2024-06-09
L’intercettazione su D’Alema. «Se parlo della barca di Max, il Pd deve chiudere»
Massimo D'Alema (Imagoeconomica)
La frase, attribuita all’armatore di «Ikarus» Vincenzo Morichini, è finita agli atti di un’inchiesta per corruzione in cui l’ex premier fu archiviato e altri patteggiarono. È uno dei padri nobili della sinistra europea. Anzi, mondiale. Ha un tale bagaglio di contatti, essendo stato premier, ministro degli Esteri e molto altro, che ha trasformato la sua rubrica in una rete perfetta per fare il consulente a livello internazionale. Ma Massimo D’Alema per colpa di questa sua nuova attività è finito sotto inchiesta a Napoli con l’accusa di corruzione internazionale. Mentre gli avvocati aspettano la chiusura delle indagini sulla controversa trattativa che avrebbe dovuto portare Fincantieri e Leonardo, con l’aiuto del Lìder Maximo, a vendere armamenti al ministero della Difesa della Colombia, altre inchieste giornalistiche rivelano che il nostro non ha interrotto i suoi affari, ma li ha trasferiti, almeno in parte, all’estero. Infatti dopo l’inizio dell’inchiesta ha aperto una nuova società di consulenza a Tirana. Il motivo di tanta intraprendenza deve probabilmente ricercarsi nella grande fiducia che ha nella giustizia. Negli anni ‘90 venne indagato per finanziamento illecito. Il pm Alberto Maritati lo fece archiviare giudicando il reato prescritto. Dopo pochi mesi la toga salentina venne arruolata dal governo D’Alema. Ma c’è la storia di un proscioglimento ancora più clamoroso che risale al 2012 e i cui particolari non sono mai stati resi noti dai giornali.L’indagine Venne iscritto sul registro degli indagati dopo le dichiarazioni di un imprenditore pentito, Viscardo Paganelli, il quale patteggiò la sua pena a 1 anno e 4 mesi. Ma alla fine l’ex primo ministro è stato archiviato su richiesta della Procura di Roma e su decisione del gip Elvira Tamburelli, cognata di colui che era stato uno dei più stretti collaboratori dell’ex capo del governo, quel Cesare Salvi che fu anche ministro nel gabinetto dalemiano. L’inchiesta partì quando Pio Piccini, un imprenditore umbro che voleva fare affari con Finmeccanica, raccontò del ruolo di facilitatore di Vincenzo Morichini, assicuratore, titolare della ditta di consulenze Società di business ed ex armatore insieme a Massimo D’Alema della barca a vela Ikarus.Morichini si proponeva come brasseur d’affaires «in quelle Regioni dove ci fosse stata una guida Pd, essendo lui molto vicino a D’Alema e al Partito democratico». Per questo Morichini avrebbe ottenuto da Piccini 2.500 euro fissi al mese, ma non solo: «La prima cosa che mi ha chiesto è stata di dare un contributo di 15.000 euro alla Fondazione Italianieuropei». Cosa che Piccini avrebbe fatto a inizio 2009. A tale elargizione ne sarebbe seguita una seconda di pari importo. Inoltre Morichini avrebbe chiesto il 5 per cento sugli eventuali futuri appalti, da suddividere, riassume il giudice Tamburelli, tra lo stesso Morichini, «la sua società (Sdb), la Fondazione Italianieuropei e il Partito democratico».I finanziamenti Morichini, considerato il fundraiser della fondazione, venne iscritto dalla Procura di Roma per corruzione, contestazione per cui ha patteggiato una pena di 1 anno e 6 mesi. Dalle carte dell’inchiesta compaiono i nomi di alcuni finanziatori di Italianieuropei. C’è un elenco sottoscrittori per le attività dell’anno 2010 con un computo totale di 166.000 euro provenienti da undici soggetti, tra cui la società Arkon dei Paganelli.In una lista corretta a meno e intitolata «pubblicità e attività 2008-2009», la somma totale è molto più corposa: il conto finale è di 2.147.700 euro, tra pubblicità e attività, a cui bisognava aggiungere 287.000 euro in trattativa. Tra gli sponsor le principali società partecipate italiane, da Enel a Ferrovie italiane, da Fincantieri a Eni, da Inps ad Anas alla Rai. Ma anche molti imprenditori privati, dalle banche alle case editrici. Piccini raccontò anche che Morichini gli avrebbe fatto incontrare almeno due volte D’Alema e anche l’amministratore della fondazione Andrea Peruzy.Paganelli aggiunse: «Quando l’ho conosciuto aveva grandi famigliarità ad altissimo livello: a parte che era un amico personale con D’Alema, conosceva direttori generali di banche, politici».A Roma l’inchiesta decollò grazie a un appunto manoscritto ritrovato nella disponibilità di Paganelli, con all’interno un elenco di ipotetici destinatari dei presunti finanziamenti illeciti: «Pronzato 40.000; Sdb 50.000 (1Luglio 200/2010) e 25.000 (1 Luglio 2010/31.12.2010); Italianieuropei 2009 15.000 - Italiani Europei 2010 15.000; Umbria Jazz 2010 20.000; Gualtieri (l’attuale sindaco di Roma, ndr)- Carlini 15.000; K. Marini (all’epoca presidente della Regione, ndr) 20.000; Viareggio 20.000; D’A. 4.000; Adolfo (Orsini, altro dem umbro, ndr), 10.000; G. 35.000». Morichini su Franco Pronzato, all’epoca responsabile Trasporti del Pd, nonché consigliere dell’Enac (Ente nazionale dell’aviazione civile), disse: «Per mantenere un rapporto che facilitasse la soluzione dei problemi che Rotkopf aviation Italia srl poteva incontrare nei rapporti con Enac proposi a Paganelli di erogare gratifiche a Pronzato. Paganelli accettò ed effettivamente consegnai a Pronzato complessivi 40.000 euro in due tranche da 20.000 euro l’una. Pronzato, di tali somme, mi diede la metà: 10.000 euro la prima volta, 10.000 euro la seconda». Oltre al pizzino, agli atti c’è anche una clamorosa intercettazione. In essa Paganelli si confida con la moglie, dopo aver incontrato Morichini.Ecco cosa si legge nel brogliaccio che ricostruisce la conversazione: «Paganelli e la moglie parlano in macchina: parlano di politica in genere (non inerente). Paganelli dice che Ferrara (Giuliano, ndr) avrebbe fatto anche una trasmissione su Morichini e l’avrebbe difeso, riferisce altre parole dette da Morichini, in particolare parla della barca di D’Alema dicendo "se parlo della barca di D’Alema il PD chiude.” La moglie di Morichini dice al marito "speriamo che non venga fuori la cosa dell’Aviation che ha spostato D’Alema di qua e di là”, Paganelli risponde dicendo che ci sarebbero le fatture ed è tutto regolare e loro non sono la Finmeccanica o la Fiat al massimo potranno finire sul giornale e tutto finirebbe lì. I due parlano di un certo Musumeci (fonetico) che avrebbe un processo per tentato omicidio. Paganelli dice che l’unica cosa che gli fa paura di questa storia sono le banche che gli avrebbero fatto qualche problema». Dunque uno dei tre armatori della barca a vela Ikarus (gli altri erano D’Alema e il comune amico Roberto De Santis) avrebbe detto «se parlo della barca di D’Alema il Pd chiude». I magistrati chiesero conto a Paganelli di quella frase e lui la confermò a verbale, spiegando che Morichini «era molto arrabbiato con D’Alema». Il pm domandò il motivo, ricevendo questa risposta: «Perché D’Alema non l’aveva difeso per niente [...] su questa storia qua, non aveva detto una parola e quindi lui era inferocito». Poi elencò i voli privati della sua compagnia utilizzati dall’ex premier: «Complessivamente l’onorevole D’Alema ha volato 5 volte nel 2010 sugli aerei della società. Le spese erano sostenute dalla società Sdb, verso la quale abbiamo emesso fatture, non ancora saldate, ma che richiederemo. In questo momento siamo creditori verso la Sdb della somma dovuta, pari a 10.000 euro, credo comprensivi di Iva. La circostanza può̀ essere verificata in contabilità. I voli, che io ricordi, sono stati: uno a Foligno, nel quale era presente oltre a Morichini la sua segretaria, Reggiani, e il suo segretario; uno dalla Calabria, dal quale venne trasportato l’onorevole D’Alema con la sua famiglia; uno a Hvar, ex Jugoslavia, dove egli raggiunse la sua famiglia, era il periodo d’agosto; uno in Puglia; uno a Treviso». L’imprenditore quantifica in 700-800 euro il costo per l’Umbria, 2.700 quello per Calabria e Croazia, il resto sarebbe andato per le altre due tratte. Riguardo al ritorno dalla Calabria precisò: «La moglie (di D’Alema, ndr) disse “Ah, questo è un aereo nuovo”, le era piaciuto». Paganelli ha anche fatto la lista dei soldi che Morichini gli avrebbe consigliato di dare in giro per oliare il sistema dei «compagni». E tra le prime voci, con i pm, ha citato questa: «Mi ha chiesto di aderire alla fondazione di D’Alema, Italianieuropei, dando 15.000 euro. La motivazione per cui ho aderito a questa, era, da un lato, per assecondare Morichini, che me l’aveva chiesto e avendo un rapporto con lui mi diventava difficile dirgli di no; da un altro lato nella Fondazione avevo conosciuto Andrea Peruzy, avevo conosciuto Matteo Fini - sono tutti personaggi molto vicini a D’Alema - c’era Ignazio Marino, che è un grande nome della Sanità, tutti personaggi che io pensavo potessero comunque essermi utili nel lavoro futuro che sarei andato a svolgere, per il ruolo che svolgevano nella società e nella politica». Paganelli ha anche detto: «Morichini era di casa alla fondazione. Fini l’ho appena salutato […] Marino è uno che nella Sanità è molto presente, è una persona che ho visto tre-quattro... un paio di volte con Morichini alla fondazione». Dopo queste dichiarazioni i pm romani hanno iscritto sul registro degli indagati D’Alema per finanziamento illecito «perché riceveva da Vincenzo Morichini, nella sua qualità di titolare della Sdb srl, utilità a contenuto patrimoniale, consistenti nel pagamento di 5 voli aerei effettuati dalla Rotkopf srl, senza la deliberazione dell’organo sociale competente, né l’iscrizione al bilancio». Insomma il problema sono diventati solo i passaggi in aereo e non i soldi dati alla fondazione. Interrogato dai pm Morichini specifica: «Fui io nelle occasioni in cui D’Alema ne aveva necessità, a mettergli a disposizione i voli in questione. Gli accordi con Paganelli erano che avrebbe pagato Sdb. La fattura emessa non è stata pagata perché non era corretta. Paganelli fece una fattura alla Agf di Fiumicino per 10.000 euro e invece doveva emetterla verso Sdb e per un valore inferiore (gli accordi erano di poco più di 4400 euro più Iva). Gli accordi erano che dovevano costare 400 euro l’ora, un prezzo preferenziale per me che dovevo diventare presidente della società, e non 800 euro». Il pm chiede: «Sapeva l’onorevole D’Alema che avrebbe pagato Sdb?». Risposta: «No, gli dissi che in qualità di futuro presidente avrei avuto diritto a ore di volo gratis». Il magistrato insiste: «Si è offerto D’Alema di pagare i voli». Su questo Morichini è perentorio: «No». Quanto agli altri pagamenti sollecitati a Paganelli, l’imprenditore conferma quelli a Pronzato e a Gualtieri. Mentre avrebbe trattenuto per sé i 20.000 destinati alla governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini: «La considerai una ulteriore remunerazione per l’attività che svolgevo per i Paganelli». A proposito di Gualtieri puntualizza: «Conosco Carlini (Andrea, ndr) anche perché era titolare del 30% della Sdb, attraverso la società Segni di qualità. Egli, in occasione delle elezioni Europee, alle quali partecipava Gualtieri (Carlini era presidente del comitato elettorale di Gualtieri) mi disse che aveva la necessità di un contributo. lo girai il messaggio a Viscardo Paganelli, il quale poco tempo dopo mi disse di aver fatto il pagamento. Carlini, successivamente, mi confermò di aver ricevuto li contributo. In questo caso, tuttavia, ribadisco, fu Viscardo Paganelli a effettuare il pagamento. La ragione del pagamento verso Gualtieri, attraverso Carlini, potrebbe essere stata quella di intervenire sulle strutture sanitarie, posto che Carlini, membro del cda di Atac di Roma, aveva rapporti con la Regione, con la giunta Marrazzo». Sul punto Paganelli ha fatto mettere a verbale: «Morichini mi propose di versare un contributo a Gualtieri, per la sua campagna elettorale del 2009, per le elezioni europee. Cosa che feci con le consuete modalità». In Procura l’imprenditore definisce il sindaco «uomo di area riconducibile a D’Alema» e «amico di Carlini, funzionario di partito», il quale aveva i giusti contatti con «esponenti amministrativi in quota Pd» degli ospedali romani, gente con cui Paganelli sarebbe voluto entrare in contatto per ottenere un appalto per la manutenzione di apparecchiature elettromedicali.La difesa di Max Ma torniamo a D’Alema. Dopo le dichiarazioni di Paganelli e Morichini, il 6 ottobre 2011 viene convocato in Procura per un interrogatorio. E ne esce in scioltezza. «Ho conosciuto Morichini molti anni fa: svolgeva attività di assicuratore. Nel 2009 Morichini si propose come collaboratore della Fondazione Italianieuropei. Io lo misi in contatto con il segretario generale della fondazione, Andrea Peruzy, con il quale concordarono le modalità della collaborazione. La collaborazione durò circa un anno. Attualmente c’è ancora un contenzioso aperto relativo ai compensi che Morichini avrebbe dovuto avere. Io ho sempre conosciuto Morichini come assicuratore. Non ho mai saputo che avesse costituito una società».Il verbale prosegue: «Durante il periodo della sua collaborazione con la fondazione Morichini disse che aveva uno stock di voli a prezzo molto vantaggioso che metteva a disposizione della mia persona e della fondazione. Dal mio punto di vista si trattava dunque di voli presi a noleggio da Morichini. I viaggi furono in occasione di un convegno a Foligno, in Umbria, al quale partecipava anche Morichini, il quale si offrì di darmi un passaggio all’andata. Per me io ero ospite su un volo di Morichini. Davo per scontato che egli avesse pagato il volo. La stessa cosa avvenne in occasione di altro convegno ad Asolo. Anche questa volta Morichini viaggiò con noi. Viaggiammo in aereo solo all’andata. Utilizzai altre tre volte i voli offertimi da Morichini, sempre durante il periodo della sua collaborazione con la fondazione, una volta in rientro da Bari, dove mi ero recato per un convegno. Fu la struttura della fondazione a prendere accordi con Morichini per organizzare il trasporto. Stessa cosa avvenne in rientro dalla Calabria sempre per un convegno (Paganelli ha raccontato che nell’occasione a bordo ci sarebbe stata anche la moglie di D’Alema, ndr). Infine utilizzai un’ultima volta l’aereo offertomi da Morichini da Roma per un’isola della Croazia per raggiungere la mia famiglia in vacanza». Ribadendo che Morichini gli «aveva più volte offerto la disponibilità di tali voli», rimarcò che a lui quei passaggi neanche servivano: «Aggiungo infine che per la mia posizione istituzionale di deputato, di ex presidente del Consiglio e di presidente della Commissione di controllo sui servizi segreti posso viaggiare con aerei Cai (Compagnia aerea italiana, ndr) per qualunque mia necessità. Io non ho mai utilizzato tali voli perché non voglio gravare sui contribuenti. Ma questa mia situazione rende evidente che io non ho ricevuto alcuna utilità patrimoniale da questi voli, quanto potrei comunque viaggiare a spese dello Stato».Questa l’autodifesa. Come detto nessuna domanda e nessuna risposta sui finanziamenti a Italianieuropei e nemmeno sulla vicenda della barca che avrebbe dovuto portare, a detta di Paganelli, alla chiusura del Pd. Le indagini si limitarono a trovare la conferma dei viaggi, sentendo come testimoni i piloti e altri dipendenti della Rotkopf. A distanza di tredici anni, con noi, Morichini si limita a dire: «Non intendo rilasciare interviste ma non ho mai pronunciato la frase di cui lei parla». Pochi giorni dopo l’interrogatorio, il 14 novembre o, forse, addirittura il 14 ottobre 2011 (la richiesta è postdatata a penna anche se il visto dell’aggiunto Alberto Caperna è del 10 novembre), la Procura propone l’archiviazione con questo ragionamento: «La questione che si pone è la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’indagato, il quale, in sede di interrogatorio, ha affermato di ritenere i voli in questione come un atto di generosità da parte di una persona che conosceva da tempo, Morichini, e di non avere avuto contezza del fatto che l’onere di spesa gravava sulla Sdb Srl. Le dichiarazioni dell’indagato appaiono credibili, anzitutto perché confermate da Morichini in sede di interrogatorio, nel corso del quale costui ha esplicitamente escluso che l’indagato avesse conoscenza del fatto che i voli erano pagati da Sdb e ha precisato di averli egli personalmente messi a disposizione». La Procura prende per buona la versione dei due vecchi armatori di Ikarus, in quanto «il valore dell’utilità erogata» era certamente compatibile con un «erogazione a titolo di liberalità» da parte di una persona con la quale D’Alema «intratteneva rapporti di conoscenza da lunga data».Non importa se a mettere a disposizione i voli fosse in realtà un imprenditore che cercava concessioni. Per il pm c’era anche un altro elemento che rendeva credibile l’ex premier ovvero il fatto che «l’indagato ha riferito di avere, in ragione della sua posizione istituzionale (presidente del Comitato di controllo dei servizi segreti) la disponibilità di voli Cai per qualunque necessità». Di qui la supposta innocenza.L’istanza finisce sul tavolo del gip Tamburelli, il 21 febbraio 2012. Il giudice è la moglie di Giovanni Salvi, fratello di Cesare, autore della «bozza» della Bicamerale per le riforme di D’Alema e protagonista del patto della crostata a casa di Gianni Letta con il suo mentore e con Silvio Berlusconi. Alla nascita del Pd, Cesare Salvi criticò la «strategia obsoleta» di D’Alema e puntò sulla Sinistra democratica per il socialismo europeo. Ma i due si ritrovarono dalla stessa parte della barricata quando ci fu da fermare le riforme pasticciate di Matteo Renzi. Il 23 marzo 2012 la cognata di Salvi emette il decreto di archiviazione del procedimento contro D’Alema. Riprendendo l’argomento dei pubblici ministeri Paolo Ielo e Giuseppe Cascini, nella sentenza afferma che D’Alema non avrebbe avuto interesse a «sfruttare» Morichini perché quale presidente del Copasir aveva diritto ai voli della Cai. In realtà D’Alema lo avrebbe avuto soltanto se i viaggi fossero stati funzionali allo svolgimento del suo incarico, mentre risulta documentato che si sia trattato in buona parte di voli «personali e familiari» che pertanto la Cai non avrebbe «coperto». Ma se a D’Alema andò bene, non è andata peggio al dem Pronzato. Il politico nel 2011 chiede di patteggiare. Ma il suo fascicolo rimane nella segreteria dei pm. E così nel 2019 i suoi avvocati, Maurizio Mascia e Gennaro Velle, inviano al giudice un sollecito a provvedere dopo che era abbondantemente decorso il termine della prescrizione del reato di corruzione («essendo trascorsi oltre 7 anni e mezzo dalla sua ipotizzata consumazione» scrivono i legali) ed essendo intervenuta l’assoluzione di altri imputati. Chiedono anche la revoca del sequestro preventivo di 20.000 euro. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo, di fronte all’istanza, salta sulla sedia ed è costretto a mettersi alla ricerca del fascicolo. Quindi chiede l’autorizzazione alla riapertura delle indagini spiegando al giudice che «l’azione penale in ordine al reato di corruzione non risulta essere stata esercitata in quanto la richiesta di applicazione della pena al gip non risulta essere stata mai depositata presso l’ufficio gip». Il 9 aprile 2019 il giudice Mara Mattioli autorizza la riapertura, ma è una vittoria di Pirro. Gli avvocati propongono una sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto o, in subordine, per prescrizione del reato. La Procura perora questa seconda ipotesi. Il giudice emette sentenza di non luogo a procedere in ordine al reato di corruzione «perché estinto per intervenuta prescrizione». Nel frattempo anche tutti gli altri indagati erano stati assolti o prosciolti: anche Gualtieri e Carlini, visto che non «è stato provato un passaggio di denaro o altre utilità fra Morichini e Gualtieri». Il pm nella richiesta di archiviazione parla di «ipotesi di corruzione triangolare se non addirittura quadrangolare». Insomma non credibile. Anche se i due principali imputati (Paganelli e Morichini) hanno confermato agli inquirenti il finanziamento, seppur con versioni non del tutto concordanti. Alla fine nessuno dei pezzi da 90 del Pd coinvolti nel procedimento è stato condannato. A questo è dovuta, probabilmente, la fiducia nella giustizia dell’ex premier.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
Continua a leggereRiduci
Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
Continua a leggereRiduci