
Il 10 gennaio al Viminale si è tenuto un incontro fra il ministro e l'Ucoii per discutere della presenza di imam nelle carceri italiane. Escluse le altre associazioni islamiche, che protestano. Dubbi dei sindacati di polizia. Ma di spiegazioni ufficiali non ce ne sono.Sembra proprio che il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, abbia voluto farsi una sorta di «patto Stato-islam» tutto suo. Nei giorni scorsi, infatti, ha incontrato i rappresentanti dell'Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) per discutere di una faccenda piuttosto importante, ovvero la presenza di imam nelle carceri. Piccolo problema: da quel meeting sono state escluse tutte le altre associazioni musulmane, che pure hanno firmato, nel 2017, l'accordo fra le istituzioni e le comunità islamiche voluto da Marco Minniti. A quanto risulta, L'Ucoii si è mossa con il Viminale per dare piena attuazione a un protocollo siglato con il governo Renzi nel 2015. Un accordo che permette agli imam di entrare in carcere onde incontrare i detenuti di fede musulmana che ne fanno richiesta. A partire dal 2015, dunque, nelle 8 case circondariali che ne hanno avviato la sperimentazione (una Torino, due a Milano, una a Brescia, una a Verona, una a Modena, una a Cremona e una a Firenze), i momenti collettivi di preghiera sono stati guidati dai ministri di culto in sale preghiera dedicate. Insomma, in alcune carceri italiane, da ormai oltre quattro anni, oltre alla cappella c'è pure la sala coranica. L'obiettivo, ora, pare essere quello di estendere il protocollo anche ad altre realtà e di renderlo pienamente effettivo. L'incontro di cui stiamo parlando si è tenuto il 10 gennaio al Viminale. E lo testimonia una galleria fotografica, pubblicata senza didascalie né comunicati. Luciana Lamorgese ha ricevuto il presidente dell'Ucoii, Yassine Lafram, e una delegazione di rappresentanti nazionali dell'associazione: i vicepresidenti Nadia Bouzekri e Abdelhafidh Kheit e il segretario Yassine Baradai. Oltre al ministro, stando a una nota riportata sul sito dell'Ucoii, hanno partecipato alcuni dirigenti del Viminale tra cui il portavoce Dino Martirano, il prefetto per le libertà civili e l'immigrazione, Michele Di Bari, e il capo di gabinetto Matteo Piantedosi. I contenuti dell'incontro sono rimasti top secret. E sul sito dell'Ucoii ci si limita a far riferimento a «un incontro tenuto in un clima disteso di collaborazione in cui l'Ucoii ha avanzato alcune istanze relative alla comunità islamica italiana e di competenza del dicastero, ribadendo la completa disponibilità a continuare i percorsi condivisi già avviati con il ministero». La faccenda, però, a qualcuno non va giù. «Garantire il culto durante la detenzione è previsto dalla Costituzione e fin qui non c'è nulla da obiettare. Ma gli imam entrino in carcere solo con un interprete italiano, perché i casi di radicalizzazione sono all'ordine del giorno», tuona il segretario nazionale del Siap, il Sindacato italiano degli appartenenti alla polizia, Giuseppe Tiani. Che aggiunge: «La fede musulmana non prevede la confessione, quindi non è necessario che i fedeli incontrino l'imam da soli. Evitiamo che le pubbliche amministrazioni si crogiolino sulla potenziale lesione della libertà di culto. Noi ci dobbiamo invece preoccupare se queste persone possano condizionare le funzioni attribuite dalla costituzione alle forze di polizia». «Il pericolo della radicalizzazione è dietro l'angolo», commenta Donato Capece, segretario del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, «ben vengano i protocolli, ma solo se servono a tutelare la sicurezza del personale che lavora all'interno degli istituti di detenzione. Voglio ricordare che in Italia», prosegue il segretario, «per cercare di fronteggiare il radicalismo e a scopi preventivi, è stato istituito il Comitato di analisi strategica antiterrorismo». Stando agli ultimi dati diffusi dal Casa, e che risalgono al 2018, risultano 506 musulmani radicalizzati in carcere, dei quali 242 sono detenuti definiti «di primo livello», ovvero arrestati per terrorismo internazionale o attivi nel proselitismo, 114 di «livello medio», ossia ritenuti vicini alla ideologia jihadista e 150 di «basso livello», cioè potenzialmente radicalizzabili. L'incontro riservato all'Ucoii, infine, ha fatto storcere il naso a più di un esponente della comunità islamica in Italia. Maryan Ismail, firmataria del patto del 2017, per esempio, si è detta «sorpresa e costernata» per l'esclusione delle altre comunità dal meeting: «Perché si continua a dare spazio ad incontri, formali e informali, con solo una parte dei firmatari? Questo fa sembrare che lo Stato abbia un canale privilegiato con costoro». Già: viene davvero da chiedersi per quale motivo il dialogo venga portato avanti soltanto con una delle tanti componenti dell'islam sul suolo italiano. A Milano, per dire, il Pd da tempo è vicino a organizzazioni che esprimono posizioni vicine a quelle della Turchia o dei Fratelli musulmani. Adesso abbiamo pure un ministro che sceglie di incontrare una sola associazione per parlare di imam nelle carceri. Per altro, un'associazione che nel corso degli anni si è trovata spesso al centro di polemiche. Forse tocca al ministro dare qualche spiegazione.
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