L’Istituto smonta la campagna sul salario minimo: la povertà degli occupati dipende dalle poche ore d’impiego. Le paghe misere, infatti, riguardano soltanto lo 0,2% di loro. A pesare però è anche l’inflazione, che è cresciuta il doppio rispetto alle remunerazioni.
L’Istituto smonta la campagna sul salario minimo: la povertà degli occupati dipende dalle poche ore d’impiego. Le paghe misere, infatti, riguardano soltanto lo 0,2% di loro. A pesare però è anche l’inflazione, che è cresciuta il doppio rispetto alle remunerazioni.Il rapporto annuale presentato ieri alla Camera dalla commissaria dell’Inps, Micaela Gelera, dimostra «senza se e senza ma» che l’idea del salario minimo non rappresenta una soluzione per i lavoratori poveri. Il problema dei professionisti che hanno un lavoro non sufficiente ad avere una vita dignitosa, spiega l’Inps, è perlopiù legato alla scarsità di ore lavorate che non a una paga oraria troppo bassa. Portare, insomma, il pagamento minimo a nove euro l’ora avrebbe ben poco senso. Anche perché, come mostra l’Istituto nazionale di previdenza sociale, il problema interessa una platea di lavoratori molto ridotta. All’interno del rapporto, spiega l’Inps, la soglia giornaliera che identifica i lavoratori poveri è di 24,9 euro per i professionisti part-time e di 48,3 per quelli full time. A ottobre 2022, coloro che percepiscono un salario al di sotto del 60% della mediana in Italia erano 871.800, il 6,3% su un totale di 13,8 milioni (3,5 i dipendenti pubblici). Di questi 354.600 sono full time e 517.200 part-time. Il punto è che, tra questi, i lavoratori poveri per «ragioni salariali» sono solo 20.300, lo 0,2% del totale. Il resto, spiega l’istituto, è per ragioni legate alle poche ore di lavoro al giorno, pochi mesi nell’anno. Quindi per una bassa intensità di lavoro che porta a una retribuzione insufficiente. «Per quanto riguarda gli oltre 350.000 lavoratori poveri full time, essi risultano in buona parte riconducibili a due tipologie contrattuali specifiche (apprendistato e intermittente) mentre, per la quota restante, contano significativamente condizioni sia di assenza temporanea sia di situazione transitoria (superata nell’arco dell’anno)», spiega l’Inps. La presenza di lavoratori poveri, si legge, è «concentrata in aree borderline rispetto ai normali rapporti di lavoro dipendente: partite Iva attivate in alternativa all’impiego come dipendente; posizioni formalmente riconducibili a istanze di completamento della formazione professionale (stagisti, praticanti eccetera) e idonee a camuffare rapporti e aspettative simili di fatto a quelle sottese al “normale” rapporto di lavoro dipendente; posizioni di lavoro autonomo occasionale o parasubordinato. Senza dimenticare», conclude l’Inps, «le varie tipologie di lavoro nero, integrale o associato a posizioni parzialmente irregolari».D’altronde, il lavoro autonomo nel nostro Paese si sta via via ridimensionando. Venti anni fa i dipendenti rappresentavano il 72% del totale degli occupati, nel 2022 il 78%. Con gli autonomi che sono meno di cinque milioni e in costante diminuzione. Secondo lo studio Inps poi, gli occupati a termine sono circa 3 milioni, il 16% del totale ad aprile 2023, rispetto al 16,6% del febbraio 2020. Inoltre, il 18% degli occupati italiani lavora part-time, in linea con la media Ue. Le differenze, però si notano tra uomini e donne. La percentuale di signori che lavora a tempo parziale è dell’8%, di oltre il 30% per le signore. In più, a essere in crescita costante è la percentuale di professionisti che entra nel mondo del lavoro italiano con un contratto temporaneo: dal 35% nel 2009 al 55% del 2019.Il tema del salario minimo viene inoltre smentito dall’alto numero di contratti disponibili nel nostro Paese che hanno l’obiettivo di tutelari i lavoratori. Secondo il rapporto Inps, i contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti al 17 aprile 2023 sono 966. Tra questi, quelli che sono stati applicati ad almeno un dipendente nel 2022 sono 832. I primi 28, che coinvolgono almeno 100.000 lavoratori, coprono l’80% dei lavoratori italiani. Considerando, poi, i contratti collettivi che riguardano tra i 10 e i 100.000 lavoratori, si arriva a oltre il 95% del totale. In pratica, un centinaio di contratti nazionali collettivi basta per coprire la quasi totalità dei dipendenti. Senza considerare che il 96% dei lavoratori può fare affidamento su un Ccnl firmato da una delle tre maggiori organizzazioni sindacali italiane. A tutto questo si devono aggiungere 539 contratti «micro» che in tutto coprono circa 500.000 dipendenti.Come segnala l’Inps, il problema è anche che i salari dei dipendenti non hanno tenuto il passo con il galoppare dell’inflazione. In dettaglio, la retribuzione media di un dipendente è salita nel 2022 del 4,7% a 25.112 euro lordi. Si tratta di circa la metà rispetto al valore medio del tasso di inflazione dell’anno scorso, circa l’8,1% (del 10% nel periodo 2019-2022). Le differenze, però, sono molto evidenti tra chi opera a tempo parziale o pieno. Nel primo caso il salario medio è di 8.468 euro, contro i 38.469 euro di chi lavora tutto l’anno. La situazione, insomma, non appare troppo disastrosa, anche se si può fare molto meglio. Dopo i problemi legati alla pandemia, nel 2022 il tasso di occupazione ha raggiunto il suo massimo storico al 61%, spinto in particolar modo da contratti di lavoro stabili. Certo, il nostro Paese resta ancora piuttosto indietro rispetto alle grandi economie europee. La media del Vecchio continente è del 69,5% e nazioni come Spagna (64%), Francia (68%) e Germania (77%) ci bagnano il naso. A queste differenze bisogna poi aggiungere quelle all’interno del nostro territorio. Tra Lombardia e Sicilia la differenza è di 26 punti percentuali, con Milano al 69% e Palermo al 43%.
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