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2019-12-13
L’allarme degli (autentici) europeisti: «Fermatevi, il Mes destabilizza»
European Union
«Fermate la riforma del Meccanismo europeo di stabilità». La firma in calce all'accorato appello non è di qualche temerario parlamentare euroscettico, bensì quella di quattro autorevoli accademici, due dei quali membri della prestigiosa London school of economics. Non esattamente dunque quello che si potrebbe definire il tempio del sovranismo. Tanto per dare un'idea, tra i personaggi famosi che a vario titolo hanno calcato le sue aule troviamo l'ex premier e presidente della Commissione europea Romano Prodi, l'imprenditore George Soros, il filantropo David Rockefeller e ben 18 premi Nobel, tra cui Paul Krugman, Amartya Sen e Friedrich von Hayek. Gli autori del documento in questione sono il francese Shahin Valée, membro del German council on foreign relations e dottorando alla Lse, nonché consigliere economico dell'ex premier belga Herman van Rompuy e di Emmanuel Macron, ai tempi in cui questi era ministro dell'Economia; il belga Paul De Grauwe, professore di economia alla Lse; Jeremie Cohen-Setton, del Peterson institute for international economics; e il tedesco Sebastian Dullien, professore all'università Htw di Berlino e direttore dell'Istituto Imk.
«Senza dubbio la riforma è fortemente imperfetta e squilibrata», si legge nel testo pubblicato mercoledì sulla sezione del blog della Lse dedicata ai temi europei, «e la questione della riforma dell'area euro merita un'agenda più ampia e ambiziosa». Per questo motivo, scrivono i quattro, «i leader dell'Unione europea dovrebbero prendersi una pausa, fare un passo indietro e riprogettare la riforma». Le motivazioni di una richiesta così drastica sono spiegate nel dettaglio all'interno dell'articolo. Gli studiosi individuano tre problemi chiave nella stesura della revisione del Fondo salva Stati.
Primo: con questo passaggio il Mes rimarrebbe un'organizzazione intergovernativa, anziché trasformarsi in una vera e propria istituzione europea. Di conseguenza, «la sua governance sarebbe sotto il ricatto dei veti nazionali, le sue decisioni non potrebbero essere controllate dal Parlamento europeo, e i suoi poteri eroderebbero quelli della Commissione europea». Secondo, e forse più rilevante per il nostro Paese: la «capacità da parte del Mes di giocare un ruolo stabilizzatore grazie alla creazione di linee di credito precauzionali (Pccl) è stata indebolita dall'introduzione di una serie di criteri che rendono questo strumento di fatto inaccessibile a molti Stati». Non si parla solo dell'Italia. Diversi altri Paesi, a oggi, non rispondono ai requisiti per il ricorso agli aiuti: secondo un'analisi del think tank Bruegel, infatti, nel 2019 oltre all'Italia rimarrebbero fuori Belgio, Spagna, Francia, Cipro, Lettonia, Portogallo, Slovenia e Finlandia. «Insieme alla riforma delle Clausole di azione collettiva e al rafforzamento del ruolo del Mes nella ristrutturazione del debito, questi cambiamenti avrebbero probabilmente un effetto destabilizzante». Terzo e ultimo punto: quella che un po' da tutti viene considerata una conquista, ovvero il meccanismo di backstop per il Fondo di risoluzione unico delle banche, in realtà rimane vincolato al veto dei singoli parlamenti nazionali. E per effetto di questa limitazione il sistema tanto sbandierato dal premier, Giuseppe Conte («rafforza le risorse comuni messe a disposizione in caso di difficoltà temporanee di istituti di credito europei»), viene definito dagli studiosi una «paper tiger» (letteralmente una «tigre di carta», ndr), cioè un fuoco di paglia.
La pubblicazione di ieri rappresenta senza ombra di dubbio il contributo critico alla revisione del trattato del Mes più strutturato e autorevole partorito all'estero. Oltre ad avere il grande merito di rompere finalmente il muro di omertà che sembrava essersi sollevato oltreconfine intorno a questo tema. Come raccontato a suo tempo su queste stesse pagine, il primo sasso l'aveva lanciato a fine novembre lo stesso Shahin Vallée, uno degli autori del documento. «La riforma del trattato sul Mes non vale la carta su cui è scritto», aveva scritto su Twitter l'economista francese, «l'Eurogruppo e l'Eurosummit di dicembre dovrebbero rinviarne l'approvazione». Raggiunto dalla Verità, Vallée ha spiegato che «pur in presenza di una politicizzazione estrema della vicenda», il nostro Paese fa bene a protestare: «Concordo con il premier Conte sulla necessità di rafforzare la riforma nell'ottica di una cosiddetta “logica di pacchetto": la riforma del Mes, da sola, non funziona». Più debole, ma pur sempre valida, l'argomentazione di Matteo Salvini sul rischio della ristrutturazione del debito. Ma perché negli altri Paesi non se ne parla? «Magari si crede che questi temi siano secondari, o forse si preferisce procedere con la logica dei piccoli passi», ragiona con noi il francese. «Non vedo il sostegno unanime per una riforma tanto ambiziosa», gli ha risposto su Twitter Wolfgang Schmidt, sottosegretario di Olaf Scholz al ministero tedesco delle Finanze. «Stiamo mancando il bersaglio», gli ha risposto Vallée, «fate un passo indietro».
Draghi, un Super Mario ma pigro
Una leadership pigra, tanto pragmatismo e una calma serafica. Di Mario Draghi gli autori del libro L'artefice (Rizzoli), Jana Randow e Alessandro Speciale, parlano così, raccogliendo gli aneddoti e la storia degli otto anni di Super Mario alla guida della Banca centrale europea. Pagine serie, che tengono traccia del cammino duro e lastricato di decisioni cruciali prese a Francoforte per la difesa dell'Eurozona, ma con in filigrana un ritratto inedito, a volte addirittura intimo, di uno degli uomini più interessanti di quest'epoca.
Tra i classici di Draghi in Bce, c'è la sua teoria sulle persone, classificabili in quattro categorie: «intelligenti, meno intelligenti, attiviste e pigre», come ha spiegato Speciale alla Verità. «Secondo questa regola le persone che sono adatte ad avere il massimo del livello del comando sono quelle intelligenti e pigre», che «non siano in alcun modo iperattive e che non vogliano decidere tutto da sole», ma che si concentrino solo su poche cose chiare, delegando tutto il resto. Questa in sostanza la formula del successo targata Draghi, «molto diversa dal suo predecessore Jean Claude Trichet, che addirittura andava in giro a spegnere la luce la sera».
Il dibattito sul libro è avvenuto ieri a Roma, alla fondazione De Gasperi, in un incontro a porte chiuse con persone qualificate, tra cui docenti universitari, economisti, ricercatori, membri dell'ufficio studi del Parlamento, di Bankitalia, Cassa depositi e prestiti e del centro internazionale di Comunione e liberazione. A far da padrone di casa l'economista Domenico Lombardi, che ha ricordato l'impegno e l'equidistanza di Draghi nonostante abbia preso le redini della Bce in una fase assurdamente problematica, quando la crisi del debito si era allargata a macchia d'olio dalla Grecia allo Stivale, facendo tremare la tenuta stessa dell'euro. E poi il suo ormai famosissimo whatever it takes del 2012, quando decise di fare «tutto il necessario» per alzare il cartellino rosso sul muso degli speculatori che consideravano finita la moneta unica. Un'avventura ad alto tasso di adrenalina, che il governatore gestiva sempre con sangue freddo. «Gli unici che sono riusciti a fargli perdere le staffe sono stati Yanis Varoufakis, l'allora ministro delle Finanze nel primo governo Tsipras e il già ministro delle Finanze e attuale presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble», ha raccontato divertito Speciale. «Al primo, durante una riunione del luglio 2015, aveva chiesto di non rivelare nulla alla stampa di quanto si erano detti», e lo aveva fatto per il suo bene, quello del suo Paese, «ma Varoufakis non lo ascoltò e Draghi quella volta se la prese parecchio». Un'altra curiosità è legata allo stile delle riunioni: «Mai nessuna poteva durare più di un'ora e lui interveniva se vedeva che si stava perdendo il focus dell'argomento. Tutto quindi doveva essere nel segno della progettualità», con il ritmo tipico di chi ha studiato all'Mit, dove insegnano che il tempo è denaro. Infine lo scatto del campione, la giusta dose di umanità, quella che gli permetteva di risolvere problemi enormi e appesantiti da riti e burocrazie con una telefonata.
In tanti hanno parlato di un suo potere sotterraneo di guidare come burattini i politici, ma chi chiamava sul cellulare, almeno secondo l'autore, «non era Draghi, ma i ministri», che vedevano in lui il tipico «buon padre di famiglia», come si dice in economia.
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Quattro accademici della London school, tra cui Paul De Grauwe, fanno a pezzi il salva Stati: «Riforma squilibrata». Sotto accusa gli aiuti inaccessibili per molti Paesi e il potere di ricatto dei veti nazionali.Presentato ieri a Roma il libro che spiega i segreti della leadership dell'ex capo Bce. Famosa per i buoni rapporti con tutti. Con due sole eccezioni: Yanis Varoufakis e Wolfgang Schäuble.Lo speciale contiene due articoli«Fermate la riforma del Meccanismo europeo di stabilità». La firma in calce all'accorato appello non è di qualche temerario parlamentare euroscettico, bensì quella di quattro autorevoli accademici, due dei quali membri della prestigiosa London school of economics. Non esattamente dunque quello che si potrebbe definire il tempio del sovranismo. Tanto per dare un'idea, tra i personaggi famosi che a vario titolo hanno calcato le sue aule troviamo l'ex premier e presidente della Commissione europea Romano Prodi, l'imprenditore George Soros, il filantropo David Rockefeller e ben 18 premi Nobel, tra cui Paul Krugman, Amartya Sen e Friedrich von Hayek. Gli autori del documento in questione sono il francese Shahin Valée, membro del German council on foreign relations e dottorando alla Lse, nonché consigliere economico dell'ex premier belga Herman van Rompuy e di Emmanuel Macron, ai tempi in cui questi era ministro dell'Economia; il belga Paul De Grauwe, professore di economia alla Lse; Jeremie Cohen-Setton, del Peterson institute for international economics; e il tedesco Sebastian Dullien, professore all'università Htw di Berlino e direttore dell'Istituto Imk.«Senza dubbio la riforma è fortemente imperfetta e squilibrata», si legge nel testo pubblicato mercoledì sulla sezione del blog della Lse dedicata ai temi europei, «e la questione della riforma dell'area euro merita un'agenda più ampia e ambiziosa». Per questo motivo, scrivono i quattro, «i leader dell'Unione europea dovrebbero prendersi una pausa, fare un passo indietro e riprogettare la riforma». Le motivazioni di una richiesta così drastica sono spiegate nel dettaglio all'interno dell'articolo. Gli studiosi individuano tre problemi chiave nella stesura della revisione del Fondo salva Stati. Primo: con questo passaggio il Mes rimarrebbe un'organizzazione intergovernativa, anziché trasformarsi in una vera e propria istituzione europea. Di conseguenza, «la sua governance sarebbe sotto il ricatto dei veti nazionali, le sue decisioni non potrebbero essere controllate dal Parlamento europeo, e i suoi poteri eroderebbero quelli della Commissione europea». Secondo, e forse più rilevante per il nostro Paese: la «capacità da parte del Mes di giocare un ruolo stabilizzatore grazie alla creazione di linee di credito precauzionali (Pccl) è stata indebolita dall'introduzione di una serie di criteri che rendono questo strumento di fatto inaccessibile a molti Stati». Non si parla solo dell'Italia. Diversi altri Paesi, a oggi, non rispondono ai requisiti per il ricorso agli aiuti: secondo un'analisi del think tank Bruegel, infatti, nel 2019 oltre all'Italia rimarrebbero fuori Belgio, Spagna, Francia, Cipro, Lettonia, Portogallo, Slovenia e Finlandia. «Insieme alla riforma delle Clausole di azione collettiva e al rafforzamento del ruolo del Mes nella ristrutturazione del debito, questi cambiamenti avrebbero probabilmente un effetto destabilizzante». Terzo e ultimo punto: quella che un po' da tutti viene considerata una conquista, ovvero il meccanismo di backstop per il Fondo di risoluzione unico delle banche, in realtà rimane vincolato al veto dei singoli parlamenti nazionali. E per effetto di questa limitazione il sistema tanto sbandierato dal premier, Giuseppe Conte («rafforza le risorse comuni messe a disposizione in caso di difficoltà temporanee di istituti di credito europei»), viene definito dagli studiosi una «paper tiger» (letteralmente una «tigre di carta», ndr), cioè un fuoco di paglia. La pubblicazione di ieri rappresenta senza ombra di dubbio il contributo critico alla revisione del trattato del Mes più strutturato e autorevole partorito all'estero. Oltre ad avere il grande merito di rompere finalmente il muro di omertà che sembrava essersi sollevato oltreconfine intorno a questo tema. Come raccontato a suo tempo su queste stesse pagine, il primo sasso l'aveva lanciato a fine novembre lo stesso Shahin Vallée, uno degli autori del documento. «La riforma del trattato sul Mes non vale la carta su cui è scritto», aveva scritto su Twitter l'economista francese, «l'Eurogruppo e l'Eurosummit di dicembre dovrebbero rinviarne l'approvazione». Raggiunto dalla Verità, Vallée ha spiegato che «pur in presenza di una politicizzazione estrema della vicenda», il nostro Paese fa bene a protestare: «Concordo con il premier Conte sulla necessità di rafforzare la riforma nell'ottica di una cosiddetta “logica di pacchetto": la riforma del Mes, da sola, non funziona». Più debole, ma pur sempre valida, l'argomentazione di Matteo Salvini sul rischio della ristrutturazione del debito. Ma perché negli altri Paesi non se ne parla? «Magari si crede che questi temi siano secondari, o forse si preferisce procedere con la logica dei piccoli passi», ragiona con noi il francese. «Non vedo il sostegno unanime per una riforma tanto ambiziosa», gli ha risposto su Twitter Wolfgang Schmidt, sottosegretario di Olaf Scholz al ministero tedesco delle Finanze. «Stiamo mancando il bersaglio», gli ha risposto Vallée, «fate un passo indietro».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lallarme-degli-autentici-europeisti-fermatevi-il-mes-destabilizza-2641583016.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="draghi-un-super-mario-ma-pigro" data-post-id="2641583016" data-published-at="1765399064" data-use-pagination="False"> Draghi, un Super Mario ma pigro Una leadership pigra, tanto pragmatismo e una calma serafica. Di Mario Draghi gli autori del libro L'artefice (Rizzoli), Jana Randow e Alessandro Speciale, parlano così, raccogliendo gli aneddoti e la storia degli otto anni di Super Mario alla guida della Banca centrale europea. Pagine serie, che tengono traccia del cammino duro e lastricato di decisioni cruciali prese a Francoforte per la difesa dell'Eurozona, ma con in filigrana un ritratto inedito, a volte addirittura intimo, di uno degli uomini più interessanti di quest'epoca. Tra i classici di Draghi in Bce, c'è la sua teoria sulle persone, classificabili in quattro categorie: «intelligenti, meno intelligenti, attiviste e pigre», come ha spiegato Speciale alla Verità. «Secondo questa regola le persone che sono adatte ad avere il massimo del livello del comando sono quelle intelligenti e pigre», che «non siano in alcun modo iperattive e che non vogliano decidere tutto da sole», ma che si concentrino solo su poche cose chiare, delegando tutto il resto. Questa in sostanza la formula del successo targata Draghi, «molto diversa dal suo predecessore Jean Claude Trichet, che addirittura andava in giro a spegnere la luce la sera». Il dibattito sul libro è avvenuto ieri a Roma, alla fondazione De Gasperi, in un incontro a porte chiuse con persone qualificate, tra cui docenti universitari, economisti, ricercatori, membri dell'ufficio studi del Parlamento, di Bankitalia, Cassa depositi e prestiti e del centro internazionale di Comunione e liberazione. A far da padrone di casa l'economista Domenico Lombardi, che ha ricordato l'impegno e l'equidistanza di Draghi nonostante abbia preso le redini della Bce in una fase assurdamente problematica, quando la crisi del debito si era allargata a macchia d'olio dalla Grecia allo Stivale, facendo tremare la tenuta stessa dell'euro. E poi il suo ormai famosissimo whatever it takes del 2012, quando decise di fare «tutto il necessario» per alzare il cartellino rosso sul muso degli speculatori che consideravano finita la moneta unica. Un'avventura ad alto tasso di adrenalina, che il governatore gestiva sempre con sangue freddo. «Gli unici che sono riusciti a fargli perdere le staffe sono stati Yanis Varoufakis, l'allora ministro delle Finanze nel primo governo Tsipras e il già ministro delle Finanze e attuale presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble», ha raccontato divertito Speciale. «Al primo, durante una riunione del luglio 2015, aveva chiesto di non rivelare nulla alla stampa di quanto si erano detti», e lo aveva fatto per il suo bene, quello del suo Paese, «ma Varoufakis non lo ascoltò e Draghi quella volta se la prese parecchio». Un'altra curiosità è legata allo stile delle riunioni: «Mai nessuna poteva durare più di un'ora e lui interveniva se vedeva che si stava perdendo il focus dell'argomento. Tutto quindi doveva essere nel segno della progettualità», con il ritmo tipico di chi ha studiato all'Mit, dove insegnano che il tempo è denaro. Infine lo scatto del campione, la giusta dose di umanità, quella che gli permetteva di risolvere problemi enormi e appesantiti da riti e burocrazie con una telefonata. In tanti hanno parlato di un suo potere sotterraneo di guidare come burattini i politici, ma chi chiamava sul cellulare, almeno secondo l'autore, «non era Draghi, ma i ministri», che vedevano in lui il tipico «buon padre di famiglia», come si dice in economia.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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