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2020-05-30
Le trame delle toghe sul caso Salvini
Matteo Salvini (Ansa)
Nell'inchiesta per corruzione di Perugia ai danni del pm Luca Palamara le carte, incredibilmente, non raccontano una cena che è avvenuta quando il sostituto procuratore era già indagato e che si è tenuta la sera del 9 maggio 2019 al ristorante «Mamma Angelina» di Roma, un'osteria dagli arredamenti classici e il menù tipico. L'orario fissato era quello delle 20.45 e a organizzarla era stato il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, il quale era andato in pensione il giorno prima. Tra i presenti anche una delle toghe romane che deve giudicare le inchieste portate avanti da inquirenti come Pignatone, Paola Roja, presidente dell'ottava sezione penale del Tribunale di Roma, la stessa che, insieme alla seconda, si occupa di reati contro la pubblica amministrazione.
Il 7 maggio Pignatone aveva salutato i suoi pm in un evento organizzato presso una caserma dei carabinieri. Due giorni dopo l'ex procuratore e la moglie Piera radunarono quelli che ritenevano la loro cerchia ristretta. E al tavolo oltre ai due anfitrioni c'erano Palamara, già intercettato con il trojan, la moglie Giovanna, la Roja con il compagno Siro Mucciarelli e l'imprenditore Alessandro Casali, con la signora Alessandra.
La Roja è esponente della corrente di sinistra Magistratura democratica e presiede, per esempio, il collegio che deve giudicare l'avvocato Alfredo Romeo (quello del caso Consip) e Luca Parnasi e gli altri imputati della cosiddetta inchiesta sullo stadio della Roma. Certo qualcuno potrebbe sorprendersi leggendo che allo stesso tavolo c'erano il procuratore di Roma e il giudice di alcuni dei principali processi istruiti dal suo ufficio, ma così va il mondo della giustizia in Italia. E anche la Roja, a leggere le conversazioni, aveva motivi di gratitudine nei confronti dell'uomo ragno delle toghe italiane, Palamara.
Quest'ultimo il 10 ottobre 2017 le scrive: «Proposta! 5 a 1 commissione», con riferimento alla nomina a presidente di sezione. Risposta della donna: «Grazie Luca» con tre emoticon con il bacino. Due giorni dopo: «Ciao Luca. Non sono ancora riuscita a richiamarTi per un ringraziamento […] se non Ti disturberò ti telefono domani pomeriggio. Un bacio». Il 6 dicembre Palamara scrive: «Fatta! Deliberato plenum. Ora festeggiamo. Mi dicono anche a Udine con prosciutto». Roja, in un tripudio di bacini e cuoricini: «Grazie Luca. Grande. A Udine poi fortunatamente non c'è solo il prosciutto buono […]». Il luglio successivo, sempre la Roja, digita: «Appuntamento sul mio terrazzo questa sera […] Puntuali h 20.30 per brindare con il Presidente (Francesco Monastero, ndr) che poi si allontanerà». Poi la Roja sollecita Palamara per alcuni posti scoperti in Tribunale. «Non è che vuoi renderti Memorabile chiedendo che le pratiche di trasferimento a Roma siano trattate - almeno in parte - con urgenza?». Il 7 febbraio 2019: «Risottino a casa (mia) il 20 febbraio mercoledì? Solita banda». Il 16 febbraio il giudice interroga Palamara sugli ospiti: «Sono qui con un Tuo Amico .. ci stavamo chiedendo se mercoledì sera era “opportuno" oppure no invitare il generale Pollari (Nicolò, ex direttore del controspionaggio italiano, ndr), che ben conosce Il Tuo amico e anche Siro. Ci saranno pure il Presidente Monastero e Riccardo (Fuzio, ndr). Tu cosa ne pensi?». Palamara consiglia di «restringere la cena solo a noi». La donna è un po' spiazzata: «Purtroppo siamo già oltre 12. Però raccolgo il Tuo consiglio». Il 18 la padrona di casa ricorda l'appuntamento «Chez Paola».
Alessandro Casali, a quanto ci risulta, era uno degli invitati. Si occupa di comunicazione ad alto livello. Lui e Palamara, nelle chat, quando parlano di Pignatone usano la sillaba «Pi». Il 4 maggio 2019 Casali scrive: «Mi ha appena chiamato Pi. Giovedì o venerdì a cena con loro. Adesso ti chiama».
L'imprenditore, contattato dalla Verità, ammette di frequentare Palamara da una ventina d'anni, la Roja da almeno sei («Ci siamo conosciuti in Sardegna») e Pignatone da circa cinque: «Quella del 9 maggio è stata una cena semplicissima di saluto del nostro procuratore. Una cena che ogni tanto facevamo con le nostre rispettivi mogli e mariti». La «banda» di cui parlava la Roja. Casali ci conferma che il gruppo, con Roja e Pignatone, si è data appuntamento per varie serate. «Si organizzava a casa di uno o dell'altro». A questo gruppo si univano il pg di Cassazione Riccardo Fuzio e, più saltuariamente, il procuratore aggiunto Paolo Ielo, il magistrato che coordina le inchieste sulla pubblica amministrazione. «Paola è amica di tutti e stima Ielo che si sarà aggregato due o tre volte. Ma erano serate in cui non si parlava di lavoro. Era un gruppo molto affiatato, in cui c'era un grande feeling. Mi dispiace che l'inchiesta abbia interrotto certi rapporti» conclude Casali.
Il quale ricorda orgoglioso quello che la moglie di Pignatone disse alla sua: «Voi siete una delle due coppie che frequentiamo al fuori del mondo della magistratura e delle istituzioni».
Dopo l'amarcord domandiamo a Casali di che cosa abbiano discusso il 9 maggio 2019? «Di cultura, di vacanze, ma non di nomine». Perché chiamavate Pignatone Pi? «Per gioco».
L'affiatatissima combriccola si ritrovò il 9 maggio quando Palamara era già sotto intercettazione, ma i finanzieri del Gico mancarono completamente l'appostamento e anche il trojan si assopì. Lo aveva già fatto durante l'evento del 7 maggio nella caserma dei carabinieri durante la serata di commiato di Pignatone ai suoi pm. Risuccesse il 9.
A metà maggio gli uomini della Finanza inviano alla Procura della Repubblica di Perugia un dettagliato «report di alcune conversazioni telefoniche di eventuale interesse» relative a Palamara.
E in esse si parla di «Mamma Angelina». Per esempio si fa riferimento all'«incontro conviviale del 2 aprile 2019 promosso e organizzato da Luca Palamara». In questo caso gli investigatori sono occhiuti e annotano che alla cena «avevano preso parte il procuratore generale della Cassazione già consigliere del Csm nel gruppo di Unicost Fuzio, il neo questore di Roma Carmine Esposito e il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trani Antonino Maria Di Maio e, seppur per un breve tempo, Cosimo Maria Ferri». I medesimi investigatori riportano uno stralcio della conversazione di Palamara con il titolare del locale, Andrea: «Senti stasera quattro col questore eh? Che è stato nominato due settimane fa (…) quindi il primo locale di Roma Mamma Angelina per il questore eh?». Andrea: «Va bene mio caro. Sarai servito». Palamara: «Capito? Solito riservato, io, lui, Fuzio e un altro, il procuratore di Trani». Le Fiamme gialle trascrivono anche la conversazione tra Palamara e Ferri propedeutica all'incontro, dedicando all'appuntamento del 2 aprile diverse pagine. Il 9 maggio, invece, sono meno puntuali. Inizialmente riportano una decina di telefonate, compresa quella di Palamara con il meccanico. Sintetizzano anche la conversazione del pm con Andrea del ristorante «Mamma Angelina»: «Palamara gli chiede l'orario della prenotazione, ma Andrea dice di sapere solo che la prenotazione è per otto persone. Andrea lo informa che a un altro tavolo ci sarà anche Stefano Palazzi con l'ex procuratore federale». Lo stesso Palazzi, sposato con Maria Casola, il capo del Dag al ministero della giustizia, in una chat aveva chiesto a Palamara di essere introdotto presso il ristoratore. Nel brogliaccio, però, gli investigatori che citano Palazzi, non trascrivono il nome dell'uomo che ha prenotato il tavolo per otto e nell'informativa non c'è neanche mezza parola sulla serata, né sui partecipanti. Neppure il trojan, che aveva registrato tutte le conversazioni della notte precedente all'hotel Champagne traccheggia. L'ultima conversazione che viene riportata negli atti è quella delle 15.54 dove Palamara anticipa a un'amica che la sera andrà a cena da «Mamma Angelina» con «Pignatone, Prestipino e un'altra persona». In realtà il neo procuratore di Roma non prese parte alla serata. Poi il nulla sino al mattino successivo. Il colonnello che ha firmato il report era un fedelissimo di Pignatone, con cui aveva lavorato a Palermo e a Reggio Calabria, prima di approdare a Roma per ricomporre il pool di investigatori che, come ha scritto un giornale, conosceva «il metodo Pignatone». Purtroppo, però, si è perso la cena da «Mamma Angelina». Infortuni che capitano solo a chi lavora.
Una giornata di trame fra magistrati attorno al caso Salvini-nave Diciotti
Sono le 22:06 del 25 agosto 2018 quando, sul cellulare di Luca Palamara, arriva questo Whatsapp: «Indovina chi è il presidente del tribunale per i ministri di Palermo». Il mittente è salvato in rubrica con le sole iniziali, FP. Si tratta di FabioPilato, gip del capoluogo siciliano. Il consigliere del Csm e boss di Unicost sembra sorpreso, e risponde: «Chi è?». «Io», replica immediatamente l'altro. Al che, Palamara esplode in un compiaciuto «Grande». Il giudice però sembra nutrire qualche remora: «Insomma... Un casino». Palamara gli consiglia di «mantenere nervi saldi», e Pilato si corregge: «Casino giuridico». Lo scambio di battute avviene in un tempo brevissimo. «Per il resto sono freddo come uno squalo... Mi salva il fatto che nella mia carriera mi sono occupato di tutto», aggiunge ancora Pilato. Palamara gli offre il suo aiuto: «Io sono sempre con te un abbraccio forte».
Questa conversazione notturna, allegata agli atti dell'inchiesta di Perugia in cui Palamara è coinvolto per una presunta corruzione, chiude il cerchio di una giornata campale per le toghe militanti. In mattinata, infatti, insieme ad altri tre capigruppo del Consiglio superiore della magistratura (Valerio Fracassi, Claudio Galoppi e Aldo Morgigni) Palamara ha diffuso una durissima nota contro Matteo Salvini sulla questione della «Diciotti». Manovra orchestrata, nelle retrovie, dal vicepresidente Giovanni Legnini per preparare il terreno in vista della candidatura a governatore dell'Abruzzo in quota Pd, come pure sospetta il consigliere di sinistra Nicola Clivio. Nel pomeriggio è stato il turno dell'Anm che ha sparato ad alzo zero sul ministro dell'Interno che tutti sanno essere indagato per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. A cui, in quelle ore, proprio Legnini telefona per esprimergli vicinanza e solidarietà. E a cui Palamara invia invece un Whatsapp per ricordargli che «siamo tutti con te». Un accerchiamento giudiziario che spaventa addirittura il procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, che sempre il 25 agosto, in una serie di messaggi scambiati con Palamara, contesta la strumentalizzazione politica dell'inchiesta sul leader della Lega. «Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando... E non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento. Questo dal punto di vista tecnico al di là del lato politico. Tienilo per te ma sbaglio?», confida all'amico di Unicost. Che però ha chiara la strategia e rintuzza: «No hai ragione... Ma ora bisogna attaccarlo».
Le chat di Pilato offrono adesso un ulteriore spaccato del posizionamento del mondo giudiziario nella contesa politica di quella stagione. Pilato è un nome conosciuto tra le toghe siciliane. Da giudice tutelare, si è occupato di immigrazione a tutti i livelli. È stato il più convinto sostenitore del protocollo d'intesa con il Comune di Palermo per garantire l'accompagnamento dei minori soli e per il riconoscimento del loro status di rifugiati. Da giudice delle indagini preliminari si è fatto invece notare per aver prima respinto, e poi accolto, la richiesta di archiviazione a carico dell'ex governatore della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, e dell'ex pm Antonino Ingroia indagati in un procedimento per abuso e falso. Ma torniamo ai messaggi dell'inchiesta di Perugia. Il gip di Palermo, il 29 agosto, si rifà vivo con Palamara: «Luca dimenticavo... quando hai tempo puoi dirmi come ottenere i precedenti del trib min romano sui casi Pisanu e Maroni?». Palamara promette di occuparsene. Passano i giorni, e il 1° settembre, Pilato torna alla carica: «Caro Luca buongiorno, hai novità per i due precedenti giurisprudenziali?». Non sappiamo se il consigliere del Csm riuscirà ad aiutarlo in questa ricerca ma, il 18 ottobre, il tribunale dei ministri presieduto da Pilato archivia parte dell'inchiesta a carico del leader leghista trasferendo, per competenza, il resto dell'incartamento a Catania, città in cui nel frattempo era attraccata la Diciotti. Una decisione che non frena l'arrembante campagna stampa della magistratura militante di sinistra che ha deciso di trasformare la nave militare italiana nel vessillo dell'antileghismo. Scrivono il 2 novembre, i magistrati di Area: «Indipendentemente dall'esito del procedimento penale, auspichiamo che pagine buie come quella della vicenda della Diciotti non abbiano più a ripetersi. È fondamentale che il governo e le istituzioni rispettino i doveri e gli impegni che derivano dalla Costituzione e dagli accordi internazionali in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani, in particolare di soggetti fragili come sono i migranti che, a rischio della vita, cercano di raggiungere le nostre coste». Il giorno dopo, Pilato suggerisce al suo capocorrente di attivarsi per prendere posizione nella querelle («Anche noi dovremmo intervenire») senza preoccuparsi troppo di essere stato parte in causa nel procedimento.
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L'ex capo della Procura di Roma per la sua serata d'addio invitò sei cari amici, fra cui un giudice dei processi istruiti dal suo stesso ufficio e Luca Palamara. Ma nulla fu registrato.Nelle ore calde per le accuse all'allora numero uno del Viminale, il gip Fabio Pilato scriveva a Palamara: «Indovina chi è il presidente del tribunale per i ministri di Palermo? Io». E l'altro esultava: «Grande».Lo speciale contiene due articoli Nell'inchiesta per corruzione di Perugia ai danni del pm Luca Palamara le carte, incredibilmente, non raccontano una cena che è avvenuta quando il sostituto procuratore era già indagato e che si è tenuta la sera del 9 maggio 2019 al ristorante «Mamma Angelina» di Roma, un'osteria dagli arredamenti classici e il menù tipico. L'orario fissato era quello delle 20.45 e a organizzarla era stato il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, il quale era andato in pensione il giorno prima. Tra i presenti anche una delle toghe romane che deve giudicare le inchieste portate avanti da inquirenti come Pignatone, Paola Roja, presidente dell'ottava sezione penale del Tribunale di Roma, la stessa che, insieme alla seconda, si occupa di reati contro la pubblica amministrazione.Il 7 maggio Pignatone aveva salutato i suoi pm in un evento organizzato presso una caserma dei carabinieri. Due giorni dopo l'ex procuratore e la moglie Piera radunarono quelli che ritenevano la loro cerchia ristretta. E al tavolo oltre ai due anfitrioni c'erano Palamara, già intercettato con il trojan, la moglie Giovanna, la Roja con il compagno Siro Mucciarelli e l'imprenditore Alessandro Casali, con la signora Alessandra. La Roja è esponente della corrente di sinistra Magistratura democratica e presiede, per esempio, il collegio che deve giudicare l'avvocato Alfredo Romeo (quello del caso Consip) e Luca Parnasi e gli altri imputati della cosiddetta inchiesta sullo stadio della Roma. Certo qualcuno potrebbe sorprendersi leggendo che allo stesso tavolo c'erano il procuratore di Roma e il giudice di alcuni dei principali processi istruiti dal suo ufficio, ma così va il mondo della giustizia in Italia. E anche la Roja, a leggere le conversazioni, aveva motivi di gratitudine nei confronti dell'uomo ragno delle toghe italiane, Palamara. Quest'ultimo il 10 ottobre 2017 le scrive: «Proposta! 5 a 1 commissione», con riferimento alla nomina a presidente di sezione. Risposta della donna: «Grazie Luca» con tre emoticon con il bacino. Due giorni dopo: «Ciao Luca. Non sono ancora riuscita a richiamarTi per un ringraziamento […] se non Ti disturberò ti telefono domani pomeriggio. Un bacio». Il 6 dicembre Palamara scrive: «Fatta! Deliberato plenum. Ora festeggiamo. Mi dicono anche a Udine con prosciutto». Roja, in un tripudio di bacini e cuoricini: «Grazie Luca. Grande. A Udine poi fortunatamente non c'è solo il prosciutto buono […]». Il luglio successivo, sempre la Roja, digita: «Appuntamento sul mio terrazzo questa sera […] Puntuali h 20.30 per brindare con il Presidente (Francesco Monastero, ndr) che poi si allontanerà». Poi la Roja sollecita Palamara per alcuni posti scoperti in Tribunale. «Non è che vuoi renderti Memorabile chiedendo che le pratiche di trasferimento a Roma siano trattate - almeno in parte - con urgenza?». Il 7 febbraio 2019: «Risottino a casa (mia) il 20 febbraio mercoledì? Solita banda». Il 16 febbraio il giudice interroga Palamara sugli ospiti: «Sono qui con un Tuo Amico .. ci stavamo chiedendo se mercoledì sera era “opportuno" oppure no invitare il generale Pollari (Nicolò, ex direttore del controspionaggio italiano, ndr), che ben conosce Il Tuo amico e anche Siro. Ci saranno pure il Presidente Monastero e Riccardo (Fuzio, ndr). Tu cosa ne pensi?». Palamara consiglia di «restringere la cena solo a noi». La donna è un po' spiazzata: «Purtroppo siamo già oltre 12. Però raccolgo il Tuo consiglio». Il 18 la padrona di casa ricorda l'appuntamento «Chez Paola».Alessandro Casali, a quanto ci risulta, era uno degli invitati. Si occupa di comunicazione ad alto livello. Lui e Palamara, nelle chat, quando parlano di Pignatone usano la sillaba «Pi». Il 4 maggio 2019 Casali scrive: «Mi ha appena chiamato Pi. Giovedì o venerdì a cena con loro. Adesso ti chiama». L'imprenditore, contattato dalla Verità, ammette di frequentare Palamara da una ventina d'anni, la Roja da almeno sei («Ci siamo conosciuti in Sardegna») e Pignatone da circa cinque: «Quella del 9 maggio è stata una cena semplicissima di saluto del nostro procuratore. Una cena che ogni tanto facevamo con le nostre rispettivi mogli e mariti». La «banda» di cui parlava la Roja. Casali ci conferma che il gruppo, con Roja e Pignatone, si è data appuntamento per varie serate. «Si organizzava a casa di uno o dell'altro». A questo gruppo si univano il pg di Cassazione Riccardo Fuzio e, più saltuariamente, il procuratore aggiunto Paolo Ielo, il magistrato che coordina le inchieste sulla pubblica amministrazione. «Paola è amica di tutti e stima Ielo che si sarà aggregato due o tre volte. Ma erano serate in cui non si parlava di lavoro. Era un gruppo molto affiatato, in cui c'era un grande feeling. Mi dispiace che l'inchiesta abbia interrotto certi rapporti» conclude Casali.Il quale ricorda orgoglioso quello che la moglie di Pignatone disse alla sua: «Voi siete una delle due coppie che frequentiamo al fuori del mondo della magistratura e delle istituzioni». Dopo l'amarcord domandiamo a Casali di che cosa abbiano discusso il 9 maggio 2019? «Di cultura, di vacanze, ma non di nomine». Perché chiamavate Pignatone Pi? «Per gioco». L'affiatatissima combriccola si ritrovò il 9 maggio quando Palamara era già sotto intercettazione, ma i finanzieri del Gico mancarono completamente l'appostamento e anche il trojan si assopì. Lo aveva già fatto durante l'evento del 7 maggio nella caserma dei carabinieri durante la serata di commiato di Pignatone ai suoi pm. Risuccesse il 9. A metà maggio gli uomini della Finanza inviano alla Procura della Repubblica di Perugia un dettagliato «report di alcune conversazioni telefoniche di eventuale interesse» relative a Palamara. E in esse si parla di «Mamma Angelina». Per esempio si fa riferimento all'«incontro conviviale del 2 aprile 2019 promosso e organizzato da Luca Palamara». In questo caso gli investigatori sono occhiuti e annotano che alla cena «avevano preso parte il procuratore generale della Cassazione già consigliere del Csm nel gruppo di Unicost Fuzio, il neo questore di Roma Carmine Esposito e il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trani Antonino Maria Di Maio e, seppur per un breve tempo, Cosimo Maria Ferri». I medesimi investigatori riportano uno stralcio della conversazione di Palamara con il titolare del locale, Andrea: «Senti stasera quattro col questore eh? Che è stato nominato due settimane fa (…) quindi il primo locale di Roma Mamma Angelina per il questore eh?». Andrea: «Va bene mio caro. Sarai servito». Palamara: «Capito? Solito riservato, io, lui, Fuzio e un altro, il procuratore di Trani». Le Fiamme gialle trascrivono anche la conversazione tra Palamara e Ferri propedeutica all'incontro, dedicando all'appuntamento del 2 aprile diverse pagine. Il 9 maggio, invece, sono meno puntuali. Inizialmente riportano una decina di telefonate, compresa quella di Palamara con il meccanico. Sintetizzano anche la conversazione del pm con Andrea del ristorante «Mamma Angelina»: «Palamara gli chiede l'orario della prenotazione, ma Andrea dice di sapere solo che la prenotazione è per otto persone. Andrea lo informa che a un altro tavolo ci sarà anche Stefano Palazzi con l'ex procuratore federale». Lo stesso Palazzi, sposato con Maria Casola, il capo del Dag al ministero della giustizia, in una chat aveva chiesto a Palamara di essere introdotto presso il ristoratore. Nel brogliaccio, però, gli investigatori che citano Palazzi, non trascrivono il nome dell'uomo che ha prenotato il tavolo per otto e nell'informativa non c'è neanche mezza parola sulla serata, né sui partecipanti. Neppure il trojan, che aveva registrato tutte le conversazioni della notte precedente all'hotel Champagne traccheggia. L'ultima conversazione che viene riportata negli atti è quella delle 15.54 dove Palamara anticipa a un'amica che la sera andrà a cena da «Mamma Angelina» con «Pignatone, Prestipino e un'altra persona». In realtà il neo procuratore di Roma non prese parte alla serata. Poi il nulla sino al mattino successivo. Il colonnello che ha firmato il report era un fedelissimo di Pignatone, con cui aveva lavorato a Palermo e a Reggio Calabria, prima di approdare a Roma per ricomporre il pool di investigatori che, come ha scritto un giornale, conosceva «il metodo Pignatone». Purtroppo, però, si è perso la cena da «Mamma Angelina». 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Al che, Palamara esplode in un compiaciuto «Grande». Il giudice però sembra nutrire qualche remora: «Insomma... Un casino». Palamara gli consiglia di «mantenere nervi saldi», e Pilato si corregge: «Casino giuridico». Lo scambio di battute avviene in un tempo brevissimo. «Per il resto sono freddo come uno squalo... Mi salva il fatto che nella mia carriera mi sono occupato di tutto», aggiunge ancora Pilato. Palamara gli offre il suo aiuto: «Io sono sempre con te un abbraccio forte». Questa conversazione notturna, allegata agli atti dell'inchiesta di Perugia in cui Palamara è coinvolto per una presunta corruzione, chiude il cerchio di una giornata campale per le toghe militanti. In mattinata, infatti, insieme ad altri tre capigruppo del Consiglio superiore della magistratura (Valerio Fracassi, Claudio Galoppi e Aldo Morgigni) Palamara ha diffuso una durissima nota contro Matteo Salvini sulla questione della «Diciotti». Manovra orchestrata, nelle retrovie, dal vicepresidente Giovanni Legnini per preparare il terreno in vista della candidatura a governatore dell'Abruzzo in quota Pd, come pure sospetta il consigliere di sinistra Nicola Clivio. Nel pomeriggio è stato il turno dell'Anm che ha sparato ad alzo zero sul ministro dell'Interno che tutti sanno essere indagato per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. A cui, in quelle ore, proprio Legnini telefona per esprimergli vicinanza e solidarietà. E a cui Palamara invia invece un Whatsapp per ricordargli che «siamo tutti con te». Un accerchiamento giudiziario che spaventa addirittura il procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, che sempre il 25 agosto, in una serie di messaggi scambiati con Palamara, contesta la strumentalizzazione politica dell'inchiesta sul leader della Lega. «Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando... E non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento. Questo dal punto di vista tecnico al di là del lato politico. Tienilo per te ma sbaglio?», confida all'amico di Unicost. Che però ha chiara la strategia e rintuzza: «No hai ragione... Ma ora bisogna attaccarlo». Le chat di Pilato offrono adesso un ulteriore spaccato del posizionamento del mondo giudiziario nella contesa politica di quella stagione. Pilato è un nome conosciuto tra le toghe siciliane. Da giudice tutelare, si è occupato di immigrazione a tutti i livelli. È stato il più convinto sostenitore del protocollo d'intesa con il Comune di Palermo per garantire l'accompagnamento dei minori soli e per il riconoscimento del loro status di rifugiati. Da giudice delle indagini preliminari si è fatto invece notare per aver prima respinto, e poi accolto, la richiesta di archiviazione a carico dell'ex governatore della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, e dell'ex pm Antonino Ingroia indagati in un procedimento per abuso e falso. Ma torniamo ai messaggi dell'inchiesta di Perugia. Il gip di Palermo, il 29 agosto, si rifà vivo con Palamara: «Luca dimenticavo... quando hai tempo puoi dirmi come ottenere i precedenti del trib min romano sui casi Pisanu e Maroni?». Palamara promette di occuparsene. Passano i giorni, e il 1° settembre, Pilato torna alla carica: «Caro Luca buongiorno, hai novità per i due precedenti giurisprudenziali?». Non sappiamo se il consigliere del Csm riuscirà ad aiutarlo in questa ricerca ma, il 18 ottobre, il tribunale dei ministri presieduto da Pilato archivia parte dell'inchiesta a carico del leader leghista trasferendo, per competenza, il resto dell'incartamento a Catania, città in cui nel frattempo era attraccata la Diciotti. Una decisione che non frena l'arrembante campagna stampa della magistratura militante di sinistra che ha deciso di trasformare la nave militare italiana nel vessillo dell'antileghismo. Scrivono il 2 novembre, i magistrati di Area: «Indipendentemente dall'esito del procedimento penale, auspichiamo che pagine buie come quella della vicenda della Diciotti non abbiano più a ripetersi. È fondamentale che il governo e le istituzioni rispettino i doveri e gli impegni che derivano dalla Costituzione e dagli accordi internazionali in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani, in particolare di soggetti fragili come sono i migranti che, a rischio della vita, cercano di raggiungere le nostre coste». Il giorno dopo, Pilato suggerisce al suo capocorrente di attivarsi per prendere posizione nella querelle («Anche noi dovremmo intervenire») senza preoccuparsi troppo di essere stato parte in causa nel procedimento.
i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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Nel 2025 la pirateria torna a imporsi come una minaccia fluida, che si adatta ad ogni situazione, capace di sfruttare ogni varco lasciato aperto nel fragile equilibrio della sicurezza marittima globale. Due aree, più di altre, raccontano questa nuova stagione di attacchi: il Golfo di Guinea e l’Oceano Indiano. Non si tratta più di fenomeni isolati come mostrano i report di Praesidium, società che si occupa di intelligence marittima, né di improvvise fiammate criminali. È un ecosistema in movimento, che segue logiche precise, approfitta delle lacune statali, cavalca il maltempo o il suo contrario, e ridisegna continuamente la mappa del rischio.
Nel Golfo di Guinea, l’andamento dell’anno ha mostrato un susseguirsi di incursioni che sembrano quasi seguire una traiettoria invisibile. All’inizio la pressione è stata particolarmente intensa nel settore orientale, tra Gabon, Guinea Equatoriale e São Tomé e Príncipe. L’attacco del 31 gennaio al peschereccio Amerger VII ha inaugurato la stagione. Tre membri dell’equipaggio sono finiti nelle mani dei pirati a poche miglia da Owendo, un episodio che ha posto subito il tema dell’audacia dei gruppi criminali e della loro capacità di muoversi vicino alle acque territoriali. Interessante notare che la stessa imbarcazione era già stata attaccata nella stessa area nel 2020.
Pochi giorni dopo, l’abbordaggio della Jsp Vento, nella Zona economica esclusiva (Zee) della Repubblica della Guinea Equatoriale, ha mostrato un altro tratto distintivo della pirateria del 2025: attacchi rapidi e condotti contro navi senza scorta, dove gli equipaggi sono spesso lasciati a loro stessi visti i lunghi tempi di reazione delle autorità locali. In questo caso i pirati hanno abbandonato la nave dopo essere stati avvistati dall’equipaggio. A marzo l’escalation si è fatta più chiara. L’incursione alla petroliera Bitu River, al largo di São Tomé, è durata ore e ha incluso la violazione della cittadella, con i pirati che sono riusciti a prendere in ostaggio diversi membri dell’equipaggio e a fuggire. Il trasferimento degli ostaggi in Nigeria e il loro rilascio settimane dopo suggeriscono canali consolidati, territori di appoggio e una filiera criminale ben riconoscibile.
La traiettoria della minaccia è poi scivolata verso ovest, raggiungendo il Ghana, dove a fine marzo il peschereccio Meng Xin 1 è stato assaltato e tre marittimi sono stati rapiti e trasportati nel Delta del Niger, cuore storico delle milizie locali. In quest’area, simili episodi ai danni di pescherecci sono stati in passato ricondotti a dispute locali o ad azioni di ritorsione. Tuttavia, il fatto che gli assalitori comunicassero in pidgin english nigeriano richiama il modus operandi tipico dei sequestri a scopo di riscatto riconducibili alla pirateria nigeriana, lasciando aperta l’ipotesi di un’evoluzione dell’evento in tale contesto.
Il vero punto di svolta è arrivato il 21 aprile, quando la Sea Panther è stata abbordata a oltre 130 miglia da Brass. L’episodio ha segnato il ritorno ufficiale della pirateria all’interno della Zee nigeriana, un territorio che non registrava attacchi confermati dal 2021. Per gli analisti si è trattato della prova definitiva che la pressione militare degli anni precedenti si è attenuata, lasciando di nuovo spazio a cellule in grado di spingersi in acque profonde. Poche settimane dopo, a fine maggio, l’assalto alla Orange Frost nella zona di sviluppo congiunto tra Nigeria e São Tomé ha completato il quadro, mostrando come i gruppi criminali siano capaci di colpire anche aree formalmente pattugliate da due Stati.
L’estate ha portato una calma apparente, dissoltasi con l’arrivo di nuovi episodi a partire da agosto, quando il tentativo di sequestro della Endo Ponente è stato sventato dalla pronta ritirata nella cittadella da parte dell’equipaggio, che è rimasto all’interno fino all’intervento delle forze navali avvenuto comunque ore dopo l’attacco. Un altro tentato attacco è stato registrato nella regione occidentale del Golfo in ottobre contro la Alfred Temile 10 al largo del Benin. A novembre la minaccia è tornata a concentrarsi a est, dove la Ual Africa è stata presa di mira al confine tra la Zee di São Tomé e Principe e quella della Guinea Equatoriale: l’equipaggio ha resistito chiudendosi in un’area blindata all’interno della nave - un locale protetto, sigillato e dotato di comunicazioni indipendenti - progettata per consentire all’equipaggio di mettersi al sicuro durante un attacco. Non riuscendo a fare breccia nelle difese, i pirati hanno devastato ponte e alloggi prima di ritirarsi.
Se il Golfo di Guinea racconta una pirateria che cambia posizione ma non perde incisività, l’Oceano Indiano nel 2025 ha dato vita a uno scenario ancora più inquietante. La regione somala è tornata teatro di sequestri e attacchi con una frequenza che ricorda i periodi più bui della pirateria del decennio precedente. La stagione è iniziata a febbraio con una serie di dirottamenti per mezzo di dhow yemeniti, piccole imbarcazioni utilizzate dai pirati come piattaforme mobili per proiettarsi molto a largo. Il sequestro dell’Al Najma N.481 ha rivelato un modus operandi ormai consueto: catturare un peschereccio, impossessarsi delle piccole imbarcazioni, rifornirsi a bordo e ripartire verso obiettivi più remunerativi. Anche gli altri casi registrati tra il 15 febbraio e il 16 marzo mostrano lo stesso schema, con dhow impiegati come basi avanzate e poi abbandonati dopo l’intervento delle forze navali internazionali o a seguito del pagamento di riscatti.
Il periodo dei monsoni, tra maggio e settembre, ha rallentato l’attività, ma non l’ha soppressa. Appena il mare è tornato praticabile, gli avvistamenti sospetti sono ripresi con un’intensità che ha sorpreso perfino le missioni navali. Tra ottobre e novembre si è assistito a un ritorno deciso dei gruppi somali in acque profonde, con tentativi di abbordaggio a centinaia di miglia dalla costa, un dettaglio che ricorda i livelli operativi raggiunti nel 2011-2012. Il primo attacco avvenuto nel 2025 contro una nave commerciale è stato registrato il 3 novembre alla petroliera Stolt Sagaland, a oltre 332 miglia nautiche da Mogadiscio: quattro uomini armati hanno aperto il fuoco prima di ritirarsi, segno di una rinnovata audacia. Pochi giorni dopo, la Hellas Aphrodite è stata addirittura abbordata a più di 700 miglia nautiche dalla Somalia, un dato che conferma l’utilizzo di «navi madre» capaci di sostenere missioni lunghe e complesse. Proprio in questo contesto si inserisce il misterioso dhow iraniano Issamamohamadi, sequestrato a fine ottobre e ritrovato abbandonato l’11 novembre: secondo gli investigatori è molto probabile che sia stato utilizzato come base per gli attacchi alla Stolt Sagaland e alla Hellas Aphrodite.
Il mese di novembre ha proposto un crescendo di avvicinamenti sospetti, scafi non identificati che si accostano a mercantili per poi allontanarsi all’improvviso, petroliere che segnalano la presenza di droni in aree dove solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Le due regioni – Golfo di Guinea e Oceano Indiano – raccontano, seppure con dinamiche diverse, una stessa verità: la pirateria non è affatto un fenomeno residuale. È una minaccia che continua a mutare, sfrutta gli spazi lasciati liberi dalla sicurezza internazionale e approfitta delle fragilità degli Stati costieri. Nel 2025, il mare torna a parlare il linguaggio inquieto delle rotte clandestine, dei sequestri silenziosi e dei gruppi armati che conoscono perfettamente le pieghe della geografia nautica e delle debolezze politiche di intere regioni. Una minaccia che non chiede di essere osservata: semplicemente, ritorna.
«La lotta agli Huthi ha sottratto risorse. Contro i sequestri i mezzi sono limitati»
Stefano Ràkos, è manager del dipartimento di intelligence e responsabile del progetto M.a.r.e. di Praesidium.
In che modo la pirateria nel Golfo di Guinea nel 2025 dimostra una crescente capacità organizzativa rispetto agli anni precedenti?
«La crescente capacità organizzativa emerge soprattutto dall’elevata adattabilità dei pirati al contesto di sicurezza. I gruppi dimostrano di monitorare costantemente l’evoluzione delle misure di protezione, inclusa l’estensione progressiva delle aree coperte da scorte armate o navi militari, e di raccogliere informazioni attraverso canali aperti e circuiti informali. Le aree di attacco vengono quindi selezionate in modo sempre più mirato, privilegiando i settori dove le scorte armate non sono consentite per motivi legali o di scarsa presenza di asset militari. Gli assalti risultano basati su informazioni preventive sui movimenti delle navi e non più su opportunità casuali, indicando un livello di pianificazione e coordinamento superiore rispetto al passato».
Quali fattori hanno consentito ai gruppi criminali dell’Oceano Indiano di tornare a operare a distanze così elevate dalla costa somala, arrivando a colpire navi a oltre 700 miglia?
«A partire dalla fine del 2023, il ritorno delle attività pirata a distanze superiori alle 700 miglia dalla costa somala è stato favorito dallo spostamento dell’attenzione navale internazionale verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden a seguito della crisi legata agli Huthi, con una conseguente riduzione della pressione di controllo nell’Oceano Indiano. La fine del monsone ha ripristinato condizioni meteomarine favorevoli alle operazioni offshore. Sul piano operativo, si è registrata una persistente limitata capacità di interdizione effettiva da parte degli assetti navali internazionali. Nel caso del dirottamento della Ruen nel dicembre 2023, così come in un più recente episodio con dinamiche analoghe, le forze presenti si sono limitate ad attività di monitoraggio a distanza, senza procedere a un’azione diretta di interruzione prima del rientro delle unità verso le coste somale. Questo approccio ha di fatto confermato ai gruppi criminali l’esistenza di ampi margini di manovra operativa, rafforzando la percezione di un basso livello di rischio nelle fasi successive al sequestro».
Che ruolo ha giocato la cooperazione regionale degli Stati dell’Africa occidentale nella gestione dei sequestri e nella risposta agli attacchi, e quali limiti emergono da questi interventi?
«Nella pratica, la cooperazione regionale tra gli Stati dell’Africa occidentale ha inciso in modo molto limitato sulla gestione dei sequestri e sulla risposta agli attacchi. I principali quadri di riferimento, tra cui Ecowas e l’Architettura di Yaoundé con i relativi centri di coordinamento regionali, hanno prodotto soprattutto meccanismi formali di cooperazione e scambio informativo. Tuttavia, tali strutture non si sono tradotte in una capacità operativa realmente integrata. Le risposte restano nazionali, frammentate e spesso tardive, con forti disomogeneità tra le marine locali».
In che misura l’utilizzo di dhow come «navi madre» rappresenta un salto qualitativo nelle operazioni dei pirati somali, e quali rischi introduce per le rotte commerciali globali?
«L’impiego dei dhow come navi madre non rappresenta una tattica nuova, ma una strategia già utilizzata dai pirati somali in passato e oggi tornata pienamente operativa. Questo schema consente di superare i limiti degli skiff, che per autonomia di carburante e condizioni del mare non possono spingersi troppo lontano dalla costa. L’uso di un’imbarcazione più grande permette invece di operare a grande distanza, trasportando uomini, carburante e mezzi d’assalto in aree di mare molto più estese. Una volta avvicinato il bersaglio, vengono poi impiegati gli skiff, più rapidi e adatti alla fase di abbordaggio. Ne deriva un ampliamento diretto dell’area di rischio e una maggiore esposizione delle rotte commerciali globali, anche in settori che in passato erano considerati marginali rispetto alla minaccia pirata. Negli anni d’oro della pirateria somala il loro raggio operativo raggiungeva addirittura le Maldive».
Quali segnali osservabili indicano che nel 2025 la pirateria non è un fenomeno residuale ma un ecosistema in evoluzione che sfrutta lacune statali e vuoti di sicurezza internazionale?
«Nel contesto dell’Oceano Indiano, l’assenza di un controllo statale effettivo su ampie porzioni del territorio somalo continua a costituire un fattore strutturale di instabilità, che facilita la riorganizzazione delle reti criminali. Le missioni navali internazionali, tra cui le componenti europee e le task force multinazionali, non esercitano più il livello di deterrenza raggiunto negli anni precedenti. La Marina indiana mantiene una presenza attiva nella regione, ma gli interventi risultano spesso legati alla presenza di cittadini indiani a bordo delle unità coinvolte. Nel Golfo di Guinea, il quadro appare ancora più critico. I gruppi criminali nigeriani operano con crescente frequenza al di fuori della zona economica esclusiva della Nigeria, spesso in aree dove l’impiego di scorte armate non è consentito. I tempi di risposta delle marine locali risultano generalmente elevati e frammentati, in assenza di un dispositivo internazionale strutturato analogo a quello attivo in Oceano Indiano».
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(Ansa/Arma dei Carabinieri)
Si tratta in particolare di truffatori che ricorrevano al trucco del «finto carabiniere» per sottrarre denaro soprattutto a persone anziane. Tra gli indagati, uno era già detenuto per altra causa; sei sono stati portati in carcere, nove agli arresti domiciliari e cinque sottoposti all’obbligo di dimora.
Il provvedimento nasce da un’indagine convenzionalmente denominata «Altro Mondo», condotta dal Nucleo investigativo di Milano e avviata a partire dal 2023, come risposta alla recrudescenza di furti, rapine e truffe commessi prevalentemente in danno di soggetti vulnerabili, mediante la tecnica del «finto carabiniere».
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