2018-04-26
L'Italia è rimasta da sola a flirtare con l'Iran anche a costo di mettere in pericolo le sue aziende
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Israele convoca il nostro ambasciatore: siamo l'unico Paese Ue a opporsi alle nuove sanzioni volute dagli Usa di Donald Trump. Il governo non smentisce la rivelazione della stampa israeliana e continua ad alimentare gli scambi con un Paese sponsor del terrorismo. Il rischio per le imprese, pubbliche e private, è che i soldi finiscano a gruppo islamisti che, tra le altre cose, sognano la distruzione dello Stato ebraico.L'ultima bomba l'hanno sganciata 48 ore fa Channel 10 prima e il Jerusalem Post poi, senza che per ora sia giunta alcuna smentita da parte italiana: la notizia è che il direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, Yuval Rotem, avrebbe convocato qualche giorno fa l'ambasciatore italiano Gianluigi Benedetti per esprimere il suo dissenso rispetto alla scelta dell'Italia di dire no a un ulteriore pacchetto di sanzioni europee verso l'Iran. Regno Unito, Francia e Germania - di fatto muovendosi nella direzione auspicata dal presidente statunitense Donald Trump - sarebbero infatti pronte a dare luce verde a nuove misure, con l'obiettivo di colpire il programma missilistico di Teheran oltre che le attività iraniane in Siria, Libano, Iraq e Yemen. Eppure, l'Italia continua a dire no. Per procedere, infatti, serve l'ok di tutti e 28 gli Stati membri dell'Unione europea ma l'Italia sembra l'unico Paese in disaccordo, pronta a bloccare tutto. E secondo le posizioni riferite da fonti israeliane, questo deriverebbe da una serie di contratti siglati da soggetti e imprese italiane in Iran.La ricostruzione è quantomeno verosimile, vista la lunga storia di intese opache (per limitarci all'ultimo triennio) tra Roma e Teheran. Si badi bene: non si tratta soltanto dell'indimenticabile folklore delle statue incartate al Campidoglio in epoca renziana per non «turbare» l'ospite, il presidente iraniano Hassan Rouhani. Ma di una sequenza di incontri, intese, cooperazioni su ogni piano: da quello militare (perfino con esercitazioni navali congiunte) a quello giuridico, passando per aspetti legati a sanità e salute.Vale la pena di ricordare che l'Iran non è un partner qualunque: gli Stati Unit d'America lo considerano tuttora, nonostante l'apertura dell'ex presidente Barack Obama, un Paese sponsor del terrore, e l'obiettivo dichiarato di Teheran è la distruzione dello Stato di Israele. Ora, nel periodo dell'incauta apertura obamiana verso l'Iran, si può magari comprendere (anche se non giustificare) il fatto che qualcuno in Europa abbia pensato di fare altrettanto. Ma adesso, in considerazione della svolta imposta da Donald Trump, pronto a mettere in discussione il patto nucleare con l'Iran, Teheran è più che mai destinata a essere considerata alla stregua di un appestato internazionale.Eppure, i governi italiani dell'ultimo periodo insistono nel mantenere e addirittura nell'alimentare relazioni commerciali: si è perfino arrivati a una sorta di Fiera Italia-Iran.La cosa va esaminata nelle sue conseguenze sia sul versante privato che su quello delle imprese a controllo pubblico. Sul versante privato, siamo dinanzi a un azzardo enorme per le imprese italiane. È comprensibile che cerchino l'accesso a un grande mercato. Ma è assurdo (per non dire altro) incoraggiarle verso un Paese a rischio. Che cosa succederebbero, per esempio, se venisse fuori (magari grazie all'operato di una corte non italiana) che i denari di un certo affare sono direttamente o indirettamente utilizzati come sostegno al terrore? Un'impresa italiana può agire in modo correttissimo, limpido, ineccepibile: ma avendo a che fare, dall'altra parte, con un'economia in buona misura controllata dai pasdaran, nessuno può escludere esiti infausti. E non parlo solo della vergogna politica. Parlo proprio delle conseguenze economiche per le imprese eventualmente messe in mezzo, che una qualunque corte statunitense può chiamare in causa.Leggi anche: La minaccia di nuove sanzioni da parte di Trump fa crollare la moneta iranianaUn anno e mezzo fa è arrivato un primo segnale da non sottovalutare, riferito a vicende di diversi anni prima. Sul Financial Times di Londra, a fine 2016, è infatti comparsa la notizia di una megamulta statunitense di 235 milioni di dollari contro Banca Intesa in relazione a transactions involving Iran. Qualche mese dopo, a seguito di una interrogazione parlamentare, il governo italiano fu costretto a ammettere la veridicità della notizia.Ma anziché arretrare, l'esecutivo guidato da Paolo Gentiloni ha perfino accelerato, inventandosi uno strumento - è da presumere - utilizzabile soprattutto per le imprese pubbliche. Il fattaccio è accaduto nell'ultima legge di stabilità. In sostanza, attraverso il veicolo Invitalia, il governo ha deciso di usare il denaro dei contribuenti come garanzia pubblica per affari a rischio con gli Stati considerati sponsor del terrore e dell'integralismo islamista, a partire dall'Iran. La cosa tragicomica è che le relative risorse sono state prese dai fondi per l'imprenditoria giovanile.Ma, dettagli a parte, resta la questione macroscopica. Vi sono politici che nei giorni pari fanno gli amici di Israele ma nei giorni dispari accettano e promuovono disposizioni come queste. Giova ripeterlo ancora una volta: per le imprese pubbliche sono in gioco i soldi dei contribuenti, mentre per le imprese private che vengono portate in buona fede in Iran c'è il rischio che presso le corti statunitensi siano prima o poi chiamate a rispondere - magari senza colpa ma con danni devastanti - per money laundering e transactions with Iran. Ma c'è ancora chi, a Palazzo Chigi e in altri dicasteri chiave, fa finta di non vedere e di non capire.