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2020-05-08
La Caporetto totale dei manettari. Quasi 500 galeotti vogliono uscire
Ansa
La ricognizione sui boss che hanno chiesto di uscire perché a rischio Covid è arrivata a quota 456. Ed è parziale. La relazione del post Basentini è stata inviata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dal vicecapo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Roberto Tartaglia ed è stata aggiornata con gli ultimi cento e passa nomi di detenuti al 41 bis, il regime di carcere duro, o nei circuiti dell'Alta sicurezza. «Deve precisarsi», è scritto nel documento indicato come «riservato», «che il dato relativo al numero delle istanze prendenti presentate non comprende quelle che i detenuti potrebbero avere avanzato per il tramite dei propri difensori di fiducia o per il tramite dei familiari, oppure potrebbero avere trasmesso in busta chiusa all'Autorità giudiziaria, per acquisire le quali saranno necessari sicuramente tempi più lunghi».
Dei 456 boss di cui si conoscono le istanze «225 sono detenuti definitivi», come si legge nella relazione e «231 sono detenuti in attesa di primo giudizio, imputati, appellanti e ricorrenti». Ci sarà quindi una terza comunicazione più completa. Per ora, quindi, l'emorragia non sembra facilmente arrestabile, nonostante i proclami del Guardasigilli.
E ora a creare ulteriore imbarazzo a via Arenula c'è anche altra documentazione: un carteggio di fuoco tra l'ex capo del Dap Basentini e il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. Uno scambio di invettive che ha inizio il 22 aprile. Morra scrive a Basentini, che nel frattempo ha rassegnato le dimissioni, per sollecitare, si legge nella lettera l'acquisizione e la trasmissione alla Commissione «con ogni cortese sollecitudine, tutti i riferimenti, e se del caso anche i fascicoli personali, dei detenuti, a procedimenti esitati in decisioni della magistratura di sorveglianza incidenti sul regime detentivo di persone chiamate a scontare la pena per reati di cui all'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario (quelli che indicano la pericolosità sociale, ndr)». Ma non è l'unica richiesta: Morra vorrebbe anche conoscere «se vi siano state determinazioni che abbiano inciso su uno o più detenuti sottoposti alla misura del 41 bis».
Il carteggio tra la Commissione antimafia e il Dap va avanti per giorni. I toni sono più che accesi. Il 24 aprile Morra scrive di nuovo. E sollecita l'invio dei dati «di cui dispone il Dipartimento» su alcuni detenuti, tra cui Giuseppe Trubia, Pasquale Cristiano, Giuseppe Marotta, «per i quali è stata disposta una modifica del regime di esecuzione penale». Due giorni dopo l'ex capo del Dap invia i dati richiesti. Ma Morra non è sazio. Il 29 aprile manda una nuova richiesta. Questa volta la Commissione chiede al Dap «di acquisire i documenti relativi alle modifiche del regime penale intramurario per i detenuti condannati per i reati di cui all'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario». E con altrettanta forza chiede notizie delle prime scarcerazioni dei boss. «Alcuni commissari si sono anche vivamente lamentati», scrive Morra, «del fatto che non sia pervenuta risposta alla richiesta di acquisizione dei dati da me avanzata il 22 aprile. Torno, dunque, a chiederle di evadere al più presto quella richiesta di acquisizione». Quello stesso giorno arriva la risposta di Basentini con l'elenco richiesto. Alla lettera vengono allegati anche i provvedimenti emessi dalla magistratura di Sorveglianza che erano disponibili. Ma la Commissione presieduta da Morra non è stata l'unica a lamentare di aver ricevuto notizie in ritardo dal Dap.
La circolare denominata ormai «Tana libera tutti» è stata trasmessa alla Procura nazionale antimafia solo un mese dopo. A svelarlo è stato il procuratore Federico Cafiero de Raho: «Il 21 marzo c'è stata la nota dell'amministrazione penitenziaria rivolta agli istituti penitenziari in cui si diceva che era necessario esaminare le condizioni di salute dei singoli detenuti e tramettere ai tribunali di Sorveglianza perché valutassero la compatibilità della detenzione in questo momento di rischio, di questa nota la Direzione nazionale antimafia ha appreso l'esistenza solo il 21 aprile». E, per quanto riguarda i boss in 41 bis, aggiunge de Raho, «non si comprende perché ci fosse questa preoccupazione si tratta di detenuti in isolamento e dunque impossibili da contagiare, bastava un termo scanner». Tra i fuoriusciti c'è Francesco Bonura, il colonnello di Bernardo Provenzano condannato in via definitiva per mafia, che è potuto tornare a casa perché «in carcere il rischio contagio coronavirus è più alto», scrive nel provvedimento di scarcerazione il magistrato del tribunale di Sorveglianza. La toga riporta il quadro clinico dell'anziano boss e sottolinea i presupposti «per il differimento facoltativo dell'esecuzione della pena», anche «tenuto conto dell'attuale emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio». E nell'elenco di chi comincia a spingere ci sono anche i gruppi romani: gli esponenti del clan Spada, dei Casamonica e dei Fasciani.
Intanto il decreto-tampone è per aria.«Stiamo ragionando, serve cautela»
«Adelante Pedro, ma con juicio». Sì, viene proprio in mente Antonio Ferrer, il cancelliere spagnolo di Milano che nei Promessi sposi sprona il cocchiere ad avanzare tra la folla inferocita per la fame, ma senza correre. Allo stesso modo, il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, mercoledì ha annunciato alla Camera un decreto per chiudere in poche ore la stagione delle scarcerazioni per motivi sanitari dei boss mafiosi, e le polemiche che ha scatenato. Ma è stato un bluff. Perché per quel decreto, così «urgente», ci vorrà molto tempo. E anche molto juicio.
Due giorni fa, Bonafede aveva spiegato ai deputati che il nuovo decreto, «in cantiere» e quindi imminente, avrebbe permesso ai Tribunali di sorveglianza «di rivalutare la persistenza dei presupposti per le scarcerazioni dei detenuti di alta sicurezza e al 41 bis (il regime di detenzione speciale, riservato ai reclusi di mafia e particolarmente pericolosi, ndr)». Quel decreto, insomma, avrebbe riportato in un batter d'occhi tra le mura di una prigione i boss mafiosi Vincenzo Iannazzo, Francesco Bonura, Pasquale Zagaria e Vincenzo Di Piazza, usciti dall'isolamento del 41 bis, e tutti gli altri 372 pericolosi criminali che nelle ultime settimane - per motivi di salute e per il rischio Covid-19 - erano stati trasferiti da celle ad alta sicurezza agli arresti domiciliari.
Bonafede aveva voluto annunciare quel decreto a tutti i costi, l'altro ieri, forse perché così sperava di stemperare la devastante querelle che da giorni lo oppone al magistrato antimafia Nino Di Matteo. Domenica sera, in tv, il pubblico ministero palermitano aveva accusato il ministro di avergli offerto nel 2018 la poltrona di capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, e di avergliela poi improvvisamente negata. Di Matteo aveva accostato la marcia indietro del ministro alle proteste dei mafiosi detenuti, contrariati alla sola ipotesi che il governo delle carceri finisse nelle sue mani. Instillando il dubbio che Bonafede si fosse piegato a una specie di «sgradimento mafioso».
Per questo il Guardasigilli, dopo aver varato il 30 aprile un decreto che ha subordinato la scarcerazione di ogni detenuto «pericoloso» al vaglio preventivo della Procura nazionale antimafia, mercoledì aveva aggiunto al medagliere della sua «antimafiosità» il nuovo decreto per riportare in cella i 376 detenuti scarcerati. Per averlo annunciato, Bonafede era stato perfino criticato (con qualche ragione): la notizia dell'imminente giro di vite, infatti, avrebbe potuto suggerire la fuga a molti dei criminali usciti da una cella di sicurezza e chiusi in casa.
Ieri, invece, s'è capito che siamo ancora in alto mare. Il sottosegretario pd alla Giustizia, Andrea Giorgis, ha invitato tutti a una serena attesa: «Questo decreto», ha detto, «non ha ancora un contenuto definito perché stiamo ragionando su come far sì che i Tribunali di sorveglianza possano rivedere le decisioni (sulle scarcerazioni, ndr) alla luce del cambiamento dell'andamento dell'epidemia, e su come preservare l'autonomia della magistratura e i capisaldi della Costituzione». Il sottosegretario ha spiegato poi che «serve cautela, perché ogni intervento deve rispettare l'armonia e l'equilibrio del sistema penalistico-processuale».
Del resto, era chiaro che il brusco dietro-front postulato da Bonafede non sarebbe stato facile. Sempre ieri un giurista competente come Giovanni Tamburino, già presidente di Tribunali di sorveglianza e capo del Dap, ha escluso che il nuovo decreto Bonafede possa «avere l'effetto diretto di ripristinare il carcere, in quanto ogni decisione dovrà comunque passare il vaglio dell'autorità giudiziaria». Quindi per riportare in cella i 376 criminali occorrerà davvero molto tempo: prima bisognerà completare e varare il decreto-che-non-c'è, e poi si dovranno attendere i tempi dei tribunali. Si spera solo che mafiosi e criminali, nell'attesa, non prendano davvero la via della fuga.
Sempre in tema di prigioni, ieri è girata un'altra voce, poi rivelatasi un bluff. La voce sosteneva che Francesco Basentini, l'ex capo del Dap costretto il 30 aprile alle dimissioni proprio per le polemiche seguite alle scarcerazioni dei boss, fosse stato cooptato da Bonafede nella task force per le carceri.
Notizia inverosimile: uscito dalla porta, Basentini sarebbe rientrato dalla finestra? Va detto che, nel magico mondo di questo governo, tutto è possibile. Proprio come un decreto urgentissimo che, per il suo varo, richiede tempo. Molto tempo.
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Il cortocircuito creato da Alfonso Bonafede e Dap allunga la lista dei boss che chiedono di andare a casa. Il ministero: «È ancora parziale».Il governo si impantana persino sull'intervento per rispedire in galera i più pericolosi.Lo speciale contiene due articoliLa ricognizione sui boss che hanno chiesto di uscire perché a rischio Covid è arrivata a quota 456. Ed è parziale. La relazione del post Basentini è stata inviata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dal vicecapo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Roberto Tartaglia ed è stata aggiornata con gli ultimi cento e passa nomi di detenuti al 41 bis, il regime di carcere duro, o nei circuiti dell'Alta sicurezza. «Deve precisarsi», è scritto nel documento indicato come «riservato», «che il dato relativo al numero delle istanze prendenti presentate non comprende quelle che i detenuti potrebbero avere avanzato per il tramite dei propri difensori di fiducia o per il tramite dei familiari, oppure potrebbero avere trasmesso in busta chiusa all'Autorità giudiziaria, per acquisire le quali saranno necessari sicuramente tempi più lunghi». Dei 456 boss di cui si conoscono le istanze «225 sono detenuti definitivi», come si legge nella relazione e «231 sono detenuti in attesa di primo giudizio, imputati, appellanti e ricorrenti». Ci sarà quindi una terza comunicazione più completa. Per ora, quindi, l'emorragia non sembra facilmente arrestabile, nonostante i proclami del Guardasigilli. E ora a creare ulteriore imbarazzo a via Arenula c'è anche altra documentazione: un carteggio di fuoco tra l'ex capo del Dap Basentini e il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. Uno scambio di invettive che ha inizio il 22 aprile. Morra scrive a Basentini, che nel frattempo ha rassegnato le dimissioni, per sollecitare, si legge nella lettera l'acquisizione e la trasmissione alla Commissione «con ogni cortese sollecitudine, tutti i riferimenti, e se del caso anche i fascicoli personali, dei detenuti, a procedimenti esitati in decisioni della magistratura di sorveglianza incidenti sul regime detentivo di persone chiamate a scontare la pena per reati di cui all'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario (quelli che indicano la pericolosità sociale, ndr)». Ma non è l'unica richiesta: Morra vorrebbe anche conoscere «se vi siano state determinazioni che abbiano inciso su uno o più detenuti sottoposti alla misura del 41 bis». Il carteggio tra la Commissione antimafia e il Dap va avanti per giorni. I toni sono più che accesi. Il 24 aprile Morra scrive di nuovo. E sollecita l'invio dei dati «di cui dispone il Dipartimento» su alcuni detenuti, tra cui Giuseppe Trubia, Pasquale Cristiano, Giuseppe Marotta, «per i quali è stata disposta una modifica del regime di esecuzione penale». Due giorni dopo l'ex capo del Dap invia i dati richiesti. Ma Morra non è sazio. Il 29 aprile manda una nuova richiesta. Questa volta la Commissione chiede al Dap «di acquisire i documenti relativi alle modifiche del regime penale intramurario per i detenuti condannati per i reati di cui all'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario». E con altrettanta forza chiede notizie delle prime scarcerazioni dei boss. «Alcuni commissari si sono anche vivamente lamentati», scrive Morra, «del fatto che non sia pervenuta risposta alla richiesta di acquisizione dei dati da me avanzata il 22 aprile. Torno, dunque, a chiederle di evadere al più presto quella richiesta di acquisizione». Quello stesso giorno arriva la risposta di Basentini con l'elenco richiesto. Alla lettera vengono allegati anche i provvedimenti emessi dalla magistratura di Sorveglianza che erano disponibili. Ma la Commissione presieduta da Morra non è stata l'unica a lamentare di aver ricevuto notizie in ritardo dal Dap. La circolare denominata ormai «Tana libera tutti» è stata trasmessa alla Procura nazionale antimafia solo un mese dopo. A svelarlo è stato il procuratore Federico Cafiero de Raho: «Il 21 marzo c'è stata la nota dell'amministrazione penitenziaria rivolta agli istituti penitenziari in cui si diceva che era necessario esaminare le condizioni di salute dei singoli detenuti e tramettere ai tribunali di Sorveglianza perché valutassero la compatibilità della detenzione in questo momento di rischio, di questa nota la Direzione nazionale antimafia ha appreso l'esistenza solo il 21 aprile». E, per quanto riguarda i boss in 41 bis, aggiunge de Raho, «non si comprende perché ci fosse questa preoccupazione si tratta di detenuti in isolamento e dunque impossibili da contagiare, bastava un termo scanner». Tra i fuoriusciti c'è Francesco Bonura, il colonnello di Bernardo Provenzano condannato in via definitiva per mafia, che è potuto tornare a casa perché «in carcere il rischio contagio coronavirus è più alto», scrive nel provvedimento di scarcerazione il magistrato del tribunale di Sorveglianza. La toga riporta il quadro clinico dell'anziano boss e sottolinea i presupposti «per il differimento facoltativo dell'esecuzione della pena», anche «tenuto conto dell'attuale emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio». E nell'elenco di chi comincia a spingere ci sono anche i gruppi romani: gli esponenti del clan Spada, dei Casamonica e dei Fasciani.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-caporetto-totale-dei-manettari-quasi-500-galeotti-vogliono-uscire-2645945781.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="intanto-il-decreto-tampone-e-per-aria-stiamo-ragionando-serve-cautela" data-post-id="2645945781" data-published-at="1588877265" data-use-pagination="False"> Intanto il decreto-tampone è per aria.«Stiamo ragionando, serve cautela» «Adelante Pedro, ma con juicio». Sì, viene proprio in mente Antonio Ferrer, il cancelliere spagnolo di Milano che nei Promessi sposi sprona il cocchiere ad avanzare tra la folla inferocita per la fame, ma senza correre. Allo stesso modo, il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, mercoledì ha annunciato alla Camera un decreto per chiudere in poche ore la stagione delle scarcerazioni per motivi sanitari dei boss mafiosi, e le polemiche che ha scatenato. Ma è stato un bluff. Perché per quel decreto, così «urgente», ci vorrà molto tempo. E anche molto juicio. Due giorni fa, Bonafede aveva spiegato ai deputati che il nuovo decreto, «in cantiere» e quindi imminente, avrebbe permesso ai Tribunali di sorveglianza «di rivalutare la persistenza dei presupposti per le scarcerazioni dei detenuti di alta sicurezza e al 41 bis (il regime di detenzione speciale, riservato ai reclusi di mafia e particolarmente pericolosi, ndr)». Quel decreto, insomma, avrebbe riportato in un batter d'occhi tra le mura di una prigione i boss mafiosi Vincenzo Iannazzo, Francesco Bonura, Pasquale Zagaria e Vincenzo Di Piazza, usciti dall'isolamento del 41 bis, e tutti gli altri 372 pericolosi criminali che nelle ultime settimane - per motivi di salute e per il rischio Covid-19 - erano stati trasferiti da celle ad alta sicurezza agli arresti domiciliari. Bonafede aveva voluto annunciare quel decreto a tutti i costi, l'altro ieri, forse perché così sperava di stemperare la devastante querelle che da giorni lo oppone al magistrato antimafia Nino Di Matteo. Domenica sera, in tv, il pubblico ministero palermitano aveva accusato il ministro di avergli offerto nel 2018 la poltrona di capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, e di avergliela poi improvvisamente negata. Di Matteo aveva accostato la marcia indietro del ministro alle proteste dei mafiosi detenuti, contrariati alla sola ipotesi che il governo delle carceri finisse nelle sue mani. Instillando il dubbio che Bonafede si fosse piegato a una specie di «sgradimento mafioso». Per questo il Guardasigilli, dopo aver varato il 30 aprile un decreto che ha subordinato la scarcerazione di ogni detenuto «pericoloso» al vaglio preventivo della Procura nazionale antimafia, mercoledì aveva aggiunto al medagliere della sua «antimafiosità» il nuovo decreto per riportare in cella i 376 detenuti scarcerati. Per averlo annunciato, Bonafede era stato perfino criticato (con qualche ragione): la notizia dell'imminente giro di vite, infatti, avrebbe potuto suggerire la fuga a molti dei criminali usciti da una cella di sicurezza e chiusi in casa. Ieri, invece, s'è capito che siamo ancora in alto mare. Il sottosegretario pd alla Giustizia, Andrea Giorgis, ha invitato tutti a una serena attesa: «Questo decreto», ha detto, «non ha ancora un contenuto definito perché stiamo ragionando su come far sì che i Tribunali di sorveglianza possano rivedere le decisioni (sulle scarcerazioni, ndr) alla luce del cambiamento dell'andamento dell'epidemia, e su come preservare l'autonomia della magistratura e i capisaldi della Costituzione». Il sottosegretario ha spiegato poi che «serve cautela, perché ogni intervento deve rispettare l'armonia e l'equilibrio del sistema penalistico-processuale». Del resto, era chiaro che il brusco dietro-front postulato da Bonafede non sarebbe stato facile. Sempre ieri un giurista competente come Giovanni Tamburino, già presidente di Tribunali di sorveglianza e capo del Dap, ha escluso che il nuovo decreto Bonafede possa «avere l'effetto diretto di ripristinare il carcere, in quanto ogni decisione dovrà comunque passare il vaglio dell'autorità giudiziaria». Quindi per riportare in cella i 376 criminali occorrerà davvero molto tempo: prima bisognerà completare e varare il decreto-che-non-c'è, e poi si dovranno attendere i tempi dei tribunali. Si spera solo che mafiosi e criminali, nell'attesa, non prendano davvero la via della fuga. Sempre in tema di prigioni, ieri è girata un'altra voce, poi rivelatasi un bluff. La voce sosteneva che Francesco Basentini, l'ex capo del Dap costretto il 30 aprile alle dimissioni proprio per le polemiche seguite alle scarcerazioni dei boss, fosse stato cooptato da Bonafede nella task force per le carceri. Notizia inverosimile: uscito dalla porta, Basentini sarebbe rientrato dalla finestra? Va detto che, nel magico mondo di questo governo, tutto è possibile. Proprio come un decreto urgentissimo che, per il suo varo, richiede tempo. Molto tempo.
Da domani in Arabia Saudita al via la final four. A inaugurare il torneo saranno Milan e Napoli, in campo giovedì (ore 20 italiane) per la prima semifinale. Venerdì tocca a Inter e Bologna contendersi un posto nella finalissima di lunedì 22 dicembre.
Il primo trofeo della stagione si assegna ancora una volta lontano dall’Italia. Da domani la Supercoppa entra nel vivo a Riyadh con la formula della final four: giovedì la semifinale tra Milan e Napoli, venerdì quella tra Inter e Bologna, lunedì 22 dicembre la finale che chiuderà il programma e consegnerà il titolo.
Riyadh si prepara ad accogliere di nuovo la Supercoppa italiana,. Tre partite secche, quattro squadre e una posta che va oltre il campo: Napoli, Inter, Milan e Bologna portano in Arabia Saudita storie diverse, ambizioni opposte e un equilibrio che negli ultimi anni ha reso la competizione meno scontata di quanto dicano le statistiche.
Il Napoli arriva da campione d’Italia, il Bologna da vincitore della Coppa Italia, l’Inter da seconda forza del campionato e il Milan da detentore del trofeo. È soltanto la terza edizione con il formato a quattro, ma è già sufficiente per raccontare una Supercoppa che ha cambiato volto: nelle ultime due stagioni hanno vinto squadre che non partivano con lo scudetto cucito sul petto, un’inversione rispetto a una tradizione che per decenni aveva premiato quasi sempre i campioni d’Italia.
Proprio il Milan è il simbolo di questo ribaltamento. Campioni in carica, i rossoneri hanno spezzato una serie di finali perse all’estero e hanno riscritto la storia della manifestazione vincendo prima da finalista di Coppa Italia e poi da seconda classificata in campionato. In Arabia Saudita tornano con l’obiettivo di agganciare la Juventus in vetta all’albo d’oro, dove oggi i bianconeri comandano con nove successi, uno in più di Inter e Milan.
Il primo incrocio, giovedì 18 dicembre, è contro il Napoli. Gli azzurri inseguono invece un ritorno al passato: l’ultima Supercoppa vinta risale al 2014, una finale rimasta negli archivi per durata e tensione. Da allora, tentativi falliti e una presenza costante tra semifinali e finali mancate. Per la squadra di Antonio Conte, il confronto con il Milan è anche un passaggio chiave per evitare una prima volta storica: mai la squadra campione d’Italia in carica è rimasta fuori dall’atto conclusivo della competizione.
Dall’altra parte del tabellone, Inter e Bologna. I nerazzurri sono ormai una presenza abituale nella Supercoppa a quattro, protagonisti nelle ultime due edizioni e detentori di record individuali che raccontano la continuità del loro percorso. Il Bologna, invece, vivrà un esordio assoluto: sarà il tredicesimo club a partecipare alla manifestazione, chiamato subito a misurarsi con una dimensione internazionale che rappresenta una novità anche simbolica per il club. Negli ultimi anni la Supercoppa si è decisa spesso senza supplementari e rigori, ma resta una competizione capace di ribaltare copioni già scritti. Lo dimostrano le rimonte, i gol decisivi negli ultimi minuti e una storia che, pur ricca di record individuali e panchine vincenti, continua a sorprendere.
Fuori dal campo, la tappa di Riyadh diventa anche una vetrina per il calcio italiano. La Lega Serie A ha annunciato iniziative dedicate all’inclusione di tifosi con disabilità sensoriali, che accompagneranno tutte le partite del torneo. Da un lato, l’utilizzo di una mappa tattile interattiva permetterà a tifosi ciechi e ipovedenti di seguire l’andamento della gara attraverso il tatto; dall’altro, magliette sensoriali trasformeranno i suoni dello stadio in vibrazioni per tifosi sordi. Un progetto che coinvolgerà complessivamente trenta spettatori per ciascuna iniziativa, inserendosi nel programma ufficiale della competizione.
A rappresentare visivamente la Supercoppa sarà invece il nuovo Trophy travel case, realizzato dal brand fiorentino Stefano Ricci. Un baule pensato per accompagnare il trofeo nelle tappe internazionali, simbolo di un’italianità che la Serie A continua a esportare all’estero, soprattutto in Medio Oriente, dove la Supercoppa si gioca per il quarto anno consecutivo.
Il calcio d’inizio è fissato. A Riyadh non si gioca soltanto una coppa, ma un racconto che intreccia campo, storia recente e immagine del calcio italiano nel mondo. E, come spesso accade in Supercoppa, i numeri potrebbero non bastare per spiegare come andrà a finire.
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(Apple Tv)
Non è affatto detto che sia così perché, dietro l’obiettivo di rovesciare le formule della fantascienza, si nasconde l’ambizione di una riflessione sul rapporto tra benessere collettivo e libertà individuale, tra felicità globale e identità personale. Il tutto proposto con grande cura formale, ottime musiche e qualche lungaggine autoriale. Possibili, lontani, riferimenti: Lost, per i prologhi spiazzanti e i flashback, Truman Show, per la solitudine e l’apparenza stranianti, Black Mirror, per la cornice distopica. Ma la mano dell’ideatore è inconfondibile.
Ci troviamo ad Albuquerque, la città del New Mexico già teatro dei precedenti plot di Gilligan, ma stavolta la vicenda è tutt’altra. Siamo in un futuro progredito e un certo rigore si è già radicato nella quotidianità. Per esempio, l’avviamento delle auto di ultima generazione è collegato alla prova di sobrietà del palloncino: se si è stati al pub, l’auto non parte. Individuato da un gruppo di astronomi, un virus Rna proveniente dallo spazio, trasmesso in laboratorio da un topo e contagiato tramite baci e alimenti, rende gli esseri umani felici, gentili e samaritani con il prossimo. Le persone agiscono come un’unica mente collettiva, ma non a causa di un’invasione aliena, tipo L’invasione degli ultracorpi, bensì per il fatto che «noi siamo noi», garantisce un politico che parla dalla Casa Bianca, anche se non è il presidente. «Gli scienziati hanno creato in laboratorio una specie di virus, più precisamente una colla mentale capace di tenerci legati tutti insieme». In questo mondo, non esiste il dolore, non si registrano reati, le prigioni sono vuote, le strade non sono mai congestionate, regna la pace. Tutto è perfetto e patinato, perché la contraddizione non esiste. Debellata, dietro una maschera suadente. La colla mentale dispone alla benevolenza e alla correttezza le persone. Che però non possono scegliere, ma agire solo in base a un «imperativo genetico». Soltanto 12 persone in tutto il Pianeta sono immuni al contagio. Ma mentre undici sembrano disposte a recepirlo, l’unica che si ribella è Carol Sturka (Reha Seehorn), una scrittrice di romanzi per casalinghe sentimentali. Cinica, diffidente, omosex e discretamente testarda, malgrado vicini, conoscenti e certi soccorritori ribadiscano le loro buone intenzioni - «vogliamo solo renderti felice» - lei non vuole assimilarsi ed essere rieducata dal virus dei buoni. I quali, ogni volta che lei respinge bruscamente le loro attenzioni, restano paralizzati in strane convulsioni, alimentando i suoi sensi di colpa. Il prezzo della libertà è una solitudine sterminata, addolcita dal fatto che, componendo un numero di telefono, può vedere esaudito ogni desiderio: cibi speciali, cene su terrazze panoramiche, giornate alle terme, Rolls Royce fiammanti. Quando si imbatte in qualche complicazione è immediatamente soccorsa da Zosia (Karolina Wydra), volto seducente della mente collettiva, o da un drone, tempestivo nel recapitarle a domicilio la più bizzarra delle richieste. A Carol è anche consentito di interagire con gli altri umani esenti dal contagio. Che però non condividono il suo progetto di ribellione alla felicità coatta: tocca a noi riparare il mondo. «Perché? La situazione sembra ideale, non ci sono guerre, viviamo tranquilli», ribatte un viveur che sfrutta ogni lusso e privilegio concesso dalla mente collettiva.
L’idea di questa serie risale a circa otto o nove anni fa, ha raccontato Gilligan in un’intervista. «In quel periodo io e Peter Gould (il suo principale collaboratore, ndr.) avevamo iniziato a lavorare a Better Call Saul e ci divertivamo parecchio. Durante le pause pranzo avevo l’abitudine di vagare nei dintorni dell’ufficio immaginando un personaggio maschile con cui tutti erano gentili. Tutti lo amavano e non importa quanto lui potesse essere scortese, tutti continuavano a trattarlo bene». Poi, nella ricerca del perché di questa inspiegabile gentilezza, la storia si è arricchita e al posto di un protagonista maschile si è imposta la figura della scrittrice interpretata da Reha Seehorn, già nel cast di Better Call Saul. Su di lei, a lungo sola in scena, si regge lo sviluppo del racconto. A un certo punto, provata dalla solitudine, ma senza voler smettere d’indagare anche perché incoraggiata dalle prime inquietanti scoperte, Carol cambia strategia, smorzando la sua ostilità…
Il titolo della serie deriva da «E pluribus unum», cioè «da molti, uno», antico motto degli Stati Uniti, proposto il 4 luglio 1776 per simboleggiare l’unione delle prime 13 colonie in una sola nazione. Gilligan ha trasferito la suggestione di quel motto a una dimensione esistenziale e filosofica, inscenando una sorta di apocalisse dolce per riflettere sulla problematica convivenza tra singolo e collettività. Per questo, in origine, Plur1bus era scritto con l’1 al posto della «i».
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Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Questo allentamento delle norme consente che nuove auto con motore a combustione interna possano ancora essere immatricolate nell’Ue anche dopo il 2035. Non sono previste date successive in cui si arrivi al 100% di riduzione delle emissioni. Il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha naturalmente magnificato il ripensamento della Commissione, affermando che «mentre la tecnologia trasforma rapidamente la mobilità e la geopolitica rimodella la competizione globale, l’Europa rimane in prima linea nella transizione globale verso un’economia pulita». Ursula 2025 sconfessa Ursula 2022, ma sono dettagli. A questo si aggiunge la dichiarazione del vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné, che ha definito il pacchetto «un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea». Peccato che, in conferenza stampa, a nessuno sia venuto in mente di chiedere a Séjourné perché si sia arrivati alla necessità di un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea. Ma sono altri dettagli.
L’autorizzazione a proseguire con i motori a combustione (inclusi ibridi plug-in, mild hybrid e veicoli con autonomia estesa) è subordinata a condizioni stringenti, perché le emissioni di CO2 residue, quel 10%, dovranno essere compensate. I meccanismi di compensazione sono due: 1) utilizzo di e-fuel e biocarburanti fino a un massimo del 3%; 2) acciaio verde fino al 7% delle emissioni. Il commissario Wopke Hoekstra ha spiegato infatti che la flessibilità è concessa a patto che sia «compensata con acciaio a basse emissioni di carbonio e l’uso di combustibili sostenibili per abbattere le emissioni».
Mentre Bruxelles celebra questa minima flessibilità come una vittoria per l’industria, il mondo reale offre un quadro ben più drammatico. Ieri Volkswagen ha ufficialmente chiuso la sua prima fabbrica tedesca, la Gläserne Manufaktur di Dresda, che produceva esclusivamente veicoli elettrici (prima la e-Golf e poi la ID.3). Le ragioni? Il rallentamento delle vendite di auto elettriche. La fabbrica sarà riconvertita in un centro di innovazione, lasciando 230 dipendenti in attesa di ricollocamento. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Ford Motor Co. ha annunciato che registrerà una svalutazione di 19,5 miliardi di dollari legata al suo business dei veicoli elettrici. L’azienda ha perso 13 miliardi nel suo settore Ev dal 2023, perdendo circa 50.000 dollari per ogni veicolo elettrico venduto l’anno scorso. Ford sta ora virando verso ibridi e veicoli a benzina, eliminando il pick-up elettrico F-150 Lightning.
La crisi dell’auto europea non si risolve certo con questa trovata dell’ultima ora. Nonostante gli sforzi e i supercrediti di CO2 per le piccole auto elettriche made in Eu, la domanda di veicoli elettrici è debole. Questa nuova apertura, ottenuta a fatica, non sarà sufficiente a salvare il settore automobilistico europeo di fronte alla concorrenza cinese e al disinteresse dei consumatori. Sarebbe stata più opportuna un’eliminazione radicale e definitiva dell’obbligo di zero emissioni per il 2035, abbracciando una vera neutralità tecnologica (che includa ad esempio i motori a combustione ad alta efficienza di cui parlava anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz). «La Commissione oggi fa un passo avanti verso la razionalità, verso il mercato, verso i consumatori ma servirà tanto altro per salvare il settore. Soprattutto servirà una Commissione che non chiuda gli occhi davanti all’evidenza», ha affermato l’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi, anche presidente dell’Automotive Regions Alliance. La principale federazione automobilistica tedesca, la Vda, ha detto invece che la nuova linea di Bruxelles ha il merito di riconoscere «l’apertura tecnologica», ma è «piena di così tanti ostacoli che rischia di essere inefficace nella pratica». Resta il problema della leggerezza con cui a Bruxelles si passa dalla definizione di regole assurde e impraticabili al loro annacquamento, dopo che danni enormi sono stati fatti all’industria e all’economia. Peraltro, la correzione di rotta non è affatto un liberi tutti. La riduzione del 100% delle emissioni andrà comunque perseguita al 90% con le auto elettriche. «Abbiamo valutato che questa riduzione del 10% degli obiettivi di CO2, dal 100% al 90%, consentirà flessibilità al mercato e che circa il 30-35% delle auto al 2035 saranno non elettriche, ma con tecnologie diverse, come motori a combustione interna, ibridi plug-in o con range extender» ha detto il commissario europeo ai Trasporti Apostolos Tzizikostas in conferenza stampa. Può darsi che sarà così, ma il commissario greco si è dimenticato di dire che quasi certamente si tratterà di auto cinesi.
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