
Sul Dragone l'America non cambierà dopo il voto. Ma con i dem il Quirinale potrebbe tornare atlantista.Tutti aspettano il 3 novembre. All'attesa per il più importante appuntamento elettorale per definizione, si aggiunge il carico di tensione derivante da quattro anni di Trump. La sinistra italiana - intesa come asse Pd-Quirinale e decisori reali è alla finestra con qualche ansia in più. Primo perché l'arbitraria trincea scavata tra i «populisti» e gli altri ha fatto saltare molta grammatica istituzionale: in molti si sono sbilanciati (lo aveva già fatto Renzi con Hillary Clinton) in un tifo che, in altre circostanze, sarebbe stato bollato come ingerenza ad alto rischio boomerang. Il secondo motivo è la Cina. I nodi stanno venendo al pettine, non a caso con le imminenti presidenziali: diventa difficile ripetere la filastrocca degli ultimi anni, secondo cui la postura sinofila assunta dal nostro Paese sarebbe da imputare ai pasticci di un Michele Geraci. Iniziano a profilarsi i reali attori, ovvero Quirinale e Santa Sede, di un percorso di lungo periodo che non è certo iniziato con Conte e Di Maio. È inevitabile che a questi attori si rivolga - neppure troppo indirettamente - Mike Pompeo, oggi in una capitale che per un giorno torna crocevia geopolitico mondiale. Una posizione molto superficiale punta sulla eventuale vittoria di Joe Biden come occasione per nascondere il problema, o addirittura sperando che esso scompaia, rimettendo il mondo in un presunto ordine multipolare in cui sia permesso coltivare sogni europeisti di terzietà geopolitica rispetto a Washington e Mosca. Questa illusione cadrà il 4 novembre, qualunque sia l'esito delle elezioni americane. È piuttosto evidente alla stragrande maggioranza degli osservatori che le ragioni economiche, militari, strategiche che hanno alzato il livello dello scontro tra Usa e Cina siano tali da animare qualsiasi amministrazione, al di là dei toni e della personalità dei singoli inquilini della Casa bianca. I ministri italiani più attenti alle cose d'Oltreoceano, come il pd Enzo Amendola, lo dicono apertamente: mantenere una posizione cauta sui fronti aperti (5G su tutti) «non significa essere ammiratori di Trump: Joe Biden, il candidato democratico, su questi principi è anche più fermo del presidente». Fischiettare sperando con le elezioni passi la nuttata è peggio che ingenuo: è sbagliato.E dunque la vera attesa, per chi nel Pd si schiera su posizioni più «amerikane», non è riposta nella vittoria di Biden perché questa potrebbe determinare chissà quale svolta nell'atteggiamento verso i Paesi più ambigui verso Pechino, ma perché essa darebbe un contesto politico in cui sarebbe più facile e indolore per Roma «svoltare», ovvero - come chiede Washington - alzare muri verso Est nei settori strategici. Non sembra lontano il momento in cui, tra porti, reti e infrastrutture, l'America imporrà una scelta secca in termini di investitori, fornitori e aziende partner. Le blacklist sono pronte ad allungarsi e questo per molti in Italia può diventare un problema drammatico. Oggi, per il Pd e probabilmente per il Quirinale, forse pure per la Santa Sede, dare ragione agli Usa significa, oltre a crearsi un nemico fin qui generoso, dare ragione a Trump, soprattutto a livello di politica interna e di immagine. Dare ragione a Biden, più in generale a un'amministrazione democratica, sarebbe internamente più digeribile e culturalmente meno traumatico.Con l'amministrazione Usa a sinistra, l'Italia potrebbe dotarsi di una foglia di fico internazionale che dia l'apparenza di una ponderata scelta strategica a quella che sembra piuttosto una strada obbligata. Caduta la pregiudiziale populista, che il Colle ha dimostrato di subire anche di recente, con i recenti attacchi a Boris Johnson, sarebbe più facile, forse, ripristinare gli argini, magari un po' ambigui, di un fondamentale atlantismo da cui mai si era allontanato il predecessore di Sergio Mattarella. C'è un ultimo aspetto per cui, soprattutto in casa Pd (ma più in generale in un'area che va da Lorenzo Guerini a Matteo Renzi), si attende con ansia una vittoria di Biden. Gli stessi nuovi equilibri che renderebbero meno indigeribile «mollare» Pechino renderebbero forse più facile una spallata a «Giuseppi» e una contrapposizione all'ala più intransigente dei 5 stelle che, per vari motivi, è meno dotata di struttura politica per accettare un ritorno tra braccia americane.Certo, tutto questo assetto presenta un rischio: un brusco risveglio qualora, come quattro anni fa, dalle urne uscisse vincitore ancora una volta Trump. I fattori geopolitici sarebbero praticamente invariati rispetto al nodo cinese, ma a quel punto la «foglia di fico» non ci sarebbe più, e non resterebbe un bello spettacolo. Visto il clima che si sta creando attorno al voto per corrispondenza, c'è caso che non basti neppure aspettare il 4 novembre per sciogliere il dilemma.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.