2025-10-14
Vince Donald, perdono l’Ue e i suoi ultrà
Il summit egiziano dà una chiara rappresentazione dei rapporti di forza attuali: oltre al leader di Washington, trionfano i dirigenti sunniti e le forze europee più pragmatiche. Bruxelles presente solo con Costa, Orbán ruba la scena a Sánchez.«La fase due è già iniziata». A Sharm El Sheikh non sono ancora arrivate le firme della fase uno che Donald Trump è già oltre, sbilanciato verso «la ricostruzione di Gaza, la rinascita da macerie alla settima potenza. Questo è l’obiettivo, anche se le fasi sono un po’ confuse fra loro». Va veloce il presidente americano, mattatore del vertice per il cessate il fuoco, davanti al mondo. Accanto a lui il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi sembra stupito da tanto dinamismo e incassa un complimento che nessun leader gli aveva mai fatto: «Lei è un presidente ma anche un generale e sa fare bene entrambi i mestieri».Le firme arrivano alle 18.30, il Piano di pace diventa operativo. Trump ha parole dolci solo per due leader. Il primo è Tayyp Recep Erdogan: «È un tipo tosto, quando c’è bisogno lui c’è». La seconda è Giorgia Meloni. «Chi è questa donna?» scherza accogliendola sul palco, unica presenza femminile. «È una leader molto forte, sta facendo un bel lavoro». Ora l’accordo va blindato e l’evento di risonanza mondiale è il sigillo di ceralacca con l’imprimatur di legittimità internazionale. Il segretario di Stato americano Marco Rubio definisce il vertice «Il più importante degli ultimi 50 anni, anzi facciamo 100». Al di là delle iperboli e del decisivo sforzo americano, anche la task force politica del mondo arabo per la pace è imponente. Lo è per garantire sulla stabilità dell’area e sulla credibilità di Hamas a svolgere un ruolo di polizia palestinese, almeno nel primo periodo. «Vogliono porre fine ai problemi e lo hanno detto apertamente», aggiunge Trump, probabilmente incrociando le dita in una tasca. Per evitare scintille, al tavolo della storia nell’International Conference Center, siedono anche il presidente turco Erdogan, il numero uno dell’Autorita palestinese Abu Mazen, il re Abdullah II di Giordania, il principe del Qatar Tamim Al Thani, il re del Bahrein Isa Al Khalifa, il presidente indonesiano Prabowo Subiant, quello azero Ilham Aliyev, il primo ministro pachistano Shehbaz Sharif, il presidente iracheno Abdul Latif Rashid e il premier Muhammad Sudani, il segretario generale della Lega araba Ahmed Aboul Gheit. Il mondo musulmano è rappresentato ai massimi livelli. Hanno vinto anche loro.Accanto ad Abu Mazen una sedia rimane vuota, è quella riservata a Benjamin Netanyahu, protagonista di un tira e molla finito con la rinuncia. Trump e Al Sisi hanno caldeggiato la sua presenza, lui era tentato, ma essendo un buon giocatore di poker alla fine ha preferito declinare. Da una parte Erdogan e Sudani avevano minacciato di andarsene se fosse comparso Bibi («La sua presenza è inopportuna»), dall’altra l’ultradestra ortodossa israeliana non avrebbe accettato di vederlo stringere la mano ad Abu Mazen, esautorato dopo il 7 Ottobre, fantasma senza potere nell’era Hamas. Alcuni scrupoli di sicurezza e l’inizio della festa ebraica della Simchat Torà hanno fatto il resto.Due nodi sono ancora da sciogliere: il disarmo dei terroristi - che il ruolo da poliziotti dilaziona, con relativo mal di pancia israeliano - e il board per il governo transitorio sovranazionale della Striscia. Per far rispettare il cessate il fuoco è probabile il supporto militare di Usa, Egitto, Qatar e Turchia. Quando si parla di ricostruzione entra in scena anche l’Europa, presente al vertice con i leader più rappresentativi: Friedrich Merz, Keir Starmer, Giorgia Meloni, Emmanuel Macron, Pedro Sanchez. E a sorpresa Viktor Orbán. Nell’incontro sugli accessi umanitari «per rispondere agli enormi bisogni della società civile», ieri si confrontano tutti meno lo spagnolo Sánchez, marginalizzato per la sua posizione radicale Pro Pal, poco piaciuta perfino agli interlocutori arabi.Poiché di Ursula von der Leyen non c’è traccia (al suo posto lo stinto presidente del Consiglio Ue Antonio Costa), diventa facile stilare la classifica di chi ha vinto e perso la partita diplomatica. I vincitori sono gli americani da una parte, la Lega araba sunnita dall’altra, la premier italiana e il cancelliere tedesco capofila dei Paesi europei. Giorgia Meloni ha tenuto anche un bilaterale con il presidente egiziano che ha elogiato (così afferma un comunicato) «lo sviluppo delle relazioni privilegiate tra Egitto e Italia, sottolineando l’importanza di continuare a rafforzare i rapporti bilaterali in vari settori, tra cui quello politico, commerciale ed economico». Gli sconfitti di Sharm sono palesemente l’Iran sciita nel campo arabo; l’Unione europea e l’Onu come organismi collegiali; la Spagna, condannata all’irrilevanza strategico-diplomatica e la Gran Bretagna, agli occhi israeliani uno Stato che si sta islamizzando. La Francia sconta la scarsa credibilità dell’inquilino dell’Eliseo. Non pervenuta la sinistra italiana, ancora sotto sedativi per il successo dell’odiato inquilino della Casa Bianca. Anche la Russia esula dal «miracolo trumpiano». Ma ieri il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha sottolineato con furbizia: «Se i Paesi del vertice egiziano riterranno necessario coinvolgerci, non ci rifiuteremo».Alla fine la stretta di mano più solida è quella fra Trump e Al Sisi. «Ci siamo piaciuti subito la prima volta che ci siamo incontrati alcuni anni fa», ha ricordato The Donald. «Lui parlò con me e non perse tempo con Hillary Clinton, intuendo come sarebbe andata a finire». Va a finire che Trump torna a Washington con la massima onorificenza egiziana, l’Ordine del Nilo, il collare dei faraoni. Fosse per lui, farebbe costruire a suo nome la quarta piramide.
Giorgia Meloni e Donald Trump (Getty Images)
il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi (Ansa)
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Donald Trump (Getty Images)