2025-07-07
Isis e nuove milizie. Se la Siria esplode rischiamo anche noi
L'attentato alla chiesa di Damasco del 22 giugno (Ansa)
L’attentato alla chiesa di Damasco è opera di un gruppo appena nato. I negoziati con Israele e le ambiguità del leader Al Sharaa.L’esperta Elisa Garfagna: «Oggi lo Stato islamico si concentra su Africa e Medio Oriente. I terroristi sfruttano l’Intelligenza artificiale e la conoscenza dei social. Il loro target sono gli adolescenti. Obiettivo: radicalizzare e reclutare».Nell’agosto 2023 lo Stato islamico ha annunciato l’insediamento di un nuovo comandante: Abu Hafs al-Hashimi al-Qurashi. La nomina è stata resa pubblica tramite un messaggio audio diffuso dalla macchina propagandistica jihadista, nel quale il nuovo portavoce del gruppo, Abu Hudhayfah al-Ansari, ha proclamato la sua lealtà al nuovo «califfo».Lo speciale contiene tre articoli.Il canale libanese Lbci ha riferito domenica scorsa, citando fonti a conoscenza degli sviluppi in Siria, sulle condizioni poste da Damasco per un accordo di pace con Israele. Secondo il rapporto, le condizioni includono il riconoscimento israeliano del regime del presidente siriano Ahmed al-Sharaa, il ritiro dai territori conquistati da Israele dallo scorso dicembre e dalla zona cuscinetto del Golan, la cessazione degli attacchi aerei israeliani in Siria e accordi di sicurezza nella Siria meridionale, in particolare lungo il confine e la zona trifrontaliera con la Giordania. Ma la cosa più importante, secondo il rapporto, è che la Siria pretende dagli Stati Uniti garanzie per gli accordi e il sostegno americano al regime siriano. In cambio, la Siria riconoscerebbe la sovranità israeliana sulle alture del Golan. Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar ha annunciato l’interesse di Gerusalemme a estendere gli accordi di «pace e normalizzazione» anche a Siria e Libano. «Israele intende ampliare il perimetro degli Accordi di Abramo», ha affermato Saar in conferenza stampa, facendo riferimento agli storici patti mediati dagli Stati Uniti e siglati nel 2020 con Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco. «Vogliamo includere altri Paesi, come la Siria e il Libano, nel processo di pace e normalizzazione, garantendo al contempo la tutela degli interessi fondamentali e della sicurezza nazionale di Israele», ha concluso il ministro. Tutto avviene mentre un’inchiesta approfondita firmata da Reuters ha svelato nuovi dettagli inquietanti sull’uccisione sistematica di circa 1.500 cittadini siriani di etnia alawita, avvenuta nel corso di una violenta offensiva mirata lungo la costa mediterranea tra il 7 e il 9 marzo 2025. Secondo quanto emerso, gli attacchi sarebbero stati orchestrati da milizie riconducibili al nuovo governo siriano, attraverso una catena di comando che, secondo il rapporto, risalirebbe fino agli apparati centrali del potere a Damasco. Nonostante la gravità delle violenze documentate, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che dispone la revoca totale delle sanzioni americane nei confronti della Siria, seguendo la linea già intrapresa in precedenza anche dall’Ue. Secondo quanto comunicato ufficialmente dalla Casa Bianca, la misura è subordinata a una serie di impegni vincolanti che Damasco dovrà rispettare: l’espulsione di tutte le fazioni terroristiche palestinesi presenti sul proprio territorio, l’avvio di un processo di normalizzazione diplomatica con Israele e l’assunzione del controllo diretto sulle carceri in cui sono detenuti oltre 10.000 combattenti dello Stato islamico. Tali condizioni pongono sfide considerevoli per il governo guidato da al-Sharaa che, sebbene abbia adottato un profilo esteriore più moderato – «si è accorciato la barba», notano alcuni osservatori – resta, per molti analisti internazionali, profondamente radicato nell’ideologia jihadista. Premesso che la pacificazione tra Israele e Siria è ancora lontana, un accordo di queto tipo non piace allo Stato islamico e al nuovo gruppo jihadista siriano chiamato Saraya Ansar al-Sunna (Squadroni dei sostenitori della Sunna), autore dell’attacco kamikaze in una chiesa cristiana qualche giorno fa a Damasco. Nonostante la perdita del controllo territoriale nel 2019 e l’eliminazione di buona parte del suo vertice, lo Stato islamico continua a costituire un pericolo concreto e duraturo nell’area siriana. Le più recenti valutazioni, provenienti da fonti delle Nazioni Unite e istituti di ricerca internazionali, stimano che il gruppo conti attualmente tra i 5.000 e i 7.000 combattenti attivi distribuiti tra Siria e Iraq. In quest’ultimo Paese, i jihadisti presenti nelle aree desertiche sarebbero meno di mille. Questi combattenti operano in piccole unità mobili, principalmente nelle zone aride della Siria orientale, in particolare nelle province di Deir Ezzor, Homs e Hama. Sfruttano l’assenza di un’autorità stabile, effetto collaterale della guerra civile, e le tensioni irrisolte tra il regime siriano, le forze curde e la coalizione internazionale a guida statunitense. Secondo gli analisti dell’International Centre for Counter-Terrorism (Icct), l’organizzazione ha rivoluzionato la propria strategia: ha abbandonato il modello di esercito regolare in favore di un’insurrezione armata, puntando su attentati mirati, azioni di sabotaggio e attacchi contro le truppe governative siriane, le milizie curde delle Forze democratiche siriane (Sdf) e bersagli civili. Le operazioni vengono pianificate attraverso una struttura di comando non centralizzata, che si avvale di sistemi di comunicazione criptati e dell’esperienza militare accumulata in oltre un decennio di conflitto. A questa minaccia operativa si aggiunge un altro fronte d’allarme: la presenza di migliaia di jihadisti detenuti in carceri e campi di prigionia nel nord-est della Siria, sotto sorveglianza curda. Secondo le stime fornite dalle Sdf, oltre 10.000 membri dello Stato islamico — inclusi numerosi stranieri — sono rinchiusi in strutture spesso precarie e sovraffollate. A questi si aggiungono circa 60.000 donne e minori legati al gruppo, confinati nel solo campo di Al-Hol, da tempo considerato un epicentro potenziale di nuova radicalizzazione jihadista. La destabilizzazione della Siria non è che una delle preoccupazioni delle intelligence occidentali dato che l’Africa e il Sahel sono il campo di battaglia dell’Isis e di al-Qaeda che si sfidano sulla pelle dei civili per la supremazia. Qui i numeri sono spaventosi perché secondo recenti stime i vari gruppi locali dell’Isis possono contare su almeno 10.000/15.000 miliziani mentre al-Qaeda si attesterebbe attorno ai 16.000 uomini (circa 8.000 solo in Somalia con gli Shaabab). Tutto questo è più vicino a noi di quanto possiamo immaginare perché attraverso le rotte dei migranti (come visto molte volte), arrivano in Europa uomini preparati alla guerra che possono contare su importanti appoggi locali. Il pericolo jihadista nell’Unione europea non è mai venuto meno, come mostra l’ultimo rapporto di Europol 2025 che analizza l’evoluzione del terrorismo nell’Unione europea, offrendo una sintesi dettagliata su attentati, operazioni di polizia e sentenze legate al jihadismo, all’estremismo di destra e sinistra, a moventi etno-nazionalisti e ad altre forme di violenza ideologica. Nel corso del 2024, 14 Paesi Ue hanno registrato complessivamente 58 episodi di matrice terroristica: 34 portati a termine, 5 falliti e 19 neutralizzati prima di entrare in fase operativa. Nello stesso periodo, sono stati effettuati 449 arresti in 20 Stati dell’Unione. Particolarmente preoccupante è il dato anagrafico degli indagati: circa un terzo degli arrestati per reati legati al terrorismo era composto da minorenni o giovani appena maggiorenni. Il caso più eclatante riguarda un ragazzo di soli 12 anni, coinvolto in un’indagine per aver partecipato all’organizzazione di un attacco terroristico. E questa è la notizia più brutta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/isis-pericolo-2672840250.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="meno-propaganda-contro-leuropa-ma-e-solo-un-ripiegamento-tattico" data-post-id="2672840250" data-published-at="1751891798" data-use-pagination="False"> «Meno propaganda contro l’Europa, ma è solo un ripiegamento tattico» Elisa Garfagna, esperta di comunicazione, studia la propaganda jihadista sul web.Lo Stato islamico almeno a livello di propaganda sembra essere meno interessato all’Europa. È così?«Nel giugno 2024, un’operazione internazionale coordinata da Europol ed Eurojust col supporto delle forze di sicurezza europee e Usa, ha portato allo smantellamento della Fondazione I’lam, considerata una delle principali infrastrutture mediatiche online al servizio dello Stato islamico. L’organizzazione curava la creazione, la gestione e la diffusione di contenuti propagandistici, promuovendo il jihadismo e incitando al terrorismo su scala globale. Attraverso siti web, social, radio e una agenzia di stampa, I’lam veicolava messaggi in oltre 30 lingue, alimentando la narrativa dello Stato islamico in tutto il mondo. La rete si avvaleva di una sofisticata architettura tecnologica, progettata per ostacolare il tracciamento e garantire resilienza operativa. I server sono stati individuati e disattivati in Germania, Paesi Bassi, Usa e Islanda e sono state arrestate nove persone. Per l’Isis il colpo è stato durissimo e oggi, almeno per il momento, la scelta è quella di diffondere sul dark web il loro sito privilegiando contenuti su Africa, Siria e Iraq. Questo non vuole dire che l’Isis non si interessi all’Europa ma si tratta, almeno nella propaganda, di un ripiegamento tattico interrotto durante i grandi eventi, ad esempio quelli sportivi, per minacciare attentati o chiedere ai cosiddetti «lupi solitari» di entrare in azione».Come si articola la propaganda di Hamas?«Hamas impiega una strategia comunicativa estremamente mirata, calcolata al millimetro curando soprattutto la potenziale influenza in Europa. La loro propaganda si basa su tre punti principali. Il primo è la narrazione della sofferenza umana, dipingendo le operazioni israeliane come «genocidio» o «pulizia etnica». Questo viene fatto con lo scopo di suscitare empatia e indignazione, sfruttando immagini e video di civili inermi. Il secondo punto è quello di diffondere accuse di assedio, colonizzazione e carestia, attribuendone la colpa interamente a Israele, al fine di presentarlo come un oppressore disumano. Questi messaggi vengono poi capillarmente diffusi tramite piattaforme come X, Telegram e TikTok per raggiungere un pubblico molto ampio. Il rilascio degli ostaggi è spesso trasformato in uno spettacolo altamente coreografato: l’intento è di trasmettere un’immagine «umanitaria» dei terroristi di Hamas e contemporaneamente offuscare la propria brutalità. Il terzo punto è la demonizzazione di Benjamin Netanyahu che viene dipinto come un leader sanguinario per personalizzare il conflitto e proiettarlo su un unico individuo che diviene bersaglio e polarizzare così meglio l’opinione pubblica».Quanto uso fanno i propagandisti di Hamas dell’Intelligenza artificiale?«I propagandisti di Hamas stanno studiando sempre di più le potenzialità dell’Intelligenza artificiale (Ia) per migliorare la loro comunicazione, andando ben oltre la semplice generazione tramite prompt di immagini e video. L’Ia viene impiegata per generare grandi volumi di contenuti di testo e vocali in diverse lingue. Questo permette ad Hamas di aumentare in modo imponente la portata e l’efficacia del messaggio. Per non parlare della difficoltà sempre più crescente, di distinguere il vero dal falso. Un altro utilizzo dell’Ia è nell’automazione della diffusione sui social: bot e account falsi amplificano i messaggi con «mi piace», condivisioni e commenti, creando l’illusione di un consenso sempre più grande e simulando interazioni organiche tra utenti. L’Ia consente inoltre un targeting altamente personalizzato dei messaggi, analizzando i dati degli utenti per identificarne i punti deboli e adattare le campagne di comunicazione. Inoltre l’Ia può essere sfruttata per aggirare i sistemi di censura delle piattaforme, sviluppando contenuti che sfuggono ai controlli automatici».I gruppi terroristici puntano molto sugli adolescenti e sui bambini. «Tutti puntano strategicamente su adolescenti e bambini, facendo leva sulla loro vulnerabilità. Iniziano sempre col descrivere la propria comunità come vittima di ingiustizie, scatenando così un naturale senso di vendetta e resistenza all'oppressore. I terroristi esaltano figure di eroi e martiri, promettendo gloria e successo. In questo modo i giovani colmano il loro desiderio di identità e di appartenenza. Infine, il passaggio più subdolo è quello di usare contenuti moderni e molto impattanti a livello emozionale, che parlano direttamente il linguaggio dei giovani. Video perfetti, canzoni rap, elementi di gamification e meme, tutti progettati per essere condivisibili e virali su piattaforme come TikTok e Telegram. Questo approccio è molto ben studiato, è difficile ridurne la diffusione in modo tempestivo. Reclutare e radicalizzare: questo è lo scopo». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/isis-pericolo-2672840250.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="levoluzione-dei-seguaci-del-califfo-cambio-al-vertice-e-struttura-piu-decentrata" data-post-id="2672840250" data-published-at="1751891798" data-use-pagination="False"> L’evoluzione dei seguaci del «califfo». Cambio al vertice e struttura più decentrata Nell’agosto 2023 lo Stato islamico ha annunciato l’insediamento di un nuovo comandante: Abu Hafs al-Hashimi al-Qurashi. La nomina è stata resa pubblica tramite un messaggio audio diffuso dalla macchina propagandistica jihadista, nel quale il nuovo portavoce del gruppo, Abu Hudhayfah al-Ansari, ha proclamato la sua lealtà al nuovo «califfo». Sull’identità del leader si conosce ben poco. Il nome adottato - in linea con la tradizione dei vertici dell’Isis - è intenzionalmente enigmatico. L’epiteto «al-Hashimi al-Qurashi» ha un valore simbolico: richiama la stirpe del profeta Maometto e, secondo la dottrina salafita-jihadista, costituisce un requisito essenziale per la legittimazione alla guida dello Stato islamico. Abu Hafs è succeduto ad Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi, eliminato pochi mesi prima nel nord-ovest della Siria durante un’operazione riconducibile a milizie dell’opposizione siriana, la cui identità è stata poi confermata dalle autorità turche. In seguito alla sua uccisione, il Consiglio della Shura dell’organizzazione ha seguito il rituale canonico per selezionare il successore, un processo che oggi appare sempre più svuotato di effettivo peso decisionale.Per due anni Abu Hafs al-Hashimi al-Qurashi pur essendo una sorta di fantasma (non esistono audio o video di lui), è stato riconosciuto dalle agenzia di intelligence come il nuovo capo dei tagliagole dell’Isis, poi nel febbraio scorso una notizia ha rimescolato le carte. Un rapporto del team di monitoraggio delle sanzioni dell’Onu, basato su informazioni di intelligence fornite dagli Stati membri, rilancia l’ipotesi che Abdul Qadir Mumin, già a capo della filiale somala dello Stato islamico, possa essere il nuovo leader globale del gruppo jihadista. La figura di Mumin è da tempo considerata centrale nelle dinamiche operative dell’Isis su scala internazionale. In precedenza era stato indicato come responsabile della direzione generale delle province, con particolare influenza sulle affiliate africane. Ma nuove informazioni emerse a fine 2023 – e ritenute attendibili da alcuni funzionari del Comando Africa degli Stati Uniti – suggeriscono che Mumin ricopra in realtà il vertice assoluto dell’organizzazione.Tale analisi si sta diffondendo tra gli Stati membri dell’Onu, che osservano come lo Stato islamico stia ristrutturando il proprio apparato per rispondere alle mutate condizioni operative in Iraq e Siria. Il rapporto evidenzia un possibile spostamento di assetti strategici in nuove aree geografiche e un graduale passaggio verso una struttura di comando più decentralizzata. Non tutti, però, condividono questa visione. Alcuni governi giudicano improbabile che il gruppo rinunci al controllo delle sue tradizionali roccaforti mediorientali. Altri sollevano dubbi sulla legittimità religiosa di Mumin, in quanto non discendente diretto del profeta Maometto – elemento ritenuto essenziale dalla dottrina salafita-jihadista per guidare il cosiddetto califfato. Il rapporto Onu fornisce anche dettagli sulla base operativa di Abdul Qadir Mumin, identificata in un’area remota di Buur Dhexaad, nel cuore della catena montuosa Cal Miskaad, nel nord della Somalia. Si tratterebbe di un sistema ben articolato di grotte naturali e strutture fortificate che garantirebbero al gruppo una protezione strategica contro raid aerei: l’asperità del terreno e l’altitudine rendono difficile ogni incursione, offrendo un vantaggio tattico che rafforza la capacità di sopravvivenza dell’organizzazione.
Il ministro della Famiglia Eugenia Roccella (Ansa)
Giorgia Meloni e Donald Trump (Getty Images)
il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi (Ansa)