2025-05-10
Il precursore alfiere della dottrina sociale (ma anti modernista)
Papa Leone XIII (Getty Images)
Con la «Rerum Novarum», Leone XIII denunciò gli eccessi del mercato senza regole. Però difese la proprietà privata.Quello che papa Leone XIV farà nessuno può saperlo. Le linee teologiche e pastorali del suo pontificato le conosceremo dalle sue parole e dai suoi atti. Se possiamo dire qualcosa oggi, a due giorni dalla sua elezione, sono elementi che già conosciamo e dei quali siamo sicuri.Il nome che ha scelto: Leone XIV. Se guardiamo all’ultimo Papa che si è chiamato Leone, Leone XIII, il cardinale Gioacchino Pecci, già qualcosa ci appare chiaro. Papa Pecci, nel 1891, scrisse la prima enciclica che dà il via a quella che venne chiamata dottrina sociale della Chiesa, una dottrina che non propone soluzioni politiche specifiche ma principi ispiratori in campo sociale ed economico per i cattolici, ma che è rivolta anche a tutti gli uomini di buona volontà. Qualche sprovveduto ha intravisto in questa scelta del Papa una sicura linea di continuità con il predecessore. È basato poco: è stato sufficiente il fatto che in questa enciclica si prende parte a favore degli operai e contro il lavoro disumanizzante e sottopagato degli operai per stiracchiare subito il Papa dalla parte dei cosiddetti progressisti anticapitalisti. Questo denota una certa ignoranza a proposito dell’enciclica di Leone XIII Rerum Novarum che ha come oggetto critico cui si rivolge il socialismo nascente considerando che decenni prima, nel 1848, Karl Marx e Friedrich Engels avevano pubblicato il Il Manifesto del Partito comunista. Era un tempo in cui gli orari di lavoro in fabbrica arrivavano fino alle quattordici ore, i salari non erano sufficienti per mantenere una famiglia e quindi si ricorreva spesso al lavoro di ragazzi e ragazze fino ad arrivare, ad esempio in Belgio, a diverse migliaia di ragazzi e ragazze operai dai 9 ai 12 anni nonché molti anche al di sotto dei 9 anni, spesso in miniera. In questo clima di sfruttamento in luoghi di lavoro insalubri, come anche le case dove abitavano gli operai e le operaie, non fu difficile che attecchissero e si sviluppassero le varie organizzazioni socialiste nella cui dottrina la religione era vista come fattore di regresso sociale e, come è noto, «oppio dei popoli». Leone XIII condannò certamente le espressioni di un capitalismo selvaggio e senza regole ma l’obiettivo fondamentale dell’enciclica fu il socialismo e la proposizione di principi ispiratori cristiani che potessero ispirare la coscienza dei cattolici, tant’è vero che, a partire da questa enciclica, iniziarono a formarsi associazioni, sindacati e poi, nel primo Novecento, ad esempio nel nostro Paese, figure come quella di don Luigi Sturzo fondatore del Partito popolare che poi sarebbe diventato la Democrazia cristiana. Leone XIII non condannò il capitalismo ma le sue degenerazioni e, nello stesso tempo, rivendicò inequivocabilmente il diritto alla proprietà privata che nella prospettiva socialista sarebbe dovuta scomparire. La ricerca di una via che armonizzasse in senso umanistico l’economia di mercato e la risposta pubblica ai bisogni fondamentali dell’uomo ha caratterizzato successivamente tutto lo sviluppo della dottrina sociale della Chiesa magistralmente riassunta nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, almeno certamente fino all’enciclica di Giovanni Paolo II, pubblicata nel 1991, la Centesimus Annus, a cent’anni dalla prima di Leone XIII. Un altro aspetto di quel pontefice è stato il cosiddetto antimodernismo, tant’è vero che lo storico Émil Poulat ha scritto che: «Leone XIII è stato antimodernista almeno quanto Pio IX prima di lui e Pio X successivamente»; nelle prime righe osservava con inquietudine «la sete di novità che da tempo si era impadronita della società e questa società era una società che andava scristianizzandosi seguendo gli eccessi del razionalismo e di un laicismo che tendeva ad estromettere l’elemento religioso». Occorreva quindi un’opera forte di ri-evangelizzazione e diffusione della fede cristiana. Un secondo elemento che non si può non considerare è che questo Papa è un agostiniano e che il precedente era un gesuita, elemento che lo distingue nettamente dal predecessore per diverse sfumature spirituali nonché teologiche. Il primo ordine è stato fondato da Sant’Agostino d’Ippona che scrive la Regola tra il IV e il V secolo. L’altro fondato dal Sant’Ignazio di Loyola che nacque nel 1534. La Regola agostiniana si distingue per un’accentuazione della vita comunitaria centrata sui principi cardine della carità e dell’umiltà, non è una regola rigida ma essenziale e flessibile dove grande spazio è lasciato alla libertà e dove è fondamentale la maturazione personale attraverso la preghiera, lo studio e un grande impegno apostolico. La Regola gesuitica prevede grande attivismo e, accanto ai tre voti di castità, obbedienza e povertà, pone quello di un’obbedienza speciale e diretta al pontefice, è una regola rigorosa dove la vita comunitaria è importante ma non centrale come nella regola agostiniana e comunque vi risultano centrali la missione e l’obbedienza. La differenza di spiritualità tra una regola centrata sulla vita comunitaria e una centrata sull’attivismo e l’obbedienza dicono già molto su questo Papa che, affacciandosi sulla piazza di San Pietro, ha ripetuto il moto agostiniano: «Sono cristiano con voi, sono vescovo per voi». Un terzo punto emerge dalla prima omelia ed è quello che riguarda l’abbandono della fede da parte degli uomini del nostro tempo. Ovviamente ha parlato degli aspetti pratici, morali e comportamentali che derivano da questo abbandono della fede, e tra gli altri ha citato l’attenzione agli ultimi, ma è interessante il nesso causa-effetto. È la mancanza di fede che provoca queste degenerazioni morali nei confronti dell’altro e, quindi, occorre ricristianizzare le persone perché questo porterà il sentimento di empatia e misericordia che deriva dalla fede in un Dio empatico e misericordioso nei confronti di tutti gli uomini e le donne. Capite bene che questi tre elementi cui potremmo aggiungere anche le capacità notevoli di diplomazia di papa Leone XIII sono tratti che non possono non agire da fondamenti dottrinali e pastorali di questo primo pontefice americano nella storia della Chiesa. Si è assistito ad uno squallido spettacolo tendente ad accaparrarsi Bergoglio (peraltro operazione più facile) ma è un po’ più difficile nel caso di Leone XIV che è stato missionario in Perù, terra difficile, terra di donne e uomini poveri, terra di sfruttamento del lavoro, dove papa Prevost si è distinto per quello che ci sembra il tratto dei tratti di quest’uomo: un pastore che ha cura del suo gregge consapevole che questo gregge di credenti deve allargarsi ad altre persone, donne e uomini, che hanno perso la fede o che non l’hanno mai avuta. Se ci è permesso, la sua apparizione è stata quella di un uomo che non è riuscito a trattenere le lacrime mostrando un’empatia vera e non a parole, che lo distingue da chi è venuto prima di lui e, nello stesso tempo, che non è comparso al balcone con l’abito bianco ma con la mantellina papale nonché con una splendida stola. Un pastore, dunque, che nella sua prima apparizione si è mostrato commosso dall’umanità che ha perso il senso del sacro e, nello stesso tempo, vestito in modo tradizionale e istituzionale. Alcune parole di Sant’Ambrogio (de Paradiso, 25): «Nova semper quaerere et parta custodire», cercare sempre il nuovo e custodire quello antico e valido. In altre parole, cercare il nuovo e custodire l’antico. Ci pare che Leone XIV non sia distante da questa prospettiva.