2022-10-29
Le rane e i missoltini orgoglio gourmet della povertà padana
Risotti, frittate, agoni con la polenta: dagli acquitrini risaioli alle placide acque del fiume. Luoghi dove il rito rasenta il sacro.Se Marzia Orlandi, per Gianni Brera, era la regina dei risotti il re era Mario Musoni, pure lui nativo di San Zenone Po, come l’arcimatto protagonista di queste storie e il collega Alfredo Valli. Un fornellante che aveva girato il mondo per stabilirsi poi nella microscopica Montescano, poche centinaia di abitanti. Confessore di pignatta e di calice. I suoi risotti mantecati entro casseruole placcate d’oro «non c’è materiale migliore come conduttore di calore». Un grande classico il risotto ai cunfanon, erbe spontanee di primavera che crescono sulle rive del grande fiume. Inedito (e intrigante) il risotto dedicato al conterraneo giornalista, con filetti di acciuga e polvere di cacao ’n coppa. Nei suoi ricordi Musoni racconta anche altro. Brera era spesso l’invitato di riguardo per degustazioni di vini di varie cantine di una vasta area padana. Se l’etichetta lo lasciava perplesso non poteva respingerla al mittente, bastava un cenno al Musoni complice e «andavo in cucina, svuotavo la bottiglia e la riempivo del barbaresco che a lui piaceva».Ma l’amicizia e la stima costruita con svariate pacciade poteva andare oltre. Un giorno Brera deve stazionare qualche giorno in una clinica vicina per calibrare meglio i pistoni gastrici. Come si fa a commentare le gesta di Sandro Mazzola e Mariolino Corso carburando di pallida minestrina? Musoni risponde prontamente all’appello, una sorta di 007 culinario. Si introduce di nascosto al cospetto del nostro con un bel piatto di cotechino e purè, barbaresco conseguente. Le esondazioni dei fiumi padani erano la fonte di sostentamento delle risaie preindustriali e, tra gli acquitrini, regnavano protagoniste le balie della semina e del raccolto, ovvero le mondine cui Brera dedica pagine di intensa umanità da far impallidire la Silvana Mangano di Riso amaro. «La stagione di monda è una pacchia memorabile, una vacanza giuliva anche nella fatica più bestiale», tenendo conto che, per molte di loro, erano settimane di trasferta da realtà quotidiane ben più grevi. Compagne di ventura le rane «che, un tempo, infestavano di promettenti girini tutto lo specchio della risaia, offrendo l’innumerevole prole alle nostre frittate, alle delicate minestre e ai risotti». Ed era proprio sui risotti di rane che si andava in deroga alla legge del rugare semper codificata da Marzia Orlandi. Con le rane il brodo versato e rugato una volta sola, pena il fatto di spappolare le delicate coscette saltellanti. Quando si trattava di andare a rane (a tavola) non c’era storia «con Ippocrate e Galeno che si travestono per venir meco ove più gagliardamente è impegnato il fegato» come quella volta con l’amico economista Carlo Cipolla, e la dritta conseguente «versati sale sul palmo della mano e inneva quegli scheletrini. Sii ciclope al cospetto di codesti appetitosi ulissidi». Robe da far ingelosire Omero. Quando alla comanda appariva la frittata gracidante la raccomandazione era conseguente «che rimanga bionda e contenga le rane come un dolce può contenere i canditi». Anche perché, nella sua giovinezza, le rane erano considerate la manna dei poveri, ricche di molte virtù minerali, ad esempio, il calcio. «Mangia i oss, mangia i oss» era il mantra che gli ripeteva mamma Marietta. Nei borghi di là dal fiume e tra le risaie c’erano i ranè, i pescatori dedicati. «Tengono botte in cantina, piena di gracidii inquieti. Le mogli le pescano dal fondo e le lasciano cadere sul piatto della bilancia, pesandole prima che si raccapezzino e saltino via». Il resto è storia conseguente, in cucina. Dagli acquitrini risaioli alle placide acque del fiume il passo è breve. Brera con i suoi amici del giovedì aveva un ritrovo fisso, «a Riccione», due passi dalla Madonnina del Duomo, dal 1955 il primo ristorante di pesce meneghino, anche se molti altri erano i riferimenti di lenza sicura al piatto sparsi nella padania felix, ad esempio a Spino d’Adda da Marino Morettini, per tutti Marincolleoni, già campione del mondo del ciclismo su pista nel 1953. «Due mani fiorite di zanne che i trattati di anatomia si ostinano a considerare dita comuni». Varie le specialità, dal comprimere un tappo di champagne e reintrodurlo nel collo di bottiglia dopo l’uso, al domare in prima linea pescaiola il maggior lottatore a pinne e squame, il temolo, una creatura dalla pezzatura mai superiore al chilo «la cui notorietà culinaria è inversamente proporzionale all’apprezzamento dei grandi chef», tanto da essere proclamato pesce svizzero dell’anno nel 2016. Sentinella ambientale, posto che vive e si riproduce solo in acque pulite. Intrigante il profumo delle sue carni, dai sentori di timo. In età adulta il vello di squame da argentato si scurisce, tanto che i pescatori lo chiamavano «negron», nulla di razziale, ovviamente. Brera andava a pescarlo assieme a Bepi Koelliker, il re delle Jaguar, nella sua riserva tra le anse del Ticino. Talmente apprezzato dai veri intenditori che, nella tradizione milanese, «temola» era il migliore (e sensuale) apprezzamento che si poteva riservare alla bellezza femminile. Nella versione ittica particolarmente gustoso fritto alla mugnaia o con semplicissimi burro e salvia. I missoltini, agoni per i trattati di faunistica natatoria, sono uno degli orgogli lacustri del Comasco. Colpirono in tempi non sospetti Plinio il giovane che descrisse le loro storie nelle sue epistole. Potevano essere pescati a paso doble. Con una rete circolare che da un lato era ancorata alla riva, e dall’altra alla barca cacciatrice. Oppure, dai più talentuosi, pescati direttamente al volo. Nella bella stagione arredavano l’orizzonte dei borghi lariani. Dopo la salatura di qualche giorno erano appesi ad essiccare su apposite reti, sfilz, formando intriganti collane. «Quando la testa scricchiolava alla pressione delle dita» era giunto il tempo della liturgia conseguente. Venivamo riposti nella misolta, piccoli mastellini di legno. Questo spiega anche l’anagrafica, missoltini da miss in dul tin, posti entro il tino. Qui il rito rasentava il sacro. Mano devota li disponeva in maniera circolare, come i petali di una rosa, tra uno strato e l’altro foglie di alloro. Messi in pressione, con un torchio o una leva. Spurgati periodicamente per evitare maleodoranze assortite. I più tosti, prima di tutto l’ambaradan conservativo, bucavano con sapienza chirurgica il collo, facendone uscire le interiora, ovvero la curada, da cui si otteneva un impareggiabile peccato di gola, la curadura, ovvero una frittura con cipolla. Piatto oramai dimenticato posto anche che gli sfilz all’aperto sono stati sostituiti da più tecnologiche essiccature al forno. Ricchi da sempre di grassi naturali e omega 3, nella tradizione i missoltini venivano celebrati al piatto assieme a degna polenta, ma hanno saputo stare al passo con i tempi, e molti bravi ristoratori li sanno proporre in altre intriganti elaborazioni. Vuoi come mousse assieme al radicchio brasato, ma anche a condire dei tagliolini o sparring partner al risotto con burrata e cipolle marinate. Nei titoli di coda di breriane esperienza piscatorie non può mancare lo storione. «È un pesce allegro e spensierato, quando ha troppo caldo gioca a far capovolte fuor d’acqua come i delfini». Non male per una creatura che può raggiungere e superare i tre quintali. «Non va pescato, ma cacciato», posto che i suoi cultori lo cercano a ridosso dei sabbioni lungo le rive fluviali. «Fa tali spanciate che, qualche volta, gli prende la sonnolenza e si arena da sé, addormentandosi sulla sabbia fine». Il guaio è quando il livello del Po cala, e allora appare indifeso, con la sua inconfondibile groppa scura.
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