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2022-11-01
L’Occidente fa festa per Lula, l’alleato di Pechino e Mosca
Luis Inàcio Lula da Silva (Ansa)
Inacio Lula da Silva tornerà alla guida del Brasile. Il candidato di sinistra ha vinto il ballottaggio di domenica scorsa aggiudicandosi il 50,9% dei consensi. Il presidente uscente, Jair Bolsonaro, si è invece fermato al 49,1%, registrando comunque una performance assai migliore di quanto preconizzato da alcuni recenti sondaggi (secondo cui sarebbe stato indietro di quattro o cinque punti). Il Paese si conferma quindi fondamentalmente spaccato a metà.
«Hanno cercato di seppellirmi vivo, ma ho avuto un processo di resurrezione nella politica brasiliana. Sono qui per governare il Paese in un momento molto difficile, ma riusciremo a trovare le risposte», ha dichiarato il vincitore. «Non è una vittoria mia o del mio partito, ma di un immenso movimento democratico, oggi c’è un solo vincitore: il popolo brasiliano», ha proseguito. «Se siamo il terzo produttore di cibo al mondo e il primo di carne, abbiamo il dovere di garantire che ogni brasiliano possa fare colazione, pranzo e cena ogni giorno. Non possiamo accettare come una cosa normale che intere famiglie siano costrette a dormire per strada», ha aggiunto, promettendo poi di combattere la deforestazione amazzonica. Bolsonaro, dal canto suo, si è chiuso nel silenzio. Fino alla serata italiana di ieri, il presidente uscente non aveva rilasciato dichiarazioni né – sembra – ammissioni di sconfitta. A tal proposito, c’è chi crede che, visto lo stacco inferiore al 2% nel risultato finale, Bolsonaro abbia intenzione di intentare un ricorso. Tra l’altro, non va dimenticato che, alle ultime elezioni parlamentari, il Partito liberale del presidente uscente ha rafforzato la propria posizione: un fattore, questo, che potrebbe rivelarsi problematico per Lula.
Congratulazioni al vincitore sono arrivate dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e da Emmanuel Macron. «Mando le mie congratulazioni a Luiz Inacio Lula da Silva per la sua elezione a prossimo presidente del Brasile dopo elezioni libere, eque e credibili. Non vedo l’ora di lavorare insieme per continuare la cooperazione tra i nostri due Paesi nei mesi e negli anni a venire», ha twittato Joe Biden. Congratulazioni sono pervenute anche dal Commissario europeo, Paolo Gentiloni, e dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. «Confido in una collaborazione attiva con un amico di lunga data dell’Ucraina», ha dichiarato quest’ultimo. «Sincere congratulazioni» sono state espresse a Lula anche da Vladimir Putin. «Oggi in Brasile ha trionfato la democrazia», ha dichiarato invece il presidente venezuelano, Nicolas Maduro. «Sono disposto a lavorare con il presidente eletto Lula, da una prospettiva strategica e a lungo termine, per pianificare e promuovere congiuntamente a un nuovo livello la partnership strategica globale tra Cina e Brasile, a beneficio dei due paesi e dei suoi popoli», ha dichiarato Xi Jinping.
In questo profluvio di congratulazioni, emerge chiaramente un paradosso. Un paradosso che è tutto occidentale. Anche perché, alle nostre latitudini, non solo molti esponenti politici ma anche gran parte dell’establishment mediatico ha sempre avuto un debole per Lula in questa campagna elettorale. Addirittura, lo scorso settembre, Reuters riferì che l’amministrazione Biden stesse strizzando l’occhio al candidato di sinistra (non è d’altronde un mistero che l’attuale presidente americano rimproveri a Bolsonaro la sua amicizia con Donald Trump).
Ora, cominciamo col dire che nessuno nega gli aspetti controversi dello stesso Bolsonaro: dalla criticatissima gestione pandemica alla questione amazzonica (che comunque precede di molto la sua ascesa al potere nel 2019). Il punto tuttavia è un altro. Era maggio scorso, quando Lula, intervistato da Time, disse che la responsabilità della crisi ucraina era tanto di Vladimir Putin quanto di Volodymyr Zelensky. «Putin», dichiarò, «non doveva invadere l’Ucraina ma non è l’unico colpevole. Vedo il presidente ucraino parlare in tv ed essere applaudito in tutti i parlamenti del mondo ma questa persona è colpevole quanto Putin. In guerra non c’è mai un solo responsabile». Non solo: Lula ha storicamente sostenuto delle posizioni filoiraniane. Nel gennaio 2020, criticò Trump per aver fatto uccidere il generale Qasem Soleimani, accusando Bolsonaro di servilismo nei confronti dell’allora inquilino della Casa Bianca. Era inoltre l’anno scorso, quando Lula espresse di fatto sostegno al governo di Maduro: spietata dittatura che intrattiene stretti legami con Mosca, Pechino e Teheran. Invece, secondo Reuters, «le relazioni tra Cina e Brasile, due dei maggiori Paesi in via di sviluppo del mondo, sono peggiorate sotto il presidente di destra Jair Bolsonaro».
Tutto questo, senza dimenticare che Lula fu condannato per corruzione nel 2017: condanna che fu poi annullata lo scorso anno per motivi procedurali. «La sentenza», riferì France24 il 16 aprile 2021, “non ritiene Lula innocente. Ma essenzialmente rimette i pubblici ministeri al punto di partenza inviando i casi a un altro tribunale». Non solo: fu proprio Lula che, da presidente, si oppose, nel 2010, all’estradizione in Italia di Cesare Battisti, salvo poi chiedere (un po’ ipocritamente) scusa nel 2020.
Alla luce di tutto questo, non si capisce che cosa abbia da festeggiare oggi gran parte dell’establishment politico e mediatico occidentale. La vittoria di Lula porta l’America Latina a scivolare ancora più a sinistra. E così, mentre gli Stati Uniti perdono progressivamente influenza sull’area, Mosca e Pechino brindano.
Il prossimo presidente brasiliano punterà a consolidare ulteriormente i Brics, allontanando man mano Brasilia dall’Occidente. Un fattore, questo, che rafforzerà indirettamente Cina e Russia. Quindi ricapitolando: mentre mette le sanzioni a Mosca, buona parte dell’establishment occidentale sta esultando per la vittoria di un candidato brasiliano funzionale agli interessi della stessa Mosca e di una Pechino che finora non ha mai condannato l’aggressione russa dell’Ucraina. Una vera e propria perla di logica, non c’è che dire.
Fake news e affari, Musk fa il botto. «Nessun raid, un gigolò con Pelosi»
Polemiche si sono abbattute sul neo proprietario di Twitter, Elon Musk. Domenica scorsa, il magnate aveva twittato (e successivamente cancellato) una notizia infondata riguardante la recente aggressione subita da Paul Pelosi, il marito della speaker della Camera, Nancy Pelosi. In particolare, Musk aveva condiviso un articolo del Santa Monica Observer, secondo cui il consorte della speaker si sarebbe trovato assieme a un gigolò e non si sarebbe verificato alcun attacco. Nel rilanciare l’articolo, il magnate aveva twittato: «C’è una piccola possibilità che ci possa essere di più di quanto sembri in questa storia». Un post, quello di Musk, che era stato pubblicato in risposta a un tweet di Hillary Clinton, dedicato all’aggressione subita da Paul Pelosi.
«Il Partito repubblicano e i suoi portavoce ora diffondono regolarmente odio e teorie del complotto squilibrate. È scioccante, ma non sorprendente, che la violenza sia il risultato. Come cittadini, dobbiamo ritenerli responsabili per le loro parole e le azioni che ne conseguono», aveva scritto l’ex first lady.
Ora, che Musk dovesse stare più attento, è fuor di dubbio. Anche perché pare proprio che il Santa Monica Observer non risulti il massimo dell’attendibilità come fonte (una volta riportò che la Clinton sarebbe stata sostituita da una controfigura dopo essere morta l’11 settembre). Tutta questa indignazione non si è però registrata quando – fino a pochissimo tempo fa – il colosso tecnologico di San Francisco risultava (neppur troppo velatamente) assai ben disposto nei confronti dei democratici. Ricordiamo, per esempio, quando, a ottobre del 2020, bloccò di fatto – in piena campagna elettorale per le presidenziali di allora – la condivisione e la diffusione dello scoop del New York Post su Hunter Biden: uno scoop basato sui contenuti di un laptop che, pochi mesi fa, il Washington Post e il New York Times hanno riconosciuto essere autenticati. Lascia inoltre perplessi il fatto che Twitter abbia bloccato l’account dell’ex presidente americano, Donald Trump, mentre figure non esattamente liberaldemocratiche del calibro di Nicolas Maduro e Ali Khamenei continuano a cinguettare come se niente fosse.
In tutto questo, secondo quanto riferito dalla testata The Verge, il nuovo proprietario di Twitter starebbe pensando di far pagare maggiormente i profili verificati con la spunta blu, passando da 4,99 dollari a 19,99 dollari al mese. Gli utenti in questione avrebbero circa 90 giorni per effettuare l’iscrizione, dopodiché perderebbero la spunta. Non solo: sembra che il magnate abbia anche intenzione di portare avanti un poderoso piano di licenziamenti interni. Come riportato ieri dal New York Post, già giovedì scorso, Musk ha silurato il ceo Parag Agrawal, il cfo Ned Segal, il consigliere generale Sean Edgett e il direttore legale Vijaya Gadde (colei, cioè, che ebbe un ruolo decisivo nel bloccare l’account di Trump l’anno scorso). Ieri, invece, ha azzerato l’intero Cda in carica, restando amministratore unico della piattaforma.
Al momento, non è ancora del tutto chiaro se l’ex presidente americano farà ritorno sulla piattaforma (va tra l’altro tenuto presente il fatto che costui ha lanciato, alcuni mesi fa, il suo social network Truth). Non si può tuttavia escludere che Trump possa riaprire il proprio account, soprattutto qualora decidesse di ricandidarsi alla Casa Bianca dopo le elezioni di metà mandato del prossimo 8 novembre.
Per ora, l’unica cosa certa è che Musk sembra puntare a recidere i «legami» tra Twitter e il mondo progressista statunitense. Vedremo se proseguirà su questa strada e se sarà in grado di farlo.
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Il presidente scettico sulla guerra: «Zelensky sta troppo in tv». Dalla condanna alla protezione di Cesare Battisti: le sue zone d’ombra.Il tweet poi cancellato. Elon Musk licenzia il Cda e chiede soldi per la spunta blu.Lo speciale contiene due articoli.Inacio Lula da Silva tornerà alla guida del Brasile. Il candidato di sinistra ha vinto il ballottaggio di domenica scorsa aggiudicandosi il 50,9% dei consensi. Il presidente uscente, Jair Bolsonaro, si è invece fermato al 49,1%, registrando comunque una performance assai migliore di quanto preconizzato da alcuni recenti sondaggi (secondo cui sarebbe stato indietro di quattro o cinque punti). Il Paese si conferma quindi fondamentalmente spaccato a metà. «Hanno cercato di seppellirmi vivo, ma ho avuto un processo di resurrezione nella politica brasiliana. Sono qui per governare il Paese in un momento molto difficile, ma riusciremo a trovare le risposte», ha dichiarato il vincitore. «Non è una vittoria mia o del mio partito, ma di un immenso movimento democratico, oggi c’è un solo vincitore: il popolo brasiliano», ha proseguito. «Se siamo il terzo produttore di cibo al mondo e il primo di carne, abbiamo il dovere di garantire che ogni brasiliano possa fare colazione, pranzo e cena ogni giorno. Non possiamo accettare come una cosa normale che intere famiglie siano costrette a dormire per strada», ha aggiunto, promettendo poi di combattere la deforestazione amazzonica. Bolsonaro, dal canto suo, si è chiuso nel silenzio. Fino alla serata italiana di ieri, il presidente uscente non aveva rilasciato dichiarazioni né – sembra – ammissioni di sconfitta. A tal proposito, c’è chi crede che, visto lo stacco inferiore al 2% nel risultato finale, Bolsonaro abbia intenzione di intentare un ricorso. Tra l’altro, non va dimenticato che, alle ultime elezioni parlamentari, il Partito liberale del presidente uscente ha rafforzato la propria posizione: un fattore, questo, che potrebbe rivelarsi problematico per Lula. Congratulazioni al vincitore sono arrivate dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e da Emmanuel Macron. «Mando le mie congratulazioni a Luiz Inacio Lula da Silva per la sua elezione a prossimo presidente del Brasile dopo elezioni libere, eque e credibili. Non vedo l’ora di lavorare insieme per continuare la cooperazione tra i nostri due Paesi nei mesi e negli anni a venire», ha twittato Joe Biden. Congratulazioni sono pervenute anche dal Commissario europeo, Paolo Gentiloni, e dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. «Confido in una collaborazione attiva con un amico di lunga data dell’Ucraina», ha dichiarato quest’ultimo. «Sincere congratulazioni» sono state espresse a Lula anche da Vladimir Putin. «Oggi in Brasile ha trionfato la democrazia», ha dichiarato invece il presidente venezuelano, Nicolas Maduro. «Sono disposto a lavorare con il presidente eletto Lula, da una prospettiva strategica e a lungo termine, per pianificare e promuovere congiuntamente a un nuovo livello la partnership strategica globale tra Cina e Brasile, a beneficio dei due paesi e dei suoi popoli», ha dichiarato Xi Jinping. In questo profluvio di congratulazioni, emerge chiaramente un paradosso. Un paradosso che è tutto occidentale. Anche perché, alle nostre latitudini, non solo molti esponenti politici ma anche gran parte dell’establishment mediatico ha sempre avuto un debole per Lula in questa campagna elettorale. Addirittura, lo scorso settembre, Reuters riferì che l’amministrazione Biden stesse strizzando l’occhio al candidato di sinistra (non è d’altronde un mistero che l’attuale presidente americano rimproveri a Bolsonaro la sua amicizia con Donald Trump). Ora, cominciamo col dire che nessuno nega gli aspetti controversi dello stesso Bolsonaro: dalla criticatissima gestione pandemica alla questione amazzonica (che comunque precede di molto la sua ascesa al potere nel 2019). Il punto tuttavia è un altro. Era maggio scorso, quando Lula, intervistato da Time, disse che la responsabilità della crisi ucraina era tanto di Vladimir Putin quanto di Volodymyr Zelensky. «Putin», dichiarò, «non doveva invadere l’Ucraina ma non è l’unico colpevole. Vedo il presidente ucraino parlare in tv ed essere applaudito in tutti i parlamenti del mondo ma questa persona è colpevole quanto Putin. In guerra non c’è mai un solo responsabile». Non solo: Lula ha storicamente sostenuto delle posizioni filoiraniane. Nel gennaio 2020, criticò Trump per aver fatto uccidere il generale Qasem Soleimani, accusando Bolsonaro di servilismo nei confronti dell’allora inquilino della Casa Bianca. Era inoltre l’anno scorso, quando Lula espresse di fatto sostegno al governo di Maduro: spietata dittatura che intrattiene stretti legami con Mosca, Pechino e Teheran. Invece, secondo Reuters, «le relazioni tra Cina e Brasile, due dei maggiori Paesi in via di sviluppo del mondo, sono peggiorate sotto il presidente di destra Jair Bolsonaro». Tutto questo, senza dimenticare che Lula fu condannato per corruzione nel 2017: condanna che fu poi annullata lo scorso anno per motivi procedurali. «La sentenza», riferì France24 il 16 aprile 2021, “non ritiene Lula innocente. Ma essenzialmente rimette i pubblici ministeri al punto di partenza inviando i casi a un altro tribunale». Non solo: fu proprio Lula che, da presidente, si oppose, nel 2010, all’estradizione in Italia di Cesare Battisti, salvo poi chiedere (un po’ ipocritamente) scusa nel 2020. Alla luce di tutto questo, non si capisce che cosa abbia da festeggiare oggi gran parte dell’establishment politico e mediatico occidentale. La vittoria di Lula porta l’America Latina a scivolare ancora più a sinistra. E così, mentre gli Stati Uniti perdono progressivamente influenza sull’area, Mosca e Pechino brindano. Il prossimo presidente brasiliano punterà a consolidare ulteriormente i Brics, allontanando man mano Brasilia dall’Occidente. Un fattore, questo, che rafforzerà indirettamente Cina e Russia. Quindi ricapitolando: mentre mette le sanzioni a Mosca, buona parte dell’establishment occidentale sta esultando per la vittoria di un candidato brasiliano funzionale agli interessi della stessa Mosca e di una Pechino che finora non ha mai condannato l’aggressione russa dell’Ucraina. Una vera e propria perla di logica, non c’è che dire. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lula-rapporti-cina-russia-2658578519.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="fake-news-e-affari-musk-fa-il-botto-nessun-raid-un-gigolo-con-pelosi" data-post-id="2658578519" data-published-at="1667300362" data-use-pagination="False"> Fake news e affari, Musk fa il botto. «Nessun raid, un gigolò con Pelosi» Polemiche si sono abbattute sul neo proprietario di Twitter, Elon Musk. Domenica scorsa, il magnate aveva twittato (e successivamente cancellato) una notizia infondata riguardante la recente aggressione subita da Paul Pelosi, il marito della speaker della Camera, Nancy Pelosi. In particolare, Musk aveva condiviso un articolo del Santa Monica Observer, secondo cui il consorte della speaker si sarebbe trovato assieme a un gigolò e non si sarebbe verificato alcun attacco. Nel rilanciare l’articolo, il magnate aveva twittato: «C’è una piccola possibilità che ci possa essere di più di quanto sembri in questa storia». Un post, quello di Musk, che era stato pubblicato in risposta a un tweet di Hillary Clinton, dedicato all’aggressione subita da Paul Pelosi. «Il Partito repubblicano e i suoi portavoce ora diffondono regolarmente odio e teorie del complotto squilibrate. È scioccante, ma non sorprendente, che la violenza sia il risultato. Come cittadini, dobbiamo ritenerli responsabili per le loro parole e le azioni che ne conseguono», aveva scritto l’ex first lady. Ora, che Musk dovesse stare più attento, è fuor di dubbio. Anche perché pare proprio che il Santa Monica Observer non risulti il massimo dell’attendibilità come fonte (una volta riportò che la Clinton sarebbe stata sostituita da una controfigura dopo essere morta l’11 settembre). Tutta questa indignazione non si è però registrata quando – fino a pochissimo tempo fa – il colosso tecnologico di San Francisco risultava (neppur troppo velatamente) assai ben disposto nei confronti dei democratici. Ricordiamo, per esempio, quando, a ottobre del 2020, bloccò di fatto – in piena campagna elettorale per le presidenziali di allora – la condivisione e la diffusione dello scoop del New York Post su Hunter Biden: uno scoop basato sui contenuti di un laptop che, pochi mesi fa, il Washington Post e il New York Times hanno riconosciuto essere autenticati. Lascia inoltre perplessi il fatto che Twitter abbia bloccato l’account dell’ex presidente americano, Donald Trump, mentre figure non esattamente liberaldemocratiche del calibro di Nicolas Maduro e Ali Khamenei continuano a cinguettare come se niente fosse. In tutto questo, secondo quanto riferito dalla testata The Verge, il nuovo proprietario di Twitter starebbe pensando di far pagare maggiormente i profili verificati con la spunta blu, passando da 4,99 dollari a 19,99 dollari al mese. Gli utenti in questione avrebbero circa 90 giorni per effettuare l’iscrizione, dopodiché perderebbero la spunta. Non solo: sembra che il magnate abbia anche intenzione di portare avanti un poderoso piano di licenziamenti interni. Come riportato ieri dal New York Post, già giovedì scorso, Musk ha silurato il ceo Parag Agrawal, il cfo Ned Segal, il consigliere generale Sean Edgett e il direttore legale Vijaya Gadde (colei, cioè, che ebbe un ruolo decisivo nel bloccare l’account di Trump l’anno scorso). Ieri, invece, ha azzerato l’intero Cda in carica, restando amministratore unico della piattaforma. Al momento, non è ancora del tutto chiaro se l’ex presidente americano farà ritorno sulla piattaforma (va tra l’altro tenuto presente il fatto che costui ha lanciato, alcuni mesi fa, il suo social network Truth). Non si può tuttavia escludere che Trump possa riaprire il proprio account, soprattutto qualora decidesse di ricandidarsi alla Casa Bianca dopo le elezioni di metà mandato del prossimo 8 novembre. Per ora, l’unica cosa certa è che Musk sembra puntare a recidere i «legami» tra Twitter e il mondo progressista statunitense. Vedremo se proseguirà su questa strada e se sarà in grado di farlo.
Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
L’attuale governo sta mostrando la consapevolezza di dover sostenere, con una politica estera molto attiva sul piano globale, il modello economico italiano basato sull’export che è messo a rischio - gestibile, ma comunque problematico per parecchi settori sul piano dei margini finanziari - dai dazi statunitensi, dalla crisi autoinflitta per irrealismo ambientalista ed eccessi burocratici dell’Ue, dai costi eccessivi dell’energia e, in generale, dal cambio di mondo in atto senza dimenticare la crisi demografica. Vedremo dopo le soluzioni interne, ma qui va sottolineato che l’Italia non può trasformare il proprio modello economico dipendente dall’export senza perdere ricchezza. La consapevolezza di questo punto è provata dalla riforma del ministero degli Esteri: accanto alla Direzione politica, verrà creata nel prossimo gennaio una Direzione economica con la missione di sostenere l’internazionalizzazione e l’export delle imprese italiane in tutto il mondo. Non è una novità totale, ma mostra una concentrazione di risorse e capacità geoeconomiche e geopolitiche finalmente adeguate alla missione di un’Italia globale, per inciso titolo del mio libro pubblicato nell’autunno 2023 (Rubbettino editore). Con quale meccanismo di moltiplicazione del potere negoziale italiano? Tradizionalmente, via la duplice convergenza con Ue e Stati Uniti pur sempre più complicata, ma con più autonomia per siglare partenariati bilaterali strategici di cooperazione economica-industriale (i trattati doganali sono competenza dell’Ue, condizione necessaria per un mercato unico europeo essenziale per l’Italia) a livello mondiale.
E con un metodo al momento solo italiano: partenariati bilaterali con reciproco vantaggio, cioè non asimmetrici. Con priorità l’Africa (al momento, 14 nazioni) ed il progetto di «Via del cotone» (Imec) tra Indo-Pacifico, Mediterraneo ed Atlantico settentrionale via penisola arabica. La nuova (in realtà vecchia perché elaborata dal Partito repubblicano nel 2000) dottrina di sicurezza nazionale statunitense è di ostacolo ad un Italia globale? No, perché, pur essendo divergente con l’Ue, non lo è con le singole nazioni europee, con qualche eccezione. Soprattutto, le chiama a un maggiore attivismo per la loro sicurezza, lasciando di fatto in cambio spazio geopolitico. Come potrà Roma usarlo? Aumentando i suoi bilaterali strategici e approfondendoli con Giappone, India, nazioni arabe sunnite, Asia centrale (rilevante l’accordo con la Mongolia se riuscisse) ecc. Quale nuovo sforzo? Necessariamente integrare una politica mercantilista con i requisiti di schieramento geopolitico. E con un riarmo non solo concentrato contro la minaccia russa, ma mirato a novità tecnologiche utili per scambiare strumenti di sicurezza con partner compatibili. Ovviamente è oggetto di studio, ma l’Italia ha il potenziale per farlo via progetti condivisi con America, europei e giapponesi nonché capacità proprie. Considerazione che ci porta a valutare la modernizzazione interna dell’Italia perché c’è una relazione stretta tra potenziale esterno e interno.
Obiettivi interni
La priorità è ridurre il costo del debito pubblico per aumentare lo spazio di bilancio utile per investimenti e detassazione stimolativi. Ciò implica la sostituzione del Pnrr, che finirà nel 2026, con un programma nazionale stimolativo (non condizionato dall’esterno) di dedebitazione: valorizzare e cedere dai 250 a 150 miliardi di patrimonio statale disponibile, forse di più (sui 600-700 teorici) in 15 anni. Se ben strutturata, tale operazione «patrimonio pubblico contro debito» potrà dare benefici anticipativi via aumento del voto di affidabilità del debito italiano riducendone il costo di servizio che oggi è di 80-90 miliardi anno. Già tale costo è stato un po’ ridotto dal giusto rigore della politica di bilancio per il 2026. Con il nuovo programma qui ipotizzato, da avviare nel 2027 per sua complessità, lo sarà molto di più dando all’Italia più risorse per spesa sociale, di investimenti competitivi e minori tasse.
Stimo dai 10 ai 18 miliardi anno di risparmio sul costo del debito e un aumento di investimenti esteri in Italia perché con voto di affidabilità (rating) crescente. Senza tale programma, l’Italia sarebbe condizionabile dalla concorrenza intraeuropea e senza i soldi sufficienti per la politica globale detta sopra. Ci sono tante altre priorità tecniche sia per invertire più decisamente il lento declino economico dell’Italia, causato da governi di sinistra e/o dissipativi, sia per rendere più globalmente competitiva l’economia italiana. Ma sono fattibili via un nuovo clima di cultura politica che crei fiducia ed ottimismo sul potenziale globale dell’Italia. Come? Più ordine interno, investimenti sulla qualificazione cognitiva di massa, sulla rivoluzione tecnologica, in sintesi su un’Italia futurizzante. L’obiettivo è attrarre più capitale e competenze dall’estero, comunicando credibilmente al mondo che l’Italia è terra di libertà, sicurezza, opportunità e progresso. Non può farlo solo la politica, ma ci vuole il contributo dei privati entro un concetto di «nazione attiva», aperta al mondo e non chiusa. Ritroviamo il vento, gli oceani.
www.carlopelanda.com
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Lando Norris (Getty Images)
Nell’ultimo GP stagionale di Abu Dhabi, Lando Norris si laurea campione del mondo per la prima volta grazie al terzo posto sul circuito di Yas Marina. Nonostante la vittoria in gara, Max Verstappen non riesce a difendere il titolo, interrompendo il suo ciclo di quattro mondiali consecutivi.
Lando Norris è campione del mondo. Dopo quattro anni di dominio incontrastato di Max Verstappen, il pilota britannico centra il titolo iridato al termine di una stagione in cui ha saputo coniugare costanza, precisione e lucidità nei momenti decisivi. La vittoria ad Abu Dhabi, conquistata con una gara solida e senza errori, suggella un percorso iniziato con un Mondiale che sembrava già scritto a favore dell’olandese.
La stagione ha visto Norris prendere il comando delle operazioni già nelle prime gare, approfittando di alcuni passaggi a vuoto di Verstappen e di una gestione impeccabile del suo team. Il britannico ha messo in mostra una costanza rara, evitando rischi inutili e capitalizzando ogni occasione: punti preziosi accumulati gara dopo gara che hanno costruito un vantaggio psicologico e tecnico difficile da colmare per chiunque, ma non per Verstappen, che nelle ultime gare ha tentato il tutto per tutto per costruirsi una chance di rimonta. Una rimonta sfumata per appena due punti, visto che il pilota della McLaren ha chiuso il Mondiale a quota 423 punti, davanti ai 421 del rivale della RedBull e che se avessero chiuso a pari punti il titolo sarebbe andato a Verstappen in virtù del numero di gran premi vinti in stagione: otto contro i sette di Norris. Inevitabile per l'olandese non pensare alla gara della scorsa settimana in Qatar, dove Norris ha recuperato proprio due punti sfruttando un errore di Kimi Antonelli all'inizio dell'ultimo giro.
La gara di Abu Dhabi ha rappresentato la sintesi perfetta della stagione di Norris: partenza accorta, gestione dei pit stop e mantenimento della concentrazione fino alla bandiera a scacchi. L’olandese, pur vincendo la corsa, non è riuscito a recuperare il distacco, confermando che i quattro anni di dominio sono stati interrotti da un talento giovane e capace di gestire la pressione del momento clou.
Alle spalle dei due contendenti, la stagione è stata amara per Ferrari e altri protagonisti attesi al vertice. Charles Leclerc e Lewis Hamilton non hanno mai realmente impensierito i leader della classifica, incapaci di inserirsi nella lotta per il titolo o di ottenere risultati significativi in gran parte del campionato. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, delle difficoltà del Cavallino Rosso nel trovare una combinazione di macchina e strategia competitiva.
Il Mondiale 2025 si chiude quindi con un volto nuovo sul gradino più alto del podio e con alcune conferme sullo stato della Formula 1: Norris dimostra che la gestione mentale, l’attenzione ai dettagli e la capacità di evitare errori critici contano quanto la velocità pura. Verstappen, pur da vincitore di tante gare, dovrà riflettere sulle occasioni perdute, mentre la Ferrari è chiamata a ripensare, ancora una volta, strategie e sviluppo per la stagione successiva.
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