
Il piatto è un pilastro della dieta mediterranea, ma è ben conosciuto in tutto il mondo. Generalmente si fa col frumento, però le alternative (non da oggi) sono moltissime. E colorate.Si celebra il 25 ottobre il World Pasta Day: il 25 ottobre del 1995, 28 anni fa, infatti, si tenne a Roma il World Pasta Congress, che ospitava pastai di tutto il mondo, nel quale si decise di celebrare ogni anno a partire da allora la Giornata Mondiale della Pasta, un alimento cardine della dieta mediterranea, ma anche della dieta di Paesi non appartenenti all’area mediterranea, pensiamo, per esempio, alla Cina. Ma se c’è una nazione che più di tutte è legata a doppio filo o forse dovremmo dire a doppio spaghetto alla tradizione della pasta, beh, è certamente la nostra. Lettura ideale per questa ricorrenza è il bel libro pubblicato dai tipi di Edizioni Lswr, La tua pasta fresca fatta in casa di Natalia Picciocchi, laureata in Scienze della produzione animale, esperta di qualità e conservazione degli alimenti, appassionata di cucina e cibo sano che potete anche seguire sul web all’indirizzo, attivo dal 2010, fusillialtegamino.blogspot.it e che con lo stesso editore ha pubblicato anche Il tuo orto in cucina in primavera e in estate, Il tuo orto in cucina in autunno e in inverno e Gli irrinunciabili. Il piacere del fatto in casa. Si tratta di un testo che se da una parte ricorda la nascita assolutamente artigianale della pasta, dall’altra affronta tematiche molto attuali come la necessità di adeguare la pasta a chi, per esempio, non può mangiarla perché celiaco. Oppure, a chi vuol diminuire la quota farinacea della pasta per introdurne una proteica di origine leguminosa tramite le cosiddette farine di legumi. E che risponde a molte domande: quali sono le farine da utilizzare per preparare, in casa, la pasta fresca? Quali sono le farine non di frumento che si possono adoperare? Quali quelle senza glutine? Come preparare e mixare le farine senza glutine per pastificare? Come realizzare in casa quelle di legumi? Ancora, come fare la pasta colorata oppure come farla con farine senza glutine e senza uova. Un vero e proprio viaggio conoscitivo nell’universo non proprio piccolo della pasta. Cominciando dal principio, la pasta è un prodotto che deriva dalle farine di frumento, cioè il grano duro o il grano tenero. Frumento, infatti, è il grano. Stanno diventando però sempre più diffuse paste fatte con farine che non sono di frumento. Spesso non si tratta di una conquista contemporanea, perché in passato laddove il frumento era più scarso si sono sempre usate farine alternative, da quella di mais a quella di ceci passando per quella di castagne che, come spiega la Picciocchi, è una discreta fonte di proteine, ma soprattutto di carboidrati e lipidi: ha un ottimo contenuto di sali minerali, quali potassio, fosforo, ferro e calcio, ha un buon contenuto di vitamine, soprattutto B1, B2 e PP, è priva di glutine, quindi adatta all’alimentazione delle persone affette da celiachia. La differenza con oggi, però, è che siamo molto più consapevoli di problematiche che impongono di mangiare paste o pani alternativi, come la celiachia, oppure siamo più attenti alla linea e andiamo cercando paste con un contenuto proteico maggiore per abbassare la quota glucidica della pasta di grano tenero o duro (senza però tenere conto, spesso, del fatto che il legume aumenta la quota lipidica, ne abbiamo scritto sul pezzo dedicato ai cibi proteici su La Verità del 7 agosto scorso). Quelli che di solito identifichiamo come «i carboidrati, cioè pasta, riso, pane, principalmente, non contengono solo carboidrati, ma anche proteine vegetali. In 100 grammi di farina di frumento tenero (Triticum aestivum) di tipo 0, con cui facciamo il pane, troviamo circa 340 calorie, 14 g di acqua, 11 g di proteine, 1 g di lipidi, 76 g di carboidrati, di cui 67 g di amido e 1,8 g di zuccheri, 2,9 g di fibre. In 100 g di farina di ceci, invece, troviamo circa 334 calorie e 13 g di acqua, 21,8 di proteine, 4,7 g di lipidi (di cui 0,63 g di grassi saturi, 1,36 g monoinsaturi e 2,69 g polinsaturi), 54,3 g di carboidrati di cui 50,6 g di amido e 3,7 g di zuccheri, 13,8 g di fibre. In 100 grammi di semola di grano duro, con cui facciamo la pasta, troviamo 312 calorie e 11 g di acqua, 13 g di proteine, 3 g di lipidi, 63 g di carboidrati, 54 g di amido, 3,2 g di zuccheri, 9,8 g di fibre. Le calorie di farina di grano tenero e farina di ceci sono pressoché uguali, mentre cambiano le proteine e i lipidi che nella farina di ceci sono entrambi di più. Nella farina di ceci abbiamo poi leggermente meno carboidrati e amido ma aumentano gli zuccheri e sono di più anche le fibre. Sono maggiori anche i sali minerali e le vitamine. Il grano duro ha più proteine del grano tenero ma ne ha meno dei ceci, stessa posizione mediana tra i due per i carboidrati e i lipidi. Se dal punto di vista dei valori nutrizionali possiamo quindi definire la farina di ceci abbastanza alternativa a quella di cereali, anche se bisogna tener conto della maggiore quota di lipidi, non possiamo assolutamente considerarla perfettamente alternativa alla carne. Se prendiamo 100 g di petto di pollo, infatti, abbiamo 110 calorie, 74,9 acqua, 23,3 g di proteine, 0,8 g di grassi e 0 di carboidrati. In ogni caso, queste nuove paste hanno un mercato e non sempre sono economicissime, ecco perché il libro di Natalia Picciocchi risulta essere molto utile se si vuole autoprodurre in casa la propria pasta. Le farine che devono essere evitate dai celiaci al pari di quelle di grano tenero e duro sono quelle che contengono glutine come il farro, la segale e l’orzo. La farina di farro è abbastanza simile a quella di frumento, essendo il farro un antenato del frumento e derivando la parola farina proprio da farro, contiene buone quantità di un aminoacido essenziale carente negli altri cereali, la metionina, oltre a vitamine A, E, C e del gruppo B. Con segale e orzo di solito non si fanno paste, ma pani. Ci sono poi i cereali che sono naturalmente privi di glutine: riso, mais, grano saraceno, miglio, amaranto, quinoa, teff e sorgo, o amidacei, come le patate e la manioca, i quali possono essere usati per pastificare, spesso in aggiunta ad altre farine oppure con un addensante che sopperisca all’assenza di glutine. Il riso è il cereale senza glutine più diffuso al mondo, ha una digeribilità molto facile e aiuta in caso di gonfiore. Il mais, giunto da noi dopo la scoperta dell’America, è poi diventato un caposaldo della nostra dieta, usato tradizionalmente per polente e recentemente per pastificare. È leggero e nutriente, tanto che le creme di mais sono tra le prime pappe date ai bimbi per lo svezzamento e per realizzare la pasta fresca fatta in casa può essere miscelata con la farina di riso, la fecola di patate oppure con la farina di amaranto e quella di quinoa facilita il rallentamento dell’assorbimento degli zuccheri, contribuendo, così, a mantenere bassi i livelli di glicemia nel sangue. Grazie alle sue proprietà contribuisce inoltre a tenere bassi i valori di colesterolo Ldl, cosiddetto «cattivo». Il grano saraceno, molto diffuso in Valtellina, è una pianta molto amata dai celiaci e non solo: insieme col mais dà luogo alla polenta taragna, si pastifica tradizionalmente negli sciatt, sorta di grosse tagliatelle, ma ora riscuote successo anche come sostituto delle farine glutiniche in ricette di pasta di solito glutinica. L’amaranto è una pianta molto proteica, ricca di amminoacidi e molto facile da digerire, quindi adatta sia ai bimbi in svezzamento sia a chi ha problemi di difficoltà digestiva. Per pastisficare, spiega la Picciocchi, si può miscelare con farina di mais, fecola di patate, amido di mais, con farina di riso, con farina di quinoa e con quella di tapioca. La quinoa ha un elevato contenuto di proteine, ad elevato valore biologico, ha una forte presenza di vitamine B2, C ed E, è ricca di fibre e di sali minerali come calcio, selenio, fosforo, ferro, potassio, magnesio e zinco e può essere utilizzata da sola oppure miscelata ad altre farine sempre senza glutine. La manioca è un arbusto originario dell’America centro-meridionale, se ne mangiano le radici che sono tuberi simili alle patate, molto amidacei, come le patate non vanno mangiate crude (meno che mai la manioca amara) ed è meglio sbucciarle. Il teff, cereale di origine etiopica/eritrea, contiene molte fibre, sali minerali e vitamina C a fronte di un indice glicemico molto basso. Il sorgo è fibroso, digeribilissimo e nutriente. E poi ci sono le farine di legumi, naturalmente prive di glutine, ottenute dalla macinazione dei legumi, con le quali si possono preparare anche in casa paste: «Da sole si prestano per preparare le crespelle colorate mentre per realizzare la pasta fresca all’uovo queste farine devono essere miscelate alla farina di riso, così da ridurre la quantità di Xantano da introdurre nel mix. Per preparare queste farine in casa è sufficiente risciacquare accuratamente i semi essiccati per poi farli asciugare per bene. La macinazione può essere preceduta o meno da una leggera tostatura». Il libro risponde anche ad altre domande, per esempio come fare la pasta colorata. L’impasto base può essere colorato con una serie di ingredienti naturali quali ortaggi, spezie e aromi. Nella realizzazione delle paste colorate bisogna tenere presente che, aggiungendo l’ingrediente colorante, la consistenza dell’impasto cambia. Nel caso degli ortaggi, che sono ricchi di acqua, bisogna fare molta attenzione al loro metodo di cottura e a come vengono adoperati: «Ove possibile consiglio la cottura al forno di zucca, carote e barbabietola, che tra l’altro preserva al meglio le caratteristiche qualitative/nutrizionali di questi ortaggi, ma soprattutto il loro sapore resta più intenso». Per esempio, per ottenere della pasta verde si possono usare gli spinaci: 400 g di spinaci o bietole freschi sbollentati o cotti al vapore, strizzati per bene e passati al setaccio o tritati finemente, 2 uova e 400 g di farina. Per la pasta giallo/arancio, 200 g di purea di zucca prima cotta al forno e poi passata al passaverdura, 200 g di farina e 1 uovo.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
iStock
Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
Continua a leggereRiduci
Fabio Giulianelli (Getty Images)
L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».