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2019-09-26
La Consulta sdogana il suicidio assistito
Ansa
La Corte costituzionale ha aperto uno spiraglio alla liceità del suicidio assistito. Al termine di una lunga camera di consiglio, iniziata alle 15.30 e conclusa poco prima delle 20, la Consulta ha individuato alcune condizioni di «non punibilità» di chi istiga o aiuta un paziente grave a morire. È una decisione di compromesso, a metà strada tra il rigore, legato al diritto naturale e ai valori su cui è nato l'Occidente cristiano, e la depenalizzazione di cui la tragica vicenda di Dj Fabo è diventata un simbolo.
Di fatto, la Consulta ha modificato l'articolo 580 del codice penale. Era chiamata a valutarne la costituzionalità, ha deciso di correggerlo. Così si legge nel comunicato diffuso nella serata di ieri dall'ufficio stampa della Corte: «In attesa del deposito della sentenza, la Corte ha ritenuto non punibile, a determinate condizioni, chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Dunque, il 580 rimane ma emendato dalla Consulta. Esso prevede una pena da 5 a 12 anni per chi aiuta o istiga al suicidio. Ma in alcuni casi scatta una «non punibilità»: il proposito di suicidio dev'essere deciso liberamente e in autonomia dal malato; questi dev'essere tenuto in vita dalle macchine e deve soffrire di una patologia «irreversibile» che gli provochi «sofferenze intollerabili», comunque non tali da compromettere la sua capacità di prendere decisioni consapevoli.
La Corte aggiunge che attende «un indispensabile intervento del legislatore». Nel frattempo, la non punibilità deve essere subordinata «al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua»: la Consulta cioè arriva a disciplinare la modalità in cui l'aspirante suicida deve morire. Occorre inoltre che «una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale» verifichi sia le «condizioni richieste» sia le «modalità di esecuzione, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente». E mai la parola «esecuzione» suona così sinistra.
Così conclude la nota della Consulta: «La Corte sottolinea che l'individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell'ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell'ordinanza 207 del 2018. Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate».
In pratica, la Consulta si è sostituita al Parlamento, che ora dovrà riscrivere l'articolo 580 del codice penale seguendo le indicazioni della Corte. E già questo è un fatto clamoroso. Ma il paradosso è che, almeno nel comunicato diffuso dall'ufficio stampa della Consulta, non si accenna al destino giudiziario di Marco Cappato, colui che portò Fabiano Antoniani, Dj Fabo, a morire in una struttura specializzata in Svizzera. Non si parla del suo processo, che doveva essere il cuore del pronunciamento della Corte. Cappato resta così in bilico, in attesa di una decisione di un qualche giudice. Ma la campagna mediatica che verrà orchestrata a partire da oggi sfonderà quella breccia che la decisione di ieri sera ha aperto. D'altra parte, già 4.000 camici bianchi hanno dichiarato che praticheranno l'obiezione di coscienza e non indurranno la morte se venisse loro chiesto, come ha garantito il vicepresidente dell'Associazione medici cattolici italiani.
È una svolta clamorosa per l'Italia, che ha sempre punito con severità qualsiasi azione che potesse agevolare la fine anticipata di una vita. Compreso il gesto - che si vorrebbe fare passare come «pietoso» - di esaudire la volontà di un malato grave il quale ha perso la speranza e la forza di reagire, e chiede che venga posta fine alle proprie sofferenze. Dj Fabo era cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale: un invalido gravissimo, aiutato dalle macchine nelle funzioni vitali, ma non un malato terminale. Cappato, tesoriere e portabandiera dell'associazione radicale intitolata a Luca Coscioni, non si è limitato ad aiutare il gesto estremo. Tornato a Milano, si è autodenunciato e si è fatto processare. All'atto di presunta pietà si è aggiunta la provocazione, l'intenzione di creare il caso e il caos normativo che è giunto all'apice nel palazzo della Consulta che ieri ha emesso il verdetto.
La Corte aveva già affrontato la vicenda un anno fa. L'orientamento emerso era chiaro: la legge in vigore è troppo punitiva. Ma i giudici costituzionali avevano scelto di soprassedere fino al 24 settembre 2019, due giorni fa, in modo che il Parlamento potesse intervenire nel frattempo. Un anno non è stato sufficiente. La vecchia maggioranza gialloblù non ha mai avviato il dibattito alle Camere. Ora l'aria è cambiata.
Il nuovo asse Pd-M5s vorrebbe smantellare pietra su pietra quanto costruito dalla componente leghista del vecchio esecutivo: l'essersi liberati di Matteo Salvini ha consentito la sterzata sulla gestione degli sbarchi e ora ha creato un clima non ostile a una rivoluzione normativa che contraddice il diritto naturale e uno dei valori su cui è fondata l'Italia e l'Occidente, cioè che la vita è un bene intangibile.
Pronta la legge giallorossa: firmata Cirinnà
Due parole, «farmaco letale», in un fiume di discorsi, considerazioni, riflessioni. Due parole che caratterizzano il disegno di legge sull'eutanasia presentato ieri a Palazzo Madama dalla prima firmataria, la senatrice del Pd Monica Cirinnà. Il testo è stato sottoscritto anche da Tommaso Cerno (Pd), Loredana De Petris (Leu), Matteo Mantero (M5s), Riccardo Nencini (Psi-Iv), Paola Nugnes (Leu) e Roberto Rampi (Pd). Il provvedimento interviene sul delitto di aiuto al suicidio previsto dall'articolo 580 del codice penale, norma che, secondo la Cirinnà «non assicura più il bilanciamento tra il valore della vita e la tutela dell'autodeterminazione garantita dall'articolo 32 della Costituzione». La legislazione, spiega la senatrice del Pd, «consente una doppia scelta di rinuncia ai trattamenti sanitari e di sedazione profonda. Questa scelta lascia un gap di tempo che con la nostra proposta potrebbe essere abbreviata: abbiamo infatti inserito la possibilità del farmaco letale».
La possibilità di somministrare un farmaco letale, inevitabilmente, è destinata a provocare infinite polemiche, poiché si tratta di una vera e propria morte di Stato. La Cirinnà lo sa bene, e precisa che l'induzione farmacologica della morte è rivolta solo a pazienti «con patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili» e capaci «di prendere libere decisioni». «Una proposta in più tra le tante che sono già state depositate», tengono a precisare i firmatari del ddl, quasi a voler minimizzare gli effetti dirompenti di questo disegno di legge che, sottolinea la Cirinnà, «non va in contrasto con i ddl già depositati e con la sentenza della Consulta».
Con il disegno di legge presentato ieri, argomenta la senatrice Dem, «potrebbe essere abbreviato il tempo già consentito dalla legge per il semplice motivo che quando ti trovi in sedazione profonda sottoponi te stesso all'attesa della morte che non sappiamo quanto può essere lungo. Noi introduciamo quello che manca in tutti gli altri testi, e cioè il farmaco letale». Cirinnà ricorda che la Consulta «lo ha detto: l'attesa in sedazione profonda continuativa non può corrispondere alla dignità del morire. Quindi nella sua libertà di scelta il paziente può scegliere di diminuire il tempo di attesa».
La senatrice tiene a precisare che questo non è il testo del Pd, ma dei senatori che l'hanno sottoscritto: «Il parlamento decida», dice Monica Cirinnà, «decida presto ma decida, perché decidere di non decidere è una scelta che non possiamo più sostenere. Negli scorsi mesi la Camera dei deputati ha avviato una discussione che, tuttavia, non ha prodotto esiti. Al Senato sono stati presentati alcuni disegni di legge con diverse soluzioni tecniche che si fanno carico di rispondere alla richiesta della Corte costituzionale. Questo ddl costituisce un ulteriore contributo al dibattito», precisa la Cirinnà, l'intervento auspicato dalla Corte riguarda l'attuale formulazione dell'articolo 580 del codice penale, per eliminare l'irragionevole unicità delle due diverse fattispecie di istigazione e aiuto al suicidio, ivi contemplate. Per questo, secondo la Corte costituzionale ben potrebbe il legislatore consentire che, nei casi in cui è già prefigurato dalla legge l'esito mortale come conseguenza della sospensione dei trattamenti sanitari, venga somministrato al malato un farmaco idoneo a provocarne la morte rapidamente e senza dolore, prevedendo al contempo idonee garanzie».
«La Corte costituzionale», argomenta la Cirinnà, «ha dato al legislatore l'irripetibile opportunità di rispondere in modo serio e ponderato alla domanda di riconoscimento che si leva dal corpo stesso dei malati. Una risposta sensibile alla dignità del morente e alla garanzia della miglior qualità di vita possibile, in armonia con la sua autodeterminazione e la sua visione della morte». «Ribadiamo con la presentazione di questo disegno di legge che una via tecnica e politica può essere percorsa, nel pieno rispetto dei principi enunciati dalla Corte».
«Il legislatore non è chiamato a dare la morte», sottolinea la senatrice del Pd, «né a rinunciare all'obbligo di prendersi cura di ogni persona malata. Piuttosto, è chiamato a confrontarsi, con umiltà, con le forme che può assumere, nella concretezza delle situazioni di vita, la dignità personale, riconoscendola con rispetto. In quest'ottica, mettendo al centro la persona del malato e la sua libertà di scelta, il ddl non fa altro», conclude Monica Cirinnà, «che disciplinare, con le opportune garanzie, la possibilità di consentire a chi già sta morendo di poterlo fare in modo corrispondente alla propria visione della dignità del morire».
La senatrice del Pd ne approfitta anche per condannare «chi ha fatto manifesti dicendo che si tratta di persone come gli anoressici: si deve vergognare perché strumentalizza il dolore». Il riferimento sembra essere a una recente iniziativa di ProVita, a suo dire «un osceno caso di disinformazione per cercare di colpire i cittadini con dei manifesti che sono osceni. Stiamo parlando di applicare l'aiuto medico a morire esclusivamente a pazienti capaci di intendere e volere e che scelgano liberamente, che siano afflitti da patologie irreversibili e che ne siano consapevoli e che siano vittime di dolori insopportabili».
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Riduci
La Corte costituzionale usa il caso Cappato per dettare al Parlamento la sua riforma del codice penale: lecito «a determinate condizioni» agevolare chi vuole uccidersi. E conclude: l'Aula dovrà comunque pronunciarsi.Pd, M5s e Leu hanno già presentato la norma per arrivare all'obiettivo sfruttando il parziale vuoto creato dalla sentenza di ieri. La dem Monica Cirinnà: «Il ddl riguarda solo pazienti terminali e coscienti». Ma prevede «quello che manca in tutti gli altri testi: il farmaco letale».Lo speciale contiene due articoli.La Corte costituzionale ha aperto uno spiraglio alla liceità del suicidio assistito. Al termine di una lunga camera di consiglio, iniziata alle 15.30 e conclusa poco prima delle 20, la Consulta ha individuato alcune condizioni di «non punibilità» di chi istiga o aiuta un paziente grave a morire. È una decisione di compromesso, a metà strada tra il rigore, legato al diritto naturale e ai valori su cui è nato l'Occidente cristiano, e la depenalizzazione di cui la tragica vicenda di Dj Fabo è diventata un simbolo. Di fatto, la Consulta ha modificato l'articolo 580 del codice penale. Era chiamata a valutarne la costituzionalità, ha deciso di correggerlo. Così si legge nel comunicato diffuso nella serata di ieri dall'ufficio stampa della Corte: «In attesa del deposito della sentenza, la Corte ha ritenuto non punibile, a determinate condizioni, chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».Dunque, il 580 rimane ma emendato dalla Consulta. Esso prevede una pena da 5 a 12 anni per chi aiuta o istiga al suicidio. Ma in alcuni casi scatta una «non punibilità»: il proposito di suicidio dev'essere deciso liberamente e in autonomia dal malato; questi dev'essere tenuto in vita dalle macchine e deve soffrire di una patologia «irreversibile» che gli provochi «sofferenze intollerabili», comunque non tali da compromettere la sua capacità di prendere decisioni consapevoli.La Corte aggiunge che attende «un indispensabile intervento del legislatore». Nel frattempo, la non punibilità deve essere subordinata «al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua»: la Consulta cioè arriva a disciplinare la modalità in cui l'aspirante suicida deve morire. Occorre inoltre che «una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale» verifichi sia le «condizioni richieste» sia le «modalità di esecuzione, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente». E mai la parola «esecuzione» suona così sinistra.Così conclude la nota della Consulta: «La Corte sottolinea che l'individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell'ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell'ordinanza 207 del 2018. Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate».In pratica, la Consulta si è sostituita al Parlamento, che ora dovrà riscrivere l'articolo 580 del codice penale seguendo le indicazioni della Corte. E già questo è un fatto clamoroso. Ma il paradosso è che, almeno nel comunicato diffuso dall'ufficio stampa della Consulta, non si accenna al destino giudiziario di Marco Cappato, colui che portò Fabiano Antoniani, Dj Fabo, a morire in una struttura specializzata in Svizzera. Non si parla del suo processo, che doveva essere il cuore del pronunciamento della Corte. Cappato resta così in bilico, in attesa di una decisione di un qualche giudice. Ma la campagna mediatica che verrà orchestrata a partire da oggi sfonderà quella breccia che la decisione di ieri sera ha aperto. D'altra parte, già 4.000 camici bianchi hanno dichiarato che praticheranno l'obiezione di coscienza e non indurranno la morte se venisse loro chiesto, come ha garantito il vicepresidente dell'Associazione medici cattolici italiani.È una svolta clamorosa per l'Italia, che ha sempre punito con severità qualsiasi azione che potesse agevolare la fine anticipata di una vita. Compreso il gesto - che si vorrebbe fare passare come «pietoso» - di esaudire la volontà di un malato grave il quale ha perso la speranza e la forza di reagire, e chiede che venga posta fine alle proprie sofferenze. Dj Fabo era cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale: un invalido gravissimo, aiutato dalle macchine nelle funzioni vitali, ma non un malato terminale. Cappato, tesoriere e portabandiera dell'associazione radicale intitolata a Luca Coscioni, non si è limitato ad aiutare il gesto estremo. Tornato a Milano, si è autodenunciato e si è fatto processare. All'atto di presunta pietà si è aggiunta la provocazione, l'intenzione di creare il caso e il caos normativo che è giunto all'apice nel palazzo della Consulta che ieri ha emesso il verdetto.La Corte aveva già affrontato la vicenda un anno fa. L'orientamento emerso era chiaro: la legge in vigore è troppo punitiva. Ma i giudici costituzionali avevano scelto di soprassedere fino al 24 settembre 2019, due giorni fa, in modo che il Parlamento potesse intervenire nel frattempo. Un anno non è stato sufficiente. La vecchia maggioranza gialloblù non ha mai avviato il dibattito alle Camere. Ora l'aria è cambiata. Il nuovo asse Pd-M5s vorrebbe smantellare pietra su pietra quanto costruito dalla componente leghista del vecchio esecutivo: l'essersi liberati di Matteo Salvini ha consentito la sterzata sulla gestione degli sbarchi e ora ha creato un clima non ostile a una rivoluzione normativa che contraddice il diritto naturale e uno dei valori su cui è fondata l'Italia e l'Occidente, cioè che la vita è un bene intangibile.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-consulta-apre-la-via-alleutanasia-smontato-il-reato-di-aiuto-al-suicidio-2640630514.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pronta-la-legge-giallorossa-firmata-cirinna" data-post-id="2640630514" data-published-at="1765478432" data-use-pagination="False"> Pronta la legge giallorossa: firmata Cirinnà Due parole, «farmaco letale», in un fiume di discorsi, considerazioni, riflessioni. Due parole che caratterizzano il disegno di legge sull'eutanasia presentato ieri a Palazzo Madama dalla prima firmataria, la senatrice del Pd Monica Cirinnà. Il testo è stato sottoscritto anche da Tommaso Cerno (Pd), Loredana De Petris (Leu), Matteo Mantero (M5s), Riccardo Nencini (Psi-Iv), Paola Nugnes (Leu) e Roberto Rampi (Pd). Il provvedimento interviene sul delitto di aiuto al suicidio previsto dall'articolo 580 del codice penale, norma che, secondo la Cirinnà «non assicura più il bilanciamento tra il valore della vita e la tutela dell'autodeterminazione garantita dall'articolo 32 della Costituzione». La legislazione, spiega la senatrice del Pd, «consente una doppia scelta di rinuncia ai trattamenti sanitari e di sedazione profonda. Questa scelta lascia un gap di tempo che con la nostra proposta potrebbe essere abbreviata: abbiamo infatti inserito la possibilità del farmaco letale». La possibilità di somministrare un farmaco letale, inevitabilmente, è destinata a provocare infinite polemiche, poiché si tratta di una vera e propria morte di Stato. La Cirinnà lo sa bene, e precisa che l'induzione farmacologica della morte è rivolta solo a pazienti «con patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili» e capaci «di prendere libere decisioni». «Una proposta in più tra le tante che sono già state depositate», tengono a precisare i firmatari del ddl, quasi a voler minimizzare gli effetti dirompenti di questo disegno di legge che, sottolinea la Cirinnà, «non va in contrasto con i ddl già depositati e con la sentenza della Consulta». Con il disegno di legge presentato ieri, argomenta la senatrice Dem, «potrebbe essere abbreviato il tempo già consentito dalla legge per il semplice motivo che quando ti trovi in sedazione profonda sottoponi te stesso all'attesa della morte che non sappiamo quanto può essere lungo. Noi introduciamo quello che manca in tutti gli altri testi, e cioè il farmaco letale». Cirinnà ricorda che la Consulta «lo ha detto: l'attesa in sedazione profonda continuativa non può corrispondere alla dignità del morire. Quindi nella sua libertà di scelta il paziente può scegliere di diminuire il tempo di attesa». La senatrice tiene a precisare che questo non è il testo del Pd, ma dei senatori che l'hanno sottoscritto: «Il parlamento decida», dice Monica Cirinnà, «decida presto ma decida, perché decidere di non decidere è una scelta che non possiamo più sostenere. Negli scorsi mesi la Camera dei deputati ha avviato una discussione che, tuttavia, non ha prodotto esiti. Al Senato sono stati presentati alcuni disegni di legge con diverse soluzioni tecniche che si fanno carico di rispondere alla richiesta della Corte costituzionale. Questo ddl costituisce un ulteriore contributo al dibattito», precisa la Cirinnà, l'intervento auspicato dalla Corte riguarda l'attuale formulazione dell'articolo 580 del codice penale, per eliminare l'irragionevole unicità delle due diverse fattispecie di istigazione e aiuto al suicidio, ivi contemplate. Per questo, secondo la Corte costituzionale ben potrebbe il legislatore consentire che, nei casi in cui è già prefigurato dalla legge l'esito mortale come conseguenza della sospensione dei trattamenti sanitari, venga somministrato al malato un farmaco idoneo a provocarne la morte rapidamente e senza dolore, prevedendo al contempo idonee garanzie». «La Corte costituzionale», argomenta la Cirinnà, «ha dato al legislatore l'irripetibile opportunità di rispondere in modo serio e ponderato alla domanda di riconoscimento che si leva dal corpo stesso dei malati. Una risposta sensibile alla dignità del morente e alla garanzia della miglior qualità di vita possibile, in armonia con la sua autodeterminazione e la sua visione della morte». «Ribadiamo con la presentazione di questo disegno di legge che una via tecnica e politica può essere percorsa, nel pieno rispetto dei principi enunciati dalla Corte». «Il legislatore non è chiamato a dare la morte», sottolinea la senatrice del Pd, «né a rinunciare all'obbligo di prendersi cura di ogni persona malata. Piuttosto, è chiamato a confrontarsi, con umiltà, con le forme che può assumere, nella concretezza delle situazioni di vita, la dignità personale, riconoscendola con rispetto. In quest'ottica, mettendo al centro la persona del malato e la sua libertà di scelta, il ddl non fa altro», conclude Monica Cirinnà, «che disciplinare, con le opportune garanzie, la possibilità di consentire a chi già sta morendo di poterlo fare in modo corrispondente alla propria visione della dignità del morire». La senatrice del Pd ne approfitta anche per condannare «chi ha fatto manifesti dicendo che si tratta di persone come gli anoressici: si deve vergognare perché strumentalizza il dolore». Il riferimento sembra essere a una recente iniziativa di ProVita, a suo dire «un osceno caso di disinformazione per cercare di colpire i cittadini con dei manifesti che sono osceni. Stiamo parlando di applicare l'aiuto medico a morire esclusivamente a pazienti capaci di intendere e volere e che scelgano liberamente, che siano afflitti da patologie irreversibili e che ne siano consapevoli e che siano vittime di dolori insopportabili».
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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Riduci
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 dicembre 2025. Con il nostro Fabio Amendolara commentiamo gli ultimi sviluppi del caso Garlasco.
L'amministratore delegato di SIMEST Regina Corradini D’Arienzo (Imagoeconomica)
SIMEST e la Indian Chamber of Commerce hanno firmato un Memorandum of Understanding per favorire progetti congiunti, scambio di informazioni e nuovi investimenti tra imprese italiane e indiane. L'ad di Simest Regina Corradini D’Arienzo: «Mercato chiave per il Made in Italy, rafforziamo il supporto alle aziende».
Nel quadro del Business Forum Italia-India, in corso a Mumbai, SIMEST e Indian Chamber of Commerce (ICC) hanno firmato un Memorandum of Understanding per consolidare la cooperazione economica tra i due Paesi e facilitare nuove opportunità di investimento bilaterale. La firma è avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del ministro indiano del Commercio e dell’Industria Piyush Goyal.
A sottoscrivere l’accordo sono stati l’amministratore delegato di SIMEST, Regina Corradini D’Arienzo, e il direttore generale della ICC, Rajeev Singh. L’intesa punta a mettere in rete le imprese italiane e indiane, sviluppare iniziative comuni e favorire l’accesso ai rispettivi mercati. Tra gli obiettivi: promuovere progetti congiunti, sostenere gli investimenti delle aziende di entrambi i Paesi anche grazie agli strumenti finanziari messi a disposizione da SIMEST, facilitare lo scambio di informazioni e creare un network stabile tra le comunità imprenditoriali.
«L’accordo conferma la volontà di SIMEST di supportare gli investimenti delle imprese italiane in un mercato chiave come quello indiano, sostenendole con strumenti finanziari e know-how dedicato», ha dichiarato Corradini D’Arienzo. L’ad ha ricordato che l’India è tra i Paesi prioritari del Piano d’Azione per l’export della Farnesina e che nel 2025 SIMEST ha aperto un ufficio a Delhi e attivato una misura dedicata per favorire gli investimenti italiani nel Paese. Un tassello, ha aggiunto, che rientra nell’azione coordinata del «Sistema Italia» guidato dalla Farnesina insieme a CDP, ICE e SACE.
SIMEST, società del Gruppo CDP, sostiene la crescita internazionale delle imprese italiane – in particolare le PMI – lungo tutto il ciclo di espansione all’estero, attraverso export credit, finanziamenti agevolati, partecipazioni al capitale e investimenti in equity.
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Riduci