2018-10-08
La rivoluzione è un pranzo. Piccola apologia del sovranismo alimentare
Mangiare è un atto politico, per mezzo del quale si ritorna alla terra e si riscopre la difesa dei confini. Ma occhio alla cucina spettacolo e alle mode succhiasoldi. Mangiare italiano non vuol dire solo riempirsi il piatto di «pomodori selvaggi di Canicattì innaffiati con acqua di fiume carsico». Basta scegliere bene ciò che si compra, leggere le etichette, informarsi, pretendere che i produttori rispettino standard precisi. La rivoluzione, oggi, è un pranzo in famiglia.Wendell Berry, il grande scrittore americano, spiegava in un celebre libro che «mangiare è un atto agricolo», invitando gli occidentali al rispetto della terra, la vera fonte del loro nutrimento. Ora un personaggio che con Berry sembra non avere niente in comune - ovvero il celeberrimo chef francese Alain Ducasse - scrive un libro intitolato Mangiare è un atto civico (appena pubblicato da Einaudi). Noi, molto più modestamente, aggiungiamo che mangiare, oggi, è anche e soprattutto un atto politico. Da qualche anno a questa parte la moda del cibo - anzi, del food - ossessiona gli italiani e gli europei. Le trasmissioni dedicate alla cucina e alla gastronomia si sprecano, e in alcuni casi hanno decisamente stufato. Eppure, la grande attenzione verso il cibo non è soltanto legata all'intrattenimento. L'alimentazione è, davvero, il grande tema politico dei prossimi anni. Chi controlla la fame, in fondo, controlla il mondo. E le scelte che governi e istituzioni sovranazionali compiranno nei prossimi anni determineranno l'intero futuro dell'umanità. Ducasse non proviene da un ambiente che suscita grande simpatia. È un ricco signore illuminato da tre stelle Michelin, serve una clientela di privilegiati. Eppure, nel suo libro tocca alcuni punti fondamentali. «Inutile mettere la testa sotto la sabbia», scrive. «I problemi di salute e le cosiddette malattie del benessere - obesità, colesterolo, diabete, alcuni tumori della crescita endemica - sono in larga parte dovuti all'alimentazione industriale. Per giunta, questa cucina a bassa densità nutrizionale e ad alta densità di “deliziosi" aromi di sintesi crea anche una dipendenza pericolosa, una dipendenza da gusti uniformati e standardizzati, che consente una distribuzione di massa molto redditizia per l'industria agroalimentare». Sono argomenti che abbiamo sentito spesso, in questi anni, e sono assolutamente concreti. Qualcosa, però, sta cambiando. La moda del food - va riconosciuto - sta portando anche qualche vantaggio. Una marea di persone ha cominciato a prestare più attenzione a ciò che mette nel piatto. «Nelle reti sociali, nei blog e nei forum», dice Ducasse, «si levano voci che testimoniano questa presa di coscienza. Le esperienze alternative, fino a qualche anno fa ancora occasionali, si moltiplicano: vendite dirette, prodotti a chilometri zero, raccolta libera sul luogo di produzione, vendite settimanali di panieri di prodotti freschi, locali e di stagione... Quel che si cerca è una maggiore vicinanza all'origine del prodotto». Ha ragione, Ducasse. I cittadini cercano prodotti più vicini a loro, prodotti «legati alla terra», come auspicava Berry. A ben guardare, si tratta di una scelta tutta politica. Le persone, a tavola, scelgono di rifiutare la globalizzazione. Magari non se ne rendono conto, ma difendono i loro confini. Il vero e più forte sovranismo oggi in circolazione è quello alimentare. Fateci caso: in tanti si fanno problemi a dire «prima gli italiani». Ma quasi nessuno ha dubbi sul fatto che «mangiare italiano» sia meglio. Ecco perché è importante, adesso più che mai, ribadire il concetto: mangiare italiano significa restare attaccati alla terra, significa compiere un atto politico. Purtroppo, questa scelta politica è nascosta sotto un mare di retorica (ed è questo l'aspetto negativo della moda del food). In questi anni abbiamo assistito all'affermazione di una vera e propria religione del cibo, che è, a tutti gli effetti, la malattia senile del culto del corpo, ultimo grande feticcio della nostra epoca, e come molte fedi prospera sul rimorso. Come ha scritto l'antropologo Marino Niola in Homo Dieteticus, nella nostra società «il grande nemico non è la fame, ma l'abbondanza. Che si porta dietro il suo minaccioso carico di sensi di colpa, fobie e idiosincrasie». Ecco perché, spesso e volentieri, gli adepti del food interpretano il loro culto come un'occasione di espiazione. Invece di flagellarsi si privano di qualche alimento, di solito uno che fino al giorno prima apprezzavano parecchio. Salvo poi sbavare davanti ai manicaretti sfornati dai concorrenti di Masterchef. E godere delle disgrazie altrui quando i cuochi dilettanti vengono maltrattati dai giudici del programma, personaggi in odore di santità (e di scalogno) come Carlo Cracco, profeti dell'impiattamento a cui bisogna prostrarsi, sussurrando: «Sì, chef». Questo fanatismo degno delle peggiori sette ci fa perdere di vista il punto centrale di tutta la faccenda. L'ossessione foodista ha trasformato la cucina in un grande spettacolo, a cui tutti vogliono accedere, ma di cui solo pochi eletti possono davvero beneficiare. Il discorso di Alain Ducasse che citavamo prima è sacrosanto, ma - nella realtà - si traduce in questo: solo una ristretta fascia di popolazione può accedere a un certo tipo di cibo. Mangiando alimenti ricercati e a «chilometro zero», questa élite ribadisce la sua superiorità morale sui poveri ignoranti che «mangiano male e vivono male». Con la scusa del cibo «etico» e «sano», abbiamo costruito nuove barriere fra classi. Una nuova divisione fra chi può servirsi presso i ristoranti stellati e può fare compere nei market di livello superiore e chi, invece, si limita al fast food o al discount. Il «chilometro zero» e il «bio» sono diventati un modo per rifilare alla gente prodotti più cari: ci fanno pagare l'etica. Ecco perché bisogna compiere un ulteriore atto politico. Bisogna separare la moda del cibo dalla ritrovata coscienza alimentare. Bisogna evitare che la cucina diventi il nuovo oppio dei popoli (anzi, lo scalogno dei popoli di Karl Krakk) senza però rinunciare alla qualità e all'attenzione a ciò che mettiamo in bocca. I prodotti freschi e sani non devono essere necessariamente i più costosi. Mangiare italiano non vuol dire solo riempirsi il piatto di «pomodori selvaggi di Canicattì innaffiati con acqua di fiume carsico». Basta scegliere bene ciò che si compra, leggere le etichette, informarsi, pretendere che i produttori rispettino standard precisi. La rivoluzione, oggi, è un pranzo in famiglia.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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