Trenta del Novecento, all'apice del successo, girava per i locali di Milano a bordo di auto di lusso e in compagnia di belle donne. Ma non trova che esista un abisso tra il divismo di allora e quello di oggi, fatto di hi tech ed enclave esclusive?«Il divismo è sempre esistito, ma ora il collegamento con i tifosi non esiste più. Io avevo gli allenatori di B che mi inseguivano per farsi intervistare. Oggi, calciatori e allenatori hanno un manager che li guida. Le interviste vanno concordate con un addetto alla comunicazione. All'epoca viaggiavamo con le squadre negli stessi aerei. Nei fine partita non si può più entrare negli spogliatoi per vedere un giocatore che magari s'incazza e spacca una porta. Bisogna attendere la conferenza stampa. All'epoca il calcio era una grande famiglia e adesso non lo è più».Il Guerin sportivo la definì un «Robin Hood post-moderno».(Ride). «Certo, perché rubavo spazi alla serie A per darli alla B. I tifosi di provincia mi volevano bene, mi difendevano. Finalmente avevano un loro paladino».Tuttavia, quando il suo capo Guglielmo Moretti, le affidò il compito di seguire la B ogni domenica, lei, abituato alle cronache di partite della massima serie, forse si sentì offeso. Considerò quell'incarico alla stregua di una retrocessione? «Inizialmente non la presi bene. Poi imposi di fare le cose a modo mio. E i 3 mesi iniziali divennero 40 anni». Ma quando Ciotti o Ameri tradivano un'ombra di nervosismo per i suoi interventi, come reagiva tra sé e sé? «A loro sembrava un po' strano che li interrompessi da campi di provincia. D'altra parte stavano seguendo partite importanti. Mi sono imposto di essere irremovibile».Confessi. Una punta d'invidia nei confronti dei vari Ameri o Martellini l'ha mai provata?«No. Nella maniera più assoluta. Li ho sempre considerati eccezionali colleghi e maestri. Ricordo che, in occasione della mia prima radiocronaca, apparve Nicolò Carosio, che mi disse di essere capitato lì per caso. In realtà voleva incoraggiarmi». Non tutti sanno che Paolo Valenti, prima di diventare l'indimenticabile conduttore in tv di 90° Minuto, fu radiocronista di sport. Quale ricordo ne evoca?«Mi vengono in mente le Olimpiadi di Roma del 1960. Io ero appena entrato in Rai. Lui stava facendo la radiocronaca della maratona di Abebe Bikila (etiope, in quella 17ª edizione dei giochi olimpici, conquistò la medaglia d'oro, ndr) e, dato che all'epoca non esistevano i monitor, mi chiese di verificare se l'atleta davvero corresse scalzo».Per voi, aspiranti radiocronisti, come avveniva la formazione?«I nostri tutor ci facevano improvvisare cronache di eventi immaginari, come un'udienza del Papa in piazza San Pietro. Dovevamo esprimerci, tirare fuori emozioni. Ci tenevano sulle spine, dicendoci che a breve saremmo andati in diretta. Ma quella diretta era sempre rimandata. Questo è un mestiere difficile. Si deve utilizzare un linguaggio comprensibile a tutti. Poi sono emersi vari stili, come quello, aulico, di Ciotti, e quello scoppiettante di Ameri. Ricordo che una delle mie prime radiocronache fu un Milan-Inter del torneo di Viareggio».Qual è il suo giudizio sugli speaker sportivi di oggi?«Sono più che altro urlatori. Tutti uguali. Io, quando dicevo “Attenzione" o “Scusate", ero immediatamente riconosciuto».Perché quell'epoca d'oro di Tutto il calcio, capace di calamitare 25 milioni di ascoltatori, tutti, la domenica pomeriggio, con la radiolina all'orecchio a rincorrere i boati dagli stadi, anche per controllare la schedina del Totocalcio, è tramontata?«La colpa è stata del proliferare delle televisioni. Video killed the radio star diceva una canzone dei Buggles del 1979. Poi a quei tempi, tutto iniziava e tutto finiva nella sola domenica. E poi delle agenzie di scommesse, che hanno distrutto il Totocalcio».A proposito di scommesse, nel 1980 furono clandestine e riguardarono combine sui risultati. Quello scandalo determinò squalifiche e retrocessioni. Fu così che lei si trovò a raccontare le sorti di blasonate squadre della serie maggiore declassate in seconda serie. E poi ci fu Calciopoli, nel 2006. C'è da sospettare che questi illeciti possano ancora esistere?«Questi fenomeni si ripresentarono anche dopo i mondiali di Spagna dell'82. Certo, la cosa non ha riguardato tutte le squadre. Ma i tifosi sono stati presi in giro e i campionati falsati. Pure certi presidenti delle società avevano scommesso. Chi sa, forse succederà ancora, ma saranno più furbi di quelli dell'epoca, che si facevano recapitare gli assegni nella cassetta della posta…».Insomma, cosa resta di autentico nel mondo del pallone?«Del calcio del passato non resta nulla. Tattiche e contrasti sono pressoché scomparsi. Le marcature non sono fatte a regola d'arte. I giocatori si trovano davanti praterie. Si vedono molti gol, ma si tratta di un calcio più facile, forse più spettacolare, ma privo di passione e ora anche senza pubblico. Non illudiamoci, quel mondo non tornerà più. Forse, finita questa pandemia, si studieranno idee nuove…».Pensa che Ameri e Ciotti, eterni rivali ma anche amici che giocavano sempre a scopone, si siano ritrovati nel mondo invisibile?«Io penso di sì. E li incontrerò anch'io quando andrò lassù. Ma intanto sono ancora qui a rappresentarli e loro mi danno la forza per andare avanti».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)