2019-12-13
L’allarme degli (autentici) europeisti: «Fermatevi, il Mes destabilizza»
Quattro accademici della London school, tra cui Paul De Grauwe, fanno a pezzi il salva Stati: «Riforma squilibrata». Sotto accusa gli aiuti inaccessibili per molti Paesi e il potere di ricatto dei veti nazionali.Presentato ieri a Roma il libro che spiega i segreti della leadership dell'ex capo Bce. Famosa per i buoni rapporti con tutti. Con due sole eccezioni: Yanis Varoufakis e Wolfgang Schäuble.Lo speciale contiene due articoli«Fermate la riforma del Meccanismo europeo di stabilità». La firma in calce all'accorato appello non è di qualche temerario parlamentare euroscettico, bensì quella di quattro autorevoli accademici, due dei quali membri della prestigiosa London school of economics. Non esattamente dunque quello che si potrebbe definire il tempio del sovranismo. Tanto per dare un'idea, tra i personaggi famosi che a vario titolo hanno calcato le sue aule troviamo l'ex premier e presidente della Commissione europea Romano Prodi, l'imprenditore George Soros, il filantropo David Rockefeller e ben 18 premi Nobel, tra cui Paul Krugman, Amartya Sen e Friedrich von Hayek. Gli autori del documento in questione sono il francese Shahin Valée, membro del German council on foreign relations e dottorando alla Lse, nonché consigliere economico dell'ex premier belga Herman van Rompuy e di Emmanuel Macron, ai tempi in cui questi era ministro dell'Economia; il belga Paul De Grauwe, professore di economia alla Lse; Jeremie Cohen-Setton, del Peterson institute for international economics; e il tedesco Sebastian Dullien, professore all'università Htw di Berlino e direttore dell'Istituto Imk.«Senza dubbio la riforma è fortemente imperfetta e squilibrata», si legge nel testo pubblicato mercoledì sulla sezione del blog della Lse dedicata ai temi europei, «e la questione della riforma dell'area euro merita un'agenda più ampia e ambiziosa». Per questo motivo, scrivono i quattro, «i leader dell'Unione europea dovrebbero prendersi una pausa, fare un passo indietro e riprogettare la riforma». Le motivazioni di una richiesta così drastica sono spiegate nel dettaglio all'interno dell'articolo. Gli studiosi individuano tre problemi chiave nella stesura della revisione del Fondo salva Stati. Primo: con questo passaggio il Mes rimarrebbe un'organizzazione intergovernativa, anziché trasformarsi in una vera e propria istituzione europea. Di conseguenza, «la sua governance sarebbe sotto il ricatto dei veti nazionali, le sue decisioni non potrebbero essere controllate dal Parlamento europeo, e i suoi poteri eroderebbero quelli della Commissione europea». Secondo, e forse più rilevante per il nostro Paese: la «capacità da parte del Mes di giocare un ruolo stabilizzatore grazie alla creazione di linee di credito precauzionali (Pccl) è stata indebolita dall'introduzione di una serie di criteri che rendono questo strumento di fatto inaccessibile a molti Stati». Non si parla solo dell'Italia. Diversi altri Paesi, a oggi, non rispondono ai requisiti per il ricorso agli aiuti: secondo un'analisi del think tank Bruegel, infatti, nel 2019 oltre all'Italia rimarrebbero fuori Belgio, Spagna, Francia, Cipro, Lettonia, Portogallo, Slovenia e Finlandia. «Insieme alla riforma delle Clausole di azione collettiva e al rafforzamento del ruolo del Mes nella ristrutturazione del debito, questi cambiamenti avrebbero probabilmente un effetto destabilizzante». Terzo e ultimo punto: quella che un po' da tutti viene considerata una conquista, ovvero il meccanismo di backstop per il Fondo di risoluzione unico delle banche, in realtà rimane vincolato al veto dei singoli parlamenti nazionali. E per effetto di questa limitazione il sistema tanto sbandierato dal premier, Giuseppe Conte («rafforza le risorse comuni messe a disposizione in caso di difficoltà temporanee di istituti di credito europei»), viene definito dagli studiosi una «paper tiger» (letteralmente una «tigre di carta», ndr), cioè un fuoco di paglia. La pubblicazione di ieri rappresenta senza ombra di dubbio il contributo critico alla revisione del trattato del Mes più strutturato e autorevole partorito all'estero. Oltre ad avere il grande merito di rompere finalmente il muro di omertà che sembrava essersi sollevato oltreconfine intorno a questo tema. Come raccontato a suo tempo su queste stesse pagine, il primo sasso l'aveva lanciato a fine novembre lo stesso Shahin Vallée, uno degli autori del documento. «La riforma del trattato sul Mes non vale la carta su cui è scritto», aveva scritto su Twitter l'economista francese, «l'Eurogruppo e l'Eurosummit di dicembre dovrebbero rinviarne l'approvazione». Raggiunto dalla Verità, Vallée ha spiegato che «pur in presenza di una politicizzazione estrema della vicenda», il nostro Paese fa bene a protestare: «Concordo con il premier Conte sulla necessità di rafforzare la riforma nell'ottica di una cosiddetta “logica di pacchetto": la riforma del Mes, da sola, non funziona». Più debole, ma pur sempre valida, l'argomentazione di Matteo Salvini sul rischio della ristrutturazione del debito. Ma perché negli altri Paesi non se ne parla? «Magari si crede che questi temi siano secondari, o forse si preferisce procedere con la logica dei piccoli passi», ragiona con noi il francese. «Non vedo il sostegno unanime per una riforma tanto ambiziosa», gli ha risposto su Twitter Wolfgang Schmidt, sottosegretario di Olaf Scholz al ministero tedesco delle Finanze. «Stiamo mancando il bersaglio», gli ha risposto Vallée, «fate un passo indietro».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lallarme-degli-autentici-europeisti-fermatevi-il-mes-destabilizza-2641583016.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="draghi-un-super-mario-ma-pigro" data-post-id="2641583016" data-published-at="1761377051" data-use-pagination="False"> Draghi, un Super Mario ma pigro Una leadership pigra, tanto pragmatismo e una calma serafica. Di Mario Draghi gli autori del libro L'artefice (Rizzoli), Jana Randow e Alessandro Speciale, parlano così, raccogliendo gli aneddoti e la storia degli otto anni di Super Mario alla guida della Banca centrale europea. Pagine serie, che tengono traccia del cammino duro e lastricato di decisioni cruciali prese a Francoforte per la difesa dell'Eurozona, ma con in filigrana un ritratto inedito, a volte addirittura intimo, di uno degli uomini più interessanti di quest'epoca. Tra i classici di Draghi in Bce, c'è la sua teoria sulle persone, classificabili in quattro categorie: «intelligenti, meno intelligenti, attiviste e pigre», come ha spiegato Speciale alla Verità. «Secondo questa regola le persone che sono adatte ad avere il massimo del livello del comando sono quelle intelligenti e pigre», che «non siano in alcun modo iperattive e che non vogliano decidere tutto da sole», ma che si concentrino solo su poche cose chiare, delegando tutto il resto. Questa in sostanza la formula del successo targata Draghi, «molto diversa dal suo predecessore Jean Claude Trichet, che addirittura andava in giro a spegnere la luce la sera». Il dibattito sul libro è avvenuto ieri a Roma, alla fondazione De Gasperi, in un incontro a porte chiuse con persone qualificate, tra cui docenti universitari, economisti, ricercatori, membri dell'ufficio studi del Parlamento, di Bankitalia, Cassa depositi e prestiti e del centro internazionale di Comunione e liberazione. A far da padrone di casa l'economista Domenico Lombardi, che ha ricordato l'impegno e l'equidistanza di Draghi nonostante abbia preso le redini della Bce in una fase assurdamente problematica, quando la crisi del debito si era allargata a macchia d'olio dalla Grecia allo Stivale, facendo tremare la tenuta stessa dell'euro. E poi il suo ormai famosissimo whatever it takes del 2012, quando decise di fare «tutto il necessario» per alzare il cartellino rosso sul muso degli speculatori che consideravano finita la moneta unica. Un'avventura ad alto tasso di adrenalina, che il governatore gestiva sempre con sangue freddo. «Gli unici che sono riusciti a fargli perdere le staffe sono stati Yanis Varoufakis, l'allora ministro delle Finanze nel primo governo Tsipras e il già ministro delle Finanze e attuale presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble», ha raccontato divertito Speciale. «Al primo, durante una riunione del luglio 2015, aveva chiesto di non rivelare nulla alla stampa di quanto si erano detti», e lo aveva fatto per il suo bene, quello del suo Paese, «ma Varoufakis non lo ascoltò e Draghi quella volta se la prese parecchio». Un'altra curiosità è legata allo stile delle riunioni: «Mai nessuna poteva durare più di un'ora e lui interveniva se vedeva che si stava perdendo il focus dell'argomento. Tutto quindi doveva essere nel segno della progettualità», con il ritmo tipico di chi ha studiato all'Mit, dove insegnano che il tempo è denaro. Infine lo scatto del campione, la giusta dose di umanità, quella che gli permetteva di risolvere problemi enormi e appesantiti da riti e burocrazie con una telefonata. In tanti hanno parlato di un suo potere sotterraneo di guidare come burattini i politici, ma chi chiamava sul cellulare, almeno secondo l'autore, «non era Draghi, ma i ministri», che vedevano in lui il tipico «buon padre di famiglia», come si dice in economia.
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Friedrich Merz e Giorgia Meloni (Ansa)