Silvia Albano, presidente di Magistratura democratica (Imagoeconomica)
Silvia Albano (Md): «Giusto il richiamo del pg di Perugia alla presunzione d’innocenza».
Ci mancava soltanto il Corvo. Come se nell’inchiesta di Perugia non bastassero i misteri e gli spioni, nel Palazzo di giustizia umbro spunta pure un anonimo spargitore di veleni. Una gola profonda che qualche tempo fa recapitò a chi di dovere un esposto senza firma in cui si denunciavano gli stessi magistrati.
Siamo alle solite. Che poi sarebbero condensate nella profezia che trafigge fragorosi inciampi di scalmanati manettari. Ovvero, l’indimenticabile lampo di Pietro Nenni: a fare il puro, motteggiava, c’è sempre qualcuno più puro che ti epura. Eccoci qui, dunque. A riferire del rovescio giudiziario di Piercamillo Davigo detto «Piercavillo»: già eroe di Mani Pulite, indomito capo corrente, consigliere del Csm, simpatizzante grillino, opinionista del Fatto quotidiano. Una leggenda vivente: schiavettoni, querele, indice ritto. Uno smodato giacobinismo seguito dall’inclemente nemesi.
Piercavillo è stato ricondannato. Anche in secondo grado. Per rivelazione di segreto d’ufficio. A un anno e tre mesi. Secondo i giudici di Brescia, nella primavera 2020, divulga i verbali di Piero Amara sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria». Gli vengono consegnati dal pm milanese, Paolo Storari, su una chiavetta Usb: con «modalità quasi carbonare» si legge nella sentenza di primo grado, appena confermata. I giudici tacciano l’ex magistrato, ora in pensione, di «smarrimento di postura istituzionale». Davigo avrebbe insomma allargato «la platea dei destinatari della rivelazione». Tentando persino di screditare un inviso collega consigliere, Sebastiano Ardita, nominato dal controverso avvocato Amara in quei verbali. Il magistrato, parte civile nel processo, ottiene ora una discreta sommetta come risarcimento dei danni: 20 mila euro.
I fiduciosi legali di Piercavillo, comunque, annunciano ricorso in Cassazione. Forse dimentichi di uno dei tanti insegnamenti del celebre assistito, professato in diretta tv: «L’errore italiano, secondo me, è stato proprio quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. No, non aspettiamo le sentenze. Se io invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non sono costretto ad aspettare la Cassazione. Smetto subito d’invitarlo a cena». Chiaramente, questo vale solo per i poveri cristi. E soprattutto per i cinghialoni che affollano i partiti. La caccia a quei mangiapane a tradimento è il pallino investigativo diventato libidinoso commento: «I politici che delinquono vanno mandati a casa, senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». Ma la frase cult, che formerà legioni di manettari tricolore, resta l’ancor più audace variante sul tema: «Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove».
A nome della vessata categoria interviene adesso Matteo Renzi, malcelando sfrenato giubilo: «Per anni Pier Camillo Davigo ci ha fatto la morale da numerosi studi televisivi. Oggi il giustizialista Davigo è condannato anche in appello per rivelazione di segreto d’ufficio». Il leader di Italia viva ricorda di essere garantista, ma rinuncerebbe a una conferenza in Arabia Saudita pur di vedere l’ex pm condannato in via definitiva: «Il tempo è sempre più galantuomo: emerge lo scandalo dossier, i commentatori moralisti che ci attaccavano vengono condannati in appello, la cassazione e la corte costituzionale ci danno ragione». Renzi, certo, esonda. Ma sono in tanti a inzuppare la brioscina con godimento. Del resto, anche dopo la prima condanna, il Torquemada lombardo non ha dato segnali di cedimento. Anzi, nell’anniversario di Mani Pulite, rincara: «Per quanto sia crudo quel che sto dicendo, capiterà che gli imputati si suicidino. Lo so che è una cosa spiacevole, ma è la verità e bisogna aver chiare le cose: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono, non su coloro che li scoprono e li reprimono».
Eccezion fatta per i colleghi che hanno osato condannarlo, s’intende. Difatti lo scorso dicembre, in mancanza di inviti televisivi in prima serata, Piercavillo decide di cimentarsi come ospite nel podcast più velleitario del momento: Muschio selvaggio, condotto da Fedez. E quando il rapper lo pungola proprio sulla condanna in primo grado, Davigo si auto assolve con formula piena: «Non ho commesso reati, ma visto che a Brescia le cose non sempre le capiscono, mi hanno condannato». Notorie teste dure. Come osano giudicare il più arguto e spietato pm della storia? Coglierebbe l’evidente sproporzione anche un cantante poco edotto, con i tatuaggi fino al pomo d’Adamo. Invece, quei durissimi di comprendonio s’affrettano a eccepire sull’incontrovertibile, manifestando «vivo stupore e sconcerto per i contenuti dell’intervista». Insomma, replica il tribunale di Brescia, «sorprende che un magistrato che ha ricoperto incarichi apicali di rilievo nazionale si lasci andare a pesanti giudizi che investono, indifferentemente, i giudici, l’ufficio giudiziario, la stampa locale e l’intera comunità bresciana».
Piercavillo, però, non mostra pentimento. Pensino a forgiare tondini, piuttosto che ad applicare il codice penale. Ma la condanna, adesso, viene confermata. Lui, ingiusto reo, spera nella Cassazione. Sognando di poter riformulare il suo celeberrimo motto: non esistono manettari colpevoli, ma solo manettari non ancora assolti.
La ricostruzione della «Verità» sul caso Perugia mette a nudo un sistema che condiziona pesantemente la vita pubblica e la stessa libertà di stampa, che viene invece sbandierata per perpetuare il verminaio. Occorre che si intervenga per smontarlo. E in fretta.
Stanno provando a buttarla in vacca, a fare finta che sotto attacco ci sia la libertà di stampa e che i cronisti facciano semplicemente il loro mestiere, che è quello di scovare notizie e di scoperchiare segreti. Ma la storia - anzi, le storie - dimostrano che così non è. La lunga ricostruzione fatta ieri da Giacomo Amadori a proposito degli accessi abusivi compiuti da un cancelliere in servizio nella città umbra rivelano ciò che abbiamo sempre sospettato, ovvero un sistema che lega magistrati e giornalisti, un patto neanche troppo segreto che per anni ha consentito fughe di notizie su inchieste in corso ma, soprattutto, pesanti condizionamenti della vita pubblica. Le chat che abbiamo pubblicato, in cui ci sono messaggi tra pm e cronisti dei principali quotidiani, svelano le manovre di potere per usare le indagini come clave, al fine di orientare nomine e influenzare l’opinione pubblica. In qualche caso si sollecitano le pubblicazioni, così da creare un effetto mediatico. In altri vengono a galla divisioni e sospetti tra gli stessi magistrati, con giudizi al vetriolo. Un verminaio. Non che ci facessimo illusioni sull’equidistanza di chi ha il potere di amministrare la giustizia. Ma quell’intreccio fra toghe e cronisti, quelle abituali frequentazioni, alzano il sipario su ciò che accade quotidianamente nelle Procure. La politica e la magistratura si sono interrogate spesso negli ultimi trent’anni sulla fuga di notizie. Da Mani pulite passando per l’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi mentre era in corso un vertice internazionale a Napoli, tutti si sono chiesti come fosse possibile che gli avvisi di garanzia e i verbali finissero prima sulle pagine dei giornali che nelle mani degli indagati. Tutti si interrogavano, ma dopo essersi posti la domanda si voltavano dall’altra parte. Perché spesso ad aver recapitato le informazioni ai cronisti erano proprio coloro che dovevano fare le indagini per scoprire la talpa che aveva passato la notizia. Sì, basta leggere la magistrale ricostruzione di Amadori per scoprire come certe notizie filtrano sui giornali. I cronisti non usano droni né dispongono di microspie: semplicemente fanno parte del sistema, di un intreccio di potere che lega giornalisti, inquirenti e magistrati e che ha le sue basi operative nelle Procure. È inutile fingere, fare gli indignati o sorprendersi. Sono trent’anni che funziona così. Non c’è il mago Otelma dietro la pubblicazione delle carte. Ci sono quelli che le carte le detengono e le usano, non per fare i processi nelle aule di tribunale: per farli sulle prime pagine, allo scopo di condizionare l’opinione pubblica o una nomina.
E però lasciatemi dire un’ultima cosa. Dal Pool del 1992, non quello di Di Pietro e dei quattro dell’Ave Maria in toga, ma quello dei cronisti giudiziari, i quali si scambiavano le notizie e concordavano le prime pagine, questo è un fenomeno che riguarda le testate della sinistra o per lo meno quelle dove lavorano i giornalisti di sinistra. Dall’Unità a Repubblica, dal Corriere alla Stampa, per finire al Messaggero, a quell’epoca concordavano che cosa pubblicare e come. I titoli sembravano una fotocopia e anche gli articoli. I colleghi lavoravano in pool. Più semplice. Cambiava la testata, ma la notizia era immutata. Non sto rivelando niente: è storia, raccontata dagli stessi protagonisti dell’epoca i quali, a una certa ora della sera, prima di andare in stampa, concordavano il titolo della prima pagina, così che la notizia, diffusa su più testate, avesse un effetto maggiore. L’unica cosa nuova è che da allora niente o quasi è cambiato. I cronisti vanno in Procura, dal cancelliere, dal finanziere o dal magistrato, e raccolgono quello che c’è da raccogliere. A volte si fanno usare, altre usano loro l’inquirente.
Come ha capito chi ha letto l’articolo di Amadori, questo non c’entra nulla con la libertà di stampa. Questo è un sistema che condiziona perfino la stessa libertà di stampa. Oltre alla politica e alla stessa magistratura. Se qualcuno non si incaricherà di smontarlo, casi come quello di Perugia li rivedremo ancora. Con le stesse lamentazioni e gli stessi silenzi ipocriti di chi parla di diritto dell’informazione e di autonomia della magistratura.