2019-03-22
Fatture dei clan alla coop del caso Renzi
Nuova indagine su una ditta riconducibile a Massimo Curci, condannato per autoriciclaggio a cui sono stati confiscati 30 milioni di euro in un processo per mafia. L'ipotesi: operazioni fittizie con la coop toscana. Diceva: «Ho in pugno Tiziano». Era socio di un malavitoso. Daniele Goglio, messo a gestire l'azienda al centro delle inchieste sul Giglio magico, era in affari con un uomo della 'ndrangheta. Lo speciale comprende due articoli. L'inchiesta sulle false fatturazioni della Marmodiv, cooperativa riconducibile secondo gli inquirenti alla famiglia Renzi, in questi giorni si sta incrociando con un'indagine della Guardia di finanza di Foggia. Un filone particolarmente sensibile, visto che riguarda un ragioniere di Carapelle, Massimo Ruggiero Curci, che è stato condannato per aver consentito a esponenti del clan mafioso dei Laudani e ad altri soggetti di evadere l'erario. Tra il 2014 e il 2015 due coop considerate dagli investigatori riconducibili a lui, la Quick service e la Link (fallita nel 2017), avrebbero emesso verso la Marmodiv dieci fatture false per un importo complessivo di quasi 77.000 euro. A quanto risulta alla Verità, le fiamme gialle pugliesi nell'ottobre scorso, nell'ambito di un controllo fiscale nei confronti della Quick service (di cui Curci viene considerato il gestore occulto) avevano invitato per iscritto la Marmodiv a produrre documentazione (come contratti e bonifici) proprio sui presunti rapporti di collaborazione intercorsi tra la coop fiorentina e la ditta pugliese, per verificare che tali relazioni non fossero fittizie. La Marmodiv rispose che tutta la documentazione era stata sequestrata dalla Guardia di finanza di Firenze. Dopo l'arresto del 18 febbraio dei coniugi Renzi e la notizia che nell'ordinanza era citato lo stesso Curci, gli investigatori pugliesi sono tornati alla carica richiedendo ai colleghi toscani atti utili alle proprie indagini. Curci, professionista di Carapelle, 7.000 abitanti a 20 minuti da Foggia, ed ex vicepresidente del Foggia Calcio, è stato arrestato nel dicembre 2017 su richiesta di Ilda Boccassini, a capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, e del pm Paolo Storari. A inizio anno è stato condannato in primo grado dal tribunale di Milano a 6 anni di reclusione e a 24.000 euro di multa per autoriciclaggio e indebite compensazioni, uno dei reati che puniscono la condotta di omesso versamento di imposte. Con i suoi magheggi avrebbe permesso di evadere il fisco anche a pericolosi criminali e in cambio avrebbe intascato una cospicua percentuale. Curci è stato condannato insieme ad alcuni esponenti del clan siciliano dei Laudani, in uno dei filoni dell'inchiesta Security sulle infiltrazioni mafiose nella grande distribuzione lombarda e delle agenzie di sicurezza, compresa quella che si occupa di proteggere il Palazzo di giustizia milanese. I Laudani sono uno dei cartelli storici della mafia catanese, la cui fortuna è legata al controllo del mercato clandestino della carne, un business che gli ha permesso di diventare l'ago della bilancia nella guerra fra cosche siciliane. Con Curci è stato condannato anche il presunto cassiere del clan catanese e il boss Luigi Alecci, che nei vari procedimenti scaturiti da Security ha totalizzato pene per 24 anni di carcere. Curci avrebbe consentito a questo genere di galantuomini di pagare meno tasse non solo con le compensazioni garantite dall'uso da poste contabili false, ma anche grazie all'emissione di fatture per operazioni inesistenti attraverso la solita rete di cooperative fasulle. Lo stesso oliato sistema che sarebbe stato messo a disposizione della Marmodiv, guidata, per gli inquirenti fiorentini, dai Renzi. Nella disponibilità del commercialista foggiano, i finanzieri hanno scoperto una sorta di pozzo di San Patrizio. Gli hanno confiscato beni per circa 30 milioni di euro, tra polizze assicurative, assegni, orologi di marca, denaro contante e auto di grossa cilindrata. Tra queste una Porsche Carrera decappottabile bianca, che era sempre parcheggiata davanti alla sua villona di via Lecce, alla periferia di Carapelle. Allo stesso indirizzo dietro a una spartana porta di metallo era domiciliata la maggior parte delle coop riconducibili a Curci, oggi agli arresti domiciliari a Grugliasco, un paese dell'hinterland torinese scelto, a dire dei suoi legali, per stare il più possibile lontano da Foggia e dal rischio di reiterare i reati. Abbiamo provato a bussare alla residenza di Carapelle, ma è stato impossibile superare lo scoglio del grande cancello verde che ricorda a tutti a chi appartiene quell'immobile: «Villa Curci». Piccoli divisori delimitano casa e studio del consulente con le abitazioni dei parenti. Tutt'attorno ci sono i guardiani del territorio. Dal lato anteriore i ragazzi fermi davanti alla sede di un noleggiatore d'auto scrutano chi si ferma nei paraggi. Dal lato dell'ingresso principale, invece, alla vista dei giornalisti un ragazzo prende il cellulare e avvia una chiamata. In pochi minuti si materializza un tizio pelato con un giubbotto nero. Si informa sull'identità dei cronisti, controlla la reflex del fotografo e con un gesto del capo intima di andar via. Oltre il cancellone verde c'è l'ingresso dello studio. In paese in molti si chiedevano perché imprese di tutt'Italia scegliessero il proprio ragioniere nel cuore del Tavoliere. Poi sono scoppiate le inchieste, ci sono stati gli arresti e i cittadini di Carapelle si sono risposti da soli. L'avvocato di Curci, Raul Pellegrini, ci spiega la posizione relativamente alla vicenda della Marmodiv: «Nessuna autorità giudiziaria ci ha ancora contestato alcunché e non intendiamo parlarne sui giornali. Il mio assistito vuole rimanere nel suo cono d'ombra». La caratura criminale di Curci, però, l'hanno certificata diversi tribunali. Per esempio il Riesame di Milano ha sottolineato la sua «instancabile dedizione alla perpetrazione di reati in materia fiscale e il radicamento della vocazione alla devianza nella personalità rappresentano chiari indici di attitudine criminale» e lo ha definito «il prototipo dell'evasore fiscale socialmente pericoloso». Il legale, però, ci tiene a precisare che al suo cliente non sono stati contestati reati di tipo associativo, né l'aggravante mafiosa: «Era il suo intermediario che aveva contatti con alcuni esponenti della famiglia Laudani. Curci non ha mai parlato con loro, gli ha fatto dei piaceri, senza sapere chi fossero, attraverso il mediatore». Il riferimento è ad Antonio Saracino, classe 1967, pluripregiudicato (già condannato per rapina e tentato omicidio) di Cerignola (Foggia). Nel processo sulle infiltrazioni del clan Laudani in Lombardia, ha scelto il rito abbreviato e in primo grado è stato condannato a 5 anni e 4 mesi. I giudici milanesi gli hanno contestato anche l'aggravante del metodo mafioso, dal momento che due «compensazioni» vennero effettuate a favore dei Laudani. Per i pm della Dda di Milano, Saracino era «consapevole della caratura criminale di Luigi Alecci e dell'appartenenza di quest'ultimo all'organizzazione mafiosa dei Laudani». A fine gennaio, però, la Corte d'appello ha cancellato per Saracino, assistito dall'avvocato Michele Garofano, l'aggravante speciale, rideterminando la pena in quattro anni. Gli inquirenti dovranno decidere se ricorrere in appello. In tutta questa vicenda, che maleodora di mafia, resta il mistero di come la Marmodiv sia finita a incassare presunte fatture fantasma in Puglia, dalla coop del ragioniere che aiutava esponenti del clan Laudani a evadere il fisco. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-fatture-sospette-alla-marmodiv-portano-al-ragioniere-usato-dai-clan-2632396939.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="diceva-ho-in-pugno-tiziano-era-socio-di-un-malavitoso" data-post-id="2632396939" data-published-at="1758106930" data-use-pagination="False"> Diceva: «Ho in pugno Tiziano». Era socio di un malavitoso Un'inchiesta antimafia piemontese ha svelato che insieme a traffico di droga ed estorsioni la 'ndrangheta cercava di avvicinare le coop. Gli uomini di una cosca calabrese ci erano riusciti, grazie ad Antonino Defina, indicato nell'ordinanza di arresto che gli hanno notificato qualche giorno fa come uno dei capi della 'ndrina di Vibo Valentia che si era infiltrata a Carmagnola (Torino). Stando a una ricostruzione del quotidiano La Stampa, il gancio di Defina era Daniele Goglio, definito come un «venditore nato», con «esperienza e scaltrezza al servizio delle coop». Ma è soprattutto l'uomo che attraverso Mariano Massone era stato piazzato alla guida della Marmodiv dei Renzi nel marzo 2018 e che è stato successivamente indagato e perquisito dalla Procura di Firenze con l'accusa di bancarotta (la Marmodiv tra l'altro è sull'orlo del crac). Era stato lui a vantarsi, nel corso di una telefonata, di tenere in pugno Tiziano Renzi. Assunto il nuovo ruolo da manager, era entrato nella parte, e intercettato al cellulare con un rumeno di nome Cristian, racconta l'esito di una serata con Renzi senior: «Questo si è preso un impegno non da poco, partendo dalla gestione dei magazzini, Coop, Conad; solo l'unico problema è che ci tocca sopportare Mariano (Massone ndr), fa parte del…». Sembra che la condizione per ottenere il pacchetto fosse quella di accollarsi il vecchio socio del babbo. Ma Cristian non sembra preoccupato dalla presenza di Mariano: «Lo faremo diventare un non problema a un certo punto». Un linguaggio che sembra ispirato a un copione di Gomorra. Del resto gli investigatori annotano in un'informativa come sia stato trattato un fornitore pachistano della Marmodiv mentre discuteva di soldi con Goglio: «È entrata nell'ufficio un'altra persona di nazionalità rumena che si è avvicinata al Farrukh con atteggiamento intimidatorio, intimandogli di fare silenzio, di ascoltare Daniele, di sedersi, strattonandolo e spingendolo su una sedia». Ma torniamo alla vicenda torinese. Goglio viene dipinto come l'uomo delle cooperative. Che rilevava sull'orlo del fallimento e portava alla morte dopo aver vuotato le casse e lasciato debiti con il fisco. Un'operazione che gli è costata una condanna di primo grado a 5 anni e mezzo per la bancarotta della Multiservice (pende il ricorso in appello). Defina aveva agganciato Goglio anni fa e i due avevano condiviso un business legato alla gestione di alcuni campi da golf. L'incarico era affidato alla società Golfone di Defina attraverso la New omnis opera, azienda collegata al consorzio Isp, dove Goglio pare si muovesse con disinvoltura. Poi, però, i rapporti sono andati in frantumi. Al punto che tra i due sono partite azioni giudiziarie. A smentire che ci siano stati rapporti con Defina, Goglio neanche ci prova. Al telefono con La Verità, però, di fronte alla domanda su quando quei rapporti si sarebbero interrotti risponde che ha da fare e interrompe la conversazione. Ma è verosimile che lo strappo risalga al dicembre 2015. Perché è allora che è partito un pignoramento da mezzo milione di euro. Il difensore di Goglio, l'avvocato Vittorio Nizza, conferma: «Tra i due anni fa c'era un rapporto di lavoro che, però, si è deteriorato così tanto da arrivare in tribunale».
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)