
Dopo la campagna contro la riforma della Giustizia, i vertici dell’Anm sfruttano i convegni per delegittimare la maggioranza: «Mandano al Csm degli avvocati di partito». E tacciono sul linciaggio di una magistrata che ha impugnato un atto arcobaleno.Sostituto procuratore di Roma Ad Assisi, in un convegno recente sui temi della giustizia, l’attuale segretario dell’Associazione nazionale magistrati Rocco Maruotti ha detto che un tempo il Parlamento mandava al Csm «personalità di rilievo», mentre oggi consiglieri non li conosce nessuno: altro non sono che avvocati di partito (sintetizzo dal Fatto Quotidiano del 17 settembre). Le personalità del Csm, certificate in blocco come «non di rilievo», se ne sono comprensibilmente adontate. Per giunta, la risposta più dura è involontariamente arrivata proprio da chi ha provato a minimizzare: un consigliere Csm in quota Pd ha paragonato l’episodio a «un ubriaco che ti offende» (ancora sul Fatto). Il giorno dopo tutto il vertice Anm - segretario e presidente - ha provato a metterci una toppa: non sapevo, non volevo, non si ripeterà. Non dubitiamo che le scuse siano sincere. E poi capita a tutti di sbagliare. Il problema però è che gli infortuni cominciano a essere tanti. E non sempre hanno il volto dell’impulsivo segretario dell’Anm. Spesso si nascondono negli interstizi invisibili e nei toni bassi. Passano inosservati, ma emergono al microscopio.Qualche esempio: l’attuale presidente Anm, non il segretario, in una intervista sulla Stampa del 3 settembre scorso, ci fa sapere che il patto stretto dall’«esecutivo di centrodestra» con i propri elettori «ha impedito l’efficacia di un dialogo sulle modifiche in gioco». «Centrodestra»: dice proprio così, non «governo», come forse sarebbe stato più opportuno parlando di soggetti istituzionali che in quanto tali andrebbero menzionati senza riferimenti ideologici o di partito. Anche questo è un linguaggio che lascia un po’ interdetti, al pari di quella critica al «patto elettorale vincolante»: ma a che serve il voto di massa se non a consacrare appunto un «patto vincolante» fra eletti ed elettori? E perché gli eletti dovrebbero rompere il «patto» con milioni di elettori e stringerne un altro - post voto - con il microsistema associativo? E poi non c’è solo il linguaggio: in occasione del referendum della Cgil dello scorso giugno, era chiarissimo che lo schieramento politico si stava dividendo proprio sulla scelta astensionista. Ciò malgrado, il solito vertice Anm ha dichiarato candidamente di preferire il voto, e ha finito - si spera involontariamente - per lanciare un sostanziale endorsement a favore di una delle squadre in campo. Come se non bastasse, la stessa Anm ha pensato bene di organizzare una manifestazione anti-riforma Nordio subito a ridosso delle giornate referendarie. L’ idea era più o meno questa: il referendum Cgil passerà a vele spiegate, sull’ onda dell’entusiasmo per la Grande Vittoria organizzeremo anche noi la nostra manifestazione sulla giustizia e faremo un figurone, perché legheremo la lotta dei lavoratori della giustizia a quella di tutti gli altri lavoratori d’Italia in festa.Calcolo sbagliato: i lavoratori la pensavano all’incontrario. La nuova manifestazione Anm è passata solo come una specie di «coda» della politicissima e partiticissima campagna referendaria Cgil. Fallita la prima e fallita la seconda. Un ulteriore colpo all’ immagine di terzietà dell’intera categoria. Mezze frasi sfuggite, tempi sbagliati. Poi ci sono anche i silenzi: nel 2023 un magistrato della Procura di Padova si trovò a impugnare la registrazione comunale di vari atti di nascita a favore di coppie omosessuali. La cosa innescò la reazione furente di tutta l’area politico-giornalistica pro Lgbt: la Procura padovana fu, a dir poco, assediata: «Atto vergognoso e incivile»; «Omofobia di Stato», «Volontà di discriminare» (sul Gazzettino del 20/6/23, solo per citare il primo giornale a caso). Assalto mediatico asfissiante, ingiusto. E l’Anm? Silenzio assoluto.Molta ed appassionata invece fu, pochi mesi dopo, la solidarietà dell’Anm con il magistrato Jolanda Apostolico, protagonista indimenticata delle note vicende catanesi, che la risvegliata Anm non esitò a difendere a spada tratta come la vittima di una «campagna di persecuzione mediatica» (La Repubblica, 16/10/23). Dall’indifferenza assoluta per il magistrato di Padova (inviso all’area Lgbt) alla difesa a testuggine di quello di Catania (eletto a eroe dallo schieramento pro immigrazione). Donne entrambe, sia a Padova sia a Catania. In genere basta questo a infiammare Sigfrido nella lotta contro il drago maschilista. Ma a Padova Sigfrido non c’era. E se c’era, dormiva. Errori di comunicazione dell’Anm di ieri e di oggi, probabilmente. Errori non proprio trascurabili, però. Il riferimento al «centrodestra» sfuggito nell’intervista citata all’inizio non è esattamente piccola cosa, perché dire che il dialogo col centrodestra «è più difficile» autorizza la lettura inversa: «Per noi il dialogo con il centrosinistra è più facile».Mezze frasi e frasi intere, silenzi, urla e comitati vari. Domanda: non è che magari non si tratta affatto di errori di comunicazione, ma di una precisa scelta di campo? Perché i silenzi su Padova e le urla di Catania - e tutto il resto - finiscono col restituire all’opinione pubblica l’immagine di un correntismo che pende pericolosamente sempre dalla stessa parte dello schieramento politico. E le cose non sembrano destinate a cambiare. La verità è che, a certi livelli, la forma conta anche più del merito. Perché è la forma che garantisce l’equilibrio del dialogo democratico. Il guaio è però che il recupero dell’equilibrio è una missione impossibile, almeno finché l’attuale correntismo si rifiuterà di fare una seria seduta psicoanalitica su sé stesso: dall’ epoca degli scandali del 2019, le burocrazie associative non hanno saputo produrre nessuna idea di autoriforma. E dopo un’inerzia di sei lunghissimi anni, riversare oggi ogni colpa sul governo di «centrodestra» (come ci si è ingenuamente lasciati scappare) è uno scaricabarile troppo palese per sfuggire agli occhi esasperati dell’opinione pubblica.Questo correntismo che difende le figlie catanesi e abbandona le figliastre padovane, che riconosce un po’ maldestramente di preferire il dialogo con una precisa parte dello schieramento politico, che rifiuta qualsiasi critica, che è incapace di autoriformarsi, che non si accorge dell’enormità di un potere istituzionale terzo e neutrale lanciato a folle corsa nel più grossolano scontro pseudo ideologico ed elettoralistico, sta solo seguendo il cattivo esempio di certi sindacati italiani, caduti prigionieri della loro autoreferenzialità. Nati per difendere i lavoratori, hanno finito col difendere solo i sindacalisti e col provocare la sconfitta degli uni e, purtroppo, anche degli altri.
Ranieri Guerra (Imagoeconomica). Nel riquadro, Cristiana Salvi
Nelle carte di Zambon alla Procura gli scambi di opinioni tra i funzionari Cristiana Salvi e Ranieri Guerra: «Mitighiamo le critiche, Roma deve rifinanziare il nostro centro a Venezia e non vogliamo contrattacchi».
Un rapporto tecnico, destinato a spiegare al mondo come l’Italia aveva reagito alla pandemia da Covid 19, si è trasformato in un dossier da riscrivere per «mitigare le parti più problematiche». Le correzioni da apportare misurano la distanza tra ciò che l’Organizzazione mondiale della sanità dovrebbe essere e ciò che era diventata: un organismo che, di fronte a una crisi globale, ha scelto la prudenza diplomatica invece della verità. A leggere i documenti depositati alla Procura di Bergamo da Francesco Zambon, funzionario senior per le emergenze sanitarie dell’Ufficio regionale per l’Europa dell’Oms, il confine tra verità scientifica e volontà politica è stato superato.
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L’annuncio per un’abitazione a Roma. La padrona di casa: «Non dovete polemizzare».
La teoria di origine statunitense della «discriminazione positiva» ha almeno questo di buono: è chiara e limpida nei suoi intenti non egualitari, un po’ come le quote rosa o il bagno (solo) per trans. Ma se non si fa attenzione, ci vuole un attimo affinché la presunta e buonista «inclusione» si trasformi in una clava che esclude e mortifica qualcuno di «meno gradito».
Su Facebook, la piattaforma di Mark Zuckerberg che ha fatto dell’inclusività uno dei principali «valori della community», è appena apparso un post che rappresenta al meglio l’ipocrisia in salsa arcobaleno.
In Svizzera vengono tolti i «pissoir». L’obiettivo dei progressisti è quello di creare dei bagni gender free nelle scuole pubbliche. Nella provincia autonoma di Bolzano, pubblicato un vademecum inclusivo: non si potrà più dire cuoco, ma solamente chef.
La mozione non poteva che arrivare dai Verdi, sempre meno occupati a difendere l’ambiente (e quest’ultimo ringrazia) e sempre più impegnati in battaglie superflue. Sono stati loro a proporre al comune svizzero di Burgdorf, nel Canton Berna, di eliminare gli orinatoi dalle scuole. Per questioni igieniche, ovviamente, anche se i bidelli hanno spiegato che questo tipo di servizi richiede minor manutenzione e lavoro di pulizia. Ma anche perché giudicati troppo «maschilisti». Quella porcellana appesa al muro, con quei ragazzi a gambe aperte per i propri bisogni, faceva davvero rabbrividire la sinistra svizzera. Secondo la rappresentante dei Verdi, Vicky Müller, i bagni senza orinatoi sarebbero più puliti, anche se un’indagine (sì il Comune svizzero ha fatto anche questo) diceva il contrario.






