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2018-08-27
Il vero processo al Carroccio è quello sul sequestro ai fondi. Il patto con M5s alla prova del fuoco
Ansa
Oltre al fascicolo relativo alla nave Diciotti, il leader della Lega Matteo Salvini si ritrova accerchiato dalle Procure di mezza Italia. Basta prendere il calendario delle prossime settimane per capire che quello del tribunale dei ministri di Palermo, dove si indaga per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio, potrebbe essere solo uno dei tanti fronti caldi dello scontro tra Salvini e la magistratura. Anzi, l'indagine sul caso Diciotti è forse quella che destra meno preoccupazione in casa della Lega. C'è infatti una data cerchiata di rosso nella sede di via Bellerio. È il 5 settembre, quando il tribunale del riesame di Genova si esprimerà sulla decisione della Cassazione, che ha accolto la richiesta della Procura genovese per sequestrare a tappeto tutti i conti correnti del partito. Potrebbe essere il giorno zero della vecchia Lega, una spada di Damocle sul futuro della creatura fondata nel 1984 da Umberto Bossi che potrebbe portare a smottamenti interni con la nascita della nuova «Lega Salvini premier».
La questione dei sequestri, dovuta alle condanne di Bossi e dell'ex tesoriere Francesco Belsito in primo grado, fu già terreno di battaglia il 5 luglio scorso quando Salvini chiamò in causa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, numero uno del Csm. E proprio a palazzo dei Marescialli, pronto al rinnovo, è accaduto in questi giorni un fatto inconsueto. Per la prima volta dopo anni tutte le correnti della magistratura hanno preso posizione per chiedere il rispetto dell'indipendenza dei magistrati sul presunto sequestro della Diciotti. A ruota anche l'Anm ha parlato di interferenze da parte del ministro dell'Interno. E di certo non hanno aiutato le parole espresse su Facebook dal deputato leghista Giuseppe Bellachioma («se toccate il Capitano vi veniamo a prendere sotto casa»).
L'aria è pesante. Per di più Salvini si ritrova oggetto di una denuncia per razzismo a Treviso e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede del M5s, dovrà prima o poi rispondere alla richiesta della Procura di Torino: Armando Spataro sta aspettando dal 2016 di avere l'autorizzazione a procedere per vilipendio all'ordine giudiziario. Il leader leghista definì all'epoca la magistratura «una schifezza». Non solo. Sempre a Genova, dove il capo della Procura Francesco Cozzi sta lavorando in questi giorni sul crollo del ponte Morandi, cova una nuova inchiesta per riciclaggio sui fondi della Lega, nella gestione post Belsito, quella che va da Roberto Maroni nel 2013 fino appunto all'attuale di Salvini. Oggetto: lo spostamento di 3 milioni di euro dal Lussemburgo alla Sparkasse di Bolzano dopo le elezioni. La segnalazione arrivò da Bankitalia. Le indagini sono in corso. E la possibilità che un avviso di garanzia possa arrivare anche al numero uno del Viminale circola da tempo. La tensione è alta. Non è un caso che Salvini abbia attaccato indirettamente proprio la Procura genovese ieri dopo l'avvio dell'inchiesta sulla Diciotti: «Dieci giorni fa è crollato un ponte sotto il quale sono morte 43 persone e non c'è un indagato; ma indagano un ministro che salvaguarda la sicurezza del Paese. È una vergogna». In procura a Genova hanno recepito il messaggio.
Alessandro Da Rold
Il patto Lega-M5s alla prova del fuoco
«Sempre più determinato a difendere gli italiani, un brindisi a chi indaga, insulta o ci vuole male!». Matteo Salvini è raggiante, e ne ha tutti i motivi. Pubblica su Facebook una foto con una canna da pesca e una pinta di birra, per «festeggiare» l'inchiesta a suo carico per il «caso Diciotti». Salvini brinda alla salute del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che accusandolo di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio, ha servito l'assist perfetto al ministro dell'Interno, che ora vedrà schizzare verso l'alto il suo indice di gradimento e la sua popolarità.
L'«effetto martire» in Italia è una scienza esatta: il politico che finisce nel mirino della magistratura, salvo casi clamorosi di ruberie e mazzette, vede aumentare i consensi. Il vicepremier si ritrova ad essere iscritto nel registro degli indagati per avere fatto quello che aveva sempre promesso di fare: bloccare il flusso di immigrati irregolari. «Da ieri sera», gongola il leader del Carroccio, «quasi 100.000 tweet #nessunotocchiSalvini! Grazie, siete incredibili! Io non mollo, ve lo garantisco».
Lo sanno bene, gli oppositori del governo, che l'inchiesta a suo carico favorirà Salvini dal punto di vista elettorale. Una vecchia volpe come Pier Ferdinando Casini, eletto in Parlamento con il Pd, ieri ha commentato così la notizia: «Il mio giudizio sull'operato del ministro Salvini», ha scritto Casini in una nota, «è chiaro, ma vorrei fosse a tutti altrettanto chiaro che il procuratore della Repubblica di Agrigento, Luigi Patronaggio, ieri ha dato il via alla campagna elettorale del ministro dell'Interno per le elezioni europee. Questo è capitato e capiterà sempre ogni volta che si confondono i piani tra politica e giustizia». Al Pd e alla sinistra radicale, quindi, non è rimasto altro che attaccare il M5s, sperando di aprire una falla nella finora granitica alleanza con la Lega, solleticando gli istinti più giustizialisti della base grillina. Sui social, i sinistratissimi esponenti e militanti di Pd, Leu e cespuglietti vari, hanno fatto circolare a tambur battente un tweet di Luigi Di Maio del 2016, con il quale il capo politico del M5s chiedeva le dimissioni «in 5 minuti» dell'allora ministro dell'Interno, Angelino Alfano, che era stato appena indagato per abuso d'ufficio.
«Non chiediamo», ha twittato l'ex segretario del Pd, Matteo Renzi, «a Di Maio di far dimettere Salvini in 5 minuti. No! Noi diciamo solo a Di Maio che la sua doppia morale è una vergogna civile. E che manganellare via web gli avversari quando fa comodo non è politica, ma barbarie. Parlavano di onestà, dovrebbero scoprire la civiltà». La strategia della sinistra, quella di tentare di sobillare l'ala più giustizialista del M5s, si è dimostrata immediatamente fallimentare. La base grillina, come si può facilmente verificare dai social network, è tutta, senza eccezioni, al fianco di Salvini. Poteva avere un senso, il tentativo del Pd, se il ministro dell'Interno fosse stato indagato per un corruzione, per voto di scambio, per qualunque ipotesi di reato che comporta un tornaconto personale per l'accusato. L'inchiesta a carico di Salvini è invece talmente «politica» che l'elettorato del M5s non fa alcuna fatica non solo a digerirla, ma a schierarsi al fianco del leader alleato. Il tema dell'immigrazione senza controllo è molto sentito dalla base grillina, che in questi pochi mesi di governo legastellato si è resa conto di quante responsabilità abbiano i precedenti esecutivi se l'Italia si ritrova totalmente isolata in Europa, lasciata a contrastare una vera e propria invasione, a tentare di arginare un fiume di immigrati che approdano sulle nostre coste ma che poi si riversano in tutto il continente. Dunque, nessun imbarazzo, nessun distinguo, nessun «se» e nessun «però»: l'elettorato del M5s non ha dato alcun segno di insofferenza o preoccupazione per l'inchiesta a carico del leader della Lega.
Nessun problema ha avuto Luigi Di Maio a spiegare perché il M5s è - e rimarrà - al fianco di Salvini, rintuzzando le accuse della sinistra: «Doppia morale? Alfano», ha ribattuto ieri Di Maio, «si doveva dimettere perché era Angelino Alfano, perché l'inchiesta a suo carico riguardava una questione delicata circa prefetti siciliani e appalti, mentre qui stiamo parlando di una decisione politica, quella di non far sbarcare i migranti, condivisa da tutto il governo. Si tratta di un atto dovuto perché il Viminale ha in capo quelle decisioni. In questi giorni», ha aggiunto Di Maio, «noi non stavamo in giro a chiedere appalti. Tutto quello che è stato fatto è stato fatto nell'interesse nazionale. Questo principio fa il paio con il principio del governo del cambiamento, che sta cominciando a mettere in mostra tutte le ipocrisie dell'Europa. Noi gli atti dovuti, come l'indagine a carico di Salvini, li abbiamo avuti per alcuni sindaci, Nogarin, Appendino, Raggi e questo vale anche per il ministro dell'Interno. Non è che stiamo cambiando linea, se durante le indagini vengono fuori cose sconcertanti allora non aspettiamo il primo grado di giudizio e si devono dimettere». E ancora: «C'è il codice etico dei ministri nel nostro contratto», ha aggiunto Di Maio, «e secondo il codice etico dei ministri e del M5s il ministro deve continuare a fare il ministro. È nostro dovere attuare il programma elettorale ma è anche diritto-dovere della magistratura portare avanti i procedimenti giudiziari. Quindi», ha concluso Di Maio, «pieno rispetto per la magistratura e non facciamo ripiombare questo paese negli scontri tra Procure, pm e politica». Pur con la cautela dovuta al suo ruolo, si è fatto sentire anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: «Ho seguito con attenzione», ha detto, «la vicenda della nave Diciotti. Non entro nel merito delle indagini scattate in seguito a quanto accaduto, posso però dire che il governo è sempre stato compatto su questo fronte: l'Unione europea è evidentemente sorda rispetto agli stessi valori di solidarietà e mutualità che ne erano il fondamento».
Per quanto riguarda l'inchiesta, i pm di Agrigento dovrebbero trasmettere mercoledì il fascicolo alla Procura di Palermo, che a sua volta dovrà poi inoltrare gli atti al tribunale dei ministri, competente sull'indagine visto il coinvolgimento di un membro dell'esecutivo. «Sereno, tranquillo e determinato» si è detto, stando a fonti a lui vicine, il capo di gabinetto di Salvini, Matteo Piantedosi, indagato insieme al vicepremier.
Carlo Tarallo
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Riduci
Il 5 settembre il tribunale di Genova deciderà sul blocco dei conti (anche se è già pronto il nuovo partito). Contro il capo del Viminale pure una denuncia per razzismo.Matteo Salvini è indagato per la Diciotti, grillini a un bivio. L'opposizione stuzzica la base: «Doppia morale». Luigi Di Maio però è sereno: «Matteo resta dov'è, ha fatto solo ciò che aveva promesso».Lo speciale contiene due articoliOltre al fascicolo relativo alla nave Diciotti, il leader della Lega Matteo Salvini si ritrova accerchiato dalle Procure di mezza Italia. Basta prendere il calendario delle prossime settimane per capire che quello del tribunale dei ministri di Palermo, dove si indaga per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio, potrebbe essere solo uno dei tanti fronti caldi dello scontro tra Salvini e la magistratura. Anzi, l'indagine sul caso Diciotti è forse quella che destra meno preoccupazione in casa della Lega. C'è infatti una data cerchiata di rosso nella sede di via Bellerio. È il 5 settembre, quando il tribunale del riesame di Genova si esprimerà sulla decisione della Cassazione, che ha accolto la richiesta della Procura genovese per sequestrare a tappeto tutti i conti correnti del partito. Potrebbe essere il giorno zero della vecchia Lega, una spada di Damocle sul futuro della creatura fondata nel 1984 da Umberto Bossi che potrebbe portare a smottamenti interni con la nascita della nuova «Lega Salvini premier». La questione dei sequestri, dovuta alle condanne di Bossi e dell'ex tesoriere Francesco Belsito in primo grado, fu già terreno di battaglia il 5 luglio scorso quando Salvini chiamò in causa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, numero uno del Csm. E proprio a palazzo dei Marescialli, pronto al rinnovo, è accaduto in questi giorni un fatto inconsueto. Per la prima volta dopo anni tutte le correnti della magistratura hanno preso posizione per chiedere il rispetto dell'indipendenza dei magistrati sul presunto sequestro della Diciotti. A ruota anche l'Anm ha parlato di interferenze da parte del ministro dell'Interno. E di certo non hanno aiutato le parole espresse su Facebook dal deputato leghista Giuseppe Bellachioma («se toccate il Capitano vi veniamo a prendere sotto casa»). L'aria è pesante. Per di più Salvini si ritrova oggetto di una denuncia per razzismo a Treviso e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede del M5s, dovrà prima o poi rispondere alla richiesta della Procura di Torino: Armando Spataro sta aspettando dal 2016 di avere l'autorizzazione a procedere per vilipendio all'ordine giudiziario. Il leader leghista definì all'epoca la magistratura «una schifezza». Non solo. Sempre a Genova, dove il capo della Procura Francesco Cozzi sta lavorando in questi giorni sul crollo del ponte Morandi, cova una nuova inchiesta per riciclaggio sui fondi della Lega, nella gestione post Belsito, quella che va da Roberto Maroni nel 2013 fino appunto all'attuale di Salvini. Oggetto: lo spostamento di 3 milioni di euro dal Lussemburgo alla Sparkasse di Bolzano dopo le elezioni. La segnalazione arrivò da Bankitalia. Le indagini sono in corso. E la possibilità che un avviso di garanzia possa arrivare anche al numero uno del Viminale circola da tempo. La tensione è alta. Non è un caso che Salvini abbia attaccato indirettamente proprio la Procura genovese ieri dopo l'avvio dell'inchiesta sulla Diciotti: «Dieci giorni fa è crollato un ponte sotto il quale sono morte 43 persone e non c'è un indagato; ma indagano un ministro che salvaguarda la sicurezza del Paese. È una vergogna». In procura a Genova hanno recepito il messaggio. Alessandro Da Rold<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-vero-processo-al-carroccio-e-quello-sul-sequestro-ai-fondi-2599257689.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-patto-lega-m5s-alla-prova-del-fuoco" data-post-id="2599257689" data-published-at="1765450443" data-use-pagination="False"> Il patto Lega-M5s alla prova del fuoco «Sempre più determinato a difendere gli italiani, un brindisi a chi indaga, insulta o ci vuole male!». Matteo Salvini è raggiante, e ne ha tutti i motivi. Pubblica su Facebook una foto con una canna da pesca e una pinta di birra, per «festeggiare» l'inchiesta a suo carico per il «caso Diciotti». Salvini brinda alla salute del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che accusandolo di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio, ha servito l'assist perfetto al ministro dell'Interno, che ora vedrà schizzare verso l'alto il suo indice di gradimento e la sua popolarità. L'«effetto martire» in Italia è una scienza esatta: il politico che finisce nel mirino della magistratura, salvo casi clamorosi di ruberie e mazzette, vede aumentare i consensi. Il vicepremier si ritrova ad essere iscritto nel registro degli indagati per avere fatto quello che aveva sempre promesso di fare: bloccare il flusso di immigrati irregolari. «Da ieri sera», gongola il leader del Carroccio, «quasi 100.000 tweet #nessunotocchiSalvini! Grazie, siete incredibili! Io non mollo, ve lo garantisco». Lo sanno bene, gli oppositori del governo, che l'inchiesta a suo carico favorirà Salvini dal punto di vista elettorale. Una vecchia volpe come Pier Ferdinando Casini, eletto in Parlamento con il Pd, ieri ha commentato così la notizia: «Il mio giudizio sull'operato del ministro Salvini», ha scritto Casini in una nota, «è chiaro, ma vorrei fosse a tutti altrettanto chiaro che il procuratore della Repubblica di Agrigento, Luigi Patronaggio, ieri ha dato il via alla campagna elettorale del ministro dell'Interno per le elezioni europee. Questo è capitato e capiterà sempre ogni volta che si confondono i piani tra politica e giustizia». Al Pd e alla sinistra radicale, quindi, non è rimasto altro che attaccare il M5s, sperando di aprire una falla nella finora granitica alleanza con la Lega, solleticando gli istinti più giustizialisti della base grillina. Sui social, i sinistratissimi esponenti e militanti di Pd, Leu e cespuglietti vari, hanno fatto circolare a tambur battente un tweet di Luigi Di Maio del 2016, con il quale il capo politico del M5s chiedeva le dimissioni «in 5 minuti» dell'allora ministro dell'Interno, Angelino Alfano, che era stato appena indagato per abuso d'ufficio. «Non chiediamo», ha twittato l'ex segretario del Pd, Matteo Renzi, «a Di Maio di far dimettere Salvini in 5 minuti. No! Noi diciamo solo a Di Maio che la sua doppia morale è una vergogna civile. E che manganellare via web gli avversari quando fa comodo non è politica, ma barbarie. Parlavano di onestà, dovrebbero scoprire la civiltà». La strategia della sinistra, quella di tentare di sobillare l'ala più giustizialista del M5s, si è dimostrata immediatamente fallimentare. La base grillina, come si può facilmente verificare dai social network, è tutta, senza eccezioni, al fianco di Salvini. Poteva avere un senso, il tentativo del Pd, se il ministro dell'Interno fosse stato indagato per un corruzione, per voto di scambio, per qualunque ipotesi di reato che comporta un tornaconto personale per l'accusato. L'inchiesta a carico di Salvini è invece talmente «politica» che l'elettorato del M5s non fa alcuna fatica non solo a digerirla, ma a schierarsi al fianco del leader alleato. Il tema dell'immigrazione senza controllo è molto sentito dalla base grillina, che in questi pochi mesi di governo legastellato si è resa conto di quante responsabilità abbiano i precedenti esecutivi se l'Italia si ritrova totalmente isolata in Europa, lasciata a contrastare una vera e propria invasione, a tentare di arginare un fiume di immigrati che approdano sulle nostre coste ma che poi si riversano in tutto il continente. Dunque, nessun imbarazzo, nessun distinguo, nessun «se» e nessun «però»: l'elettorato del M5s non ha dato alcun segno di insofferenza o preoccupazione per l'inchiesta a carico del leader della Lega. Nessun problema ha avuto Luigi Di Maio a spiegare perché il M5s è - e rimarrà - al fianco di Salvini, rintuzzando le accuse della sinistra: «Doppia morale? Alfano», ha ribattuto ieri Di Maio, «si doveva dimettere perché era Angelino Alfano, perché l'inchiesta a suo carico riguardava una questione delicata circa prefetti siciliani e appalti, mentre qui stiamo parlando di una decisione politica, quella di non far sbarcare i migranti, condivisa da tutto il governo. Si tratta di un atto dovuto perché il Viminale ha in capo quelle decisioni. In questi giorni», ha aggiunto Di Maio, «noi non stavamo in giro a chiedere appalti. Tutto quello che è stato fatto è stato fatto nell'interesse nazionale. Questo principio fa il paio con il principio del governo del cambiamento, che sta cominciando a mettere in mostra tutte le ipocrisie dell'Europa. Noi gli atti dovuti, come l'indagine a carico di Salvini, li abbiamo avuti per alcuni sindaci, Nogarin, Appendino, Raggi e questo vale anche per il ministro dell'Interno. Non è che stiamo cambiando linea, se durante le indagini vengono fuori cose sconcertanti allora non aspettiamo il primo grado di giudizio e si devono dimettere». E ancora: «C'è il codice etico dei ministri nel nostro contratto», ha aggiunto Di Maio, «e secondo il codice etico dei ministri e del M5s il ministro deve continuare a fare il ministro. È nostro dovere attuare il programma elettorale ma è anche diritto-dovere della magistratura portare avanti i procedimenti giudiziari. Quindi», ha concluso Di Maio, «pieno rispetto per la magistratura e non facciamo ripiombare questo paese negli scontri tra Procure, pm e politica». Pur con la cautela dovuta al suo ruolo, si è fatto sentire anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: «Ho seguito con attenzione», ha detto, «la vicenda della nave Diciotti. Non entro nel merito delle indagini scattate in seguito a quanto accaduto, posso però dire che il governo è sempre stato compatto su questo fronte: l'Unione europea è evidentemente sorda rispetto agli stessi valori di solidarietà e mutualità che ne erano il fondamento». Per quanto riguarda l'inchiesta, i pm di Agrigento dovrebbero trasmettere mercoledì il fascicolo alla Procura di Palermo, che a sua volta dovrà poi inoltrare gli atti al tribunale dei ministri, competente sull'indagine visto il coinvolgimento di un membro dell'esecutivo. «Sereno, tranquillo e determinato» si è detto, stando a fonti a lui vicine, il capo di gabinetto di Salvini, Matteo Piantedosi, indagato insieme al vicepremier. Carlo Tarallo
Ursula von der Leyen (Ansa)
Per quanto riguarda, invece, la direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale (Csrd), che impone alle aziende di comunicare il proprio impatto ambientale e sociale, l’accordo prevede si applichi solo alle aziende con più di 1.000 dipendenti e un fatturato netto annuo di 450 milioni di euro.
Con le modifiche decise due giorni fa, l’80% delle aziende che sarebbero state soggette alla norma saranno ora liberate dagli obblighi. Festeggia Ursula von der Leyen: «Accolgo con favore l’accordo politico sul pacchetto di semplificazione Omnibus I. Con un risparmio fino a 4,5 miliardi di euro ridurrà i costi amministrativi, taglierà la burocrazia e renderà più semplice il rispetto delle norme di sostenibilità», ha detto il presidente della Commissione.
In un comunicato stampa, la Commissione dice: «Le misure proposte per ridurre l’ambito di applicazione della Csrd genereranno notevoli risparmi sui costi per le aziende. Le modifiche alla Csddd eliminano inutili complessità e, in ultima analisi, riducono gli oneri di conformità, preservando al contempo gli obiettivi della direttiva».
Dunque, ricapitolando, la revisione libera dall’obbligo di conformità l’80% dei soggetti obbligati dalla vecchia norma, il che significa evidentemente che per l’80% dei casi quella norma era inutile, anzi dannosa, visto che comportava costi ingenti per il suo rispetto e nessuna utilità pratica. Se vi fosse stata una qualche utilità la norma sarebbe rimasta anche per questi, è chiaro.
Non solo. Von der Leyen si rallegra di avere fatto risparmiare 4,5 miliardi di euro, come se a scaricare quella montagna di costi sulle aziende fosse stato qualcun altro o il destino cinico e baro, e non la norma che lei stessa e la sua maggioranza hanno voluto. La Commissione si rallegra di aver semplificato cose che essa stessa ha complicato, di avere tolto burocrazia dopo averla messa.
In questa commedia si potrebbe sospettare una regia di Eugène Ionesco, se fosse ancora vivo. La verità è che già la scorsa primavera, Germania e Francia avevano chiesto l’abrogazione completa delle norme. Nelle dichiarazioni a seguito dell’accordo tra Consiglio Ue e Parlamento, con la benedizione della Commissione, non è da meno il sagace ministro danese dell’Industria, Morten Bodskov (la Danimarca ha la presidenza di turno del Consiglio Ue): «Non stiamo rimuovendo gli obiettivi green, stiamo rendendo più semplice raggiungerli. Pensavamo che legislazione verde più complessa avrebbe creato più posti di lavoro green, ma non è così: anzi, ha generato lavoro per la contabilità». C’è da chiedersi se da quelle parti siano davvero sorpresi dell’effetto negativo generato dall’imposizione di inutile burocrazia sulle aziende. Sul serio a Bruxelles qualcuno pensa che complicare la vita alle imprese generi posti di lavoro? Sono dichiarazioni ben più che preoccupanti.
Fine di un incubo per migliaia di aziende europee, dunque, ma i problemi restano, essendo la norma di difficile applicazione pratica anche per le multinazionali. Sulla revisione delle due direttive hanno giocato certamente un ruolo le pressioni degli Stati Uniti, dopo che Donald Trump a più riprese ha sottolineato come vi siano barriere non di prezzo all’ingresso nel mercato europeo che devono essere eliminate. Due di queste barriere sono proprio le direttive Csrd e Csddd, che restano in vigore per le grandi aziende. Non a caso, il portavoce dell’azienda americana del petrolio Exxon Mobil ha fatto notare che si tratta di norme extraterritoriali, definendole «inaccettabili», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder ha detto che le norme rendono difficile la fornitura all’Europa dell’energia di cui ha bisogno.
La sensazione è che si vada verso un regime di esenzioni ad hoc, si vedrà. Ma i lamenti arrivano anche dalla parte opposta. La finanza green brontola perché teme un aumento dei rischi, senza i piani climatici delle aziende, che però nessuno sinora ha mai visto. Misteri degli algoritmi Esg.
Ora le modifiche, che fanno parte del pacchetto Omnibus I presentato lo scorso febbraio dalla Commissione, dovranno essere approvate dal Consiglio Ue, dove votano i ministri e dove non dovrebbe incontrare ostacoli, e dal Parlamento europeo, dove invece è possibile qualche sorpresa nel voto. La posizione del Parlamento che ha portato all’accordo di martedì è frutto di una intesa tra i popolari del Ppe e la destra dei Patrioti e di Ecr. Il gruppo dei Patrioti esulta, sottolineando come l’accordo sia frutto di una nuova maggioranza di centrodestra che rende superata la maggioranza attuale tra Ppe, Renew e Socialisti.
Il risvolto politico della vicenda è che si è rotto definitivamente il «cordone sanitario» steso a Bruxelles attorno al gruppo che comprende il Rassemblement national francese di Marine Le Pen, il partito ungherese Fidesz e la Lega di Matteo Salvini.
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Riduci
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
La Bce, pur riconoscendo «alcune novità (nel testo riformulato) che vanno incontro alle osservazioni precedenti», in particolare «il rispetto degli articoli del trattato sulla gestione delle riserve auree dei Paesi», continua ad avere «dubbi sulla finalità della norma». Con la lettera, Giorgetti rassicura che l’emendamento non mira a spianare la strada al trasferimento dell’oro o di altre riserve in valuta fuori del bilancio di Bankitalia e non contiene nessun escamotage per aggirare il divieto per le banche centrali di finanziare il settore pubblico.
Il ministro potrebbe inoltre fornire un ulteriore chiarimento direttamente alla presidente Lagarde, oggi, quando i due si incontreranno per i lavori dell’Eurogruppo. Se la Bce si riterrà soddisfatta delle precisazioni, il ministero dell’Economia darà indicazioni per riformulare l’emendamento.
Una nota informativa di Fdi, smonta i pregiudizi ideologici e le perplessità che sono dietro alla nota della Bce. «L’emendamento proposto da Fratelli d’Italia è volto a specificare un concetto che dovrebbe essere condiviso da tutti: ovvero che le riserve auree sono di proprietà dei popoli che le hanno accumulate negli anni, e quindi», si legge, «si tratta di una previsione che tutti danno per scontata. Eppure non è mai stata codificata nell’ordinamento italiano, a differenza di quanto è avvenuto in altri Stati, anche membri dell’Ue. Affermare che la proprietà delle riserve auree appartenga al popolo non confligge, infatti, in alcun modo con i trattati e i regolamenti europei». Quindi ribadire un principio scontato, e cioè che le riserve auree sono di proprietà del popolo italiano, non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. «Già nel 2019 la Bce, allora guidata da Mario Draghi, aveva chiarito che la questione della proprietà legale e delle competenze del Sistema europeo delle banche centrali (Sebc), con riferimento alle riserve auree degli Stati membri, è definita in ultima istanza dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue)». La nota ricorda che «il parere della Bce del 2019, analogamente a quello redatto lo scorso 2 dicembre, evidenziava che il Trattato non determina le competenze del Sebc e della Bce rispetto alle riserve ufficiali, usando il concetto di proprietà. Piuttosto, il Trattato interviene solo sulla dimensione della detenzione e gestione esclusiva delle riserve. Pertanto, dire che la proprietà delle riserve auree sia del popolo italiano non lede in alcun modo la prerogativa della Banca d’Italia di detenere e gestire le riserve».
Altro punto: Fdi spiega che «nel Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Ue) si parla di “riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri”, quindi si prevede implicitamente che la proprietà delle riserve sia in capo agli Stati. L’emendamento di Fdi vuole esplicitare nell’ordinamento italiano questa previsione». C’è chi sostiene che affermare che la proprietà delle riserve auree di Bankitalia è del popolo italiano non serva a nulla. Ma Fdi dice che «l’Italia non può correre il rischio che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani. Per questo c’è bisogno di una norma che faccia chiarezza sulla proprietà».
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Riduci
Con Giuseppe Trizzino fondatore e Amministratore Unico di Praesidium International, società italiana di riferimento nella sicurezza marittima e nella gestione dei rischi in aree ad alta criticità e Stefano Rákos Manager del dipartimento di intelligence di Praesidium International e del progetto M.A.R.E.™.
Christine Lagarde (Ansa)
Come accade, ad esempio, in quel carrozzone chiamato Unione europea dove tutti, a partire dalla lìder maxima, Ursula von der Leyen, non dimenticano mai di inserire nella lista delle priorità l’aumento del proprio stipendio. Ne ha parlato la Bild, il giornale più letto e venduto d’Europa, raccontando come la presidente della Commissione europea abbia aumentato il suo stipendio, e quello degli euroburocrati, due volte l’anno. E chiunque non sia allergico alla meritocrazia così come alle regole non scritte dell’accountability (l’onere morale di rispondere del proprio operato) non potrà non scandalizzarsi pensando che donna Ursula, dopo aver trasformato l’Ue in un nano economico, ammazzando l’industria europea con il folle progetto del Green deal, percepisca per questo capolavoro gestionale ben 35.800 euro al mese, contro i 6.700 netti che, ad esempio, guadagna il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni.
Allo stesso modo funzionano le altre istituzioni dell’Unione europea. L’Ue impiega circa 60.000 persone all’interno delle sue varie istituzioni e organi, distribuiti tra Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo (la Commissione europea, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, la Corte di giustizia dell’Unione europea e il Comitato economico e sociale). La funzione pubblica europea ha tre categorie di agenti: gli amministratori, gli assistenti e gli assistenti segretari. L’Ue contrattualizza inoltre molti agenti contrattuali. Secondo i dati della Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 2019, questi funzionari comunitari guadagnano tra 4.883 euro e 18.994 euro mensili (gradi da 5 a 16 del livello 1).
Il «vizietto» di alzarsi lo stipendio ha fatto scuola anche presso la Banca centrale europea (Bce), che ha sede a Francoforte, in Germania, ed è presieduta dalla francese, Christine Lagarde. Secondo quanto riassunto nel bilancio della Bce, lo stipendio base annuale della presidente è aumentato del 4,7 per cento, arrivando a 466.092 euro rispetto ai 444.984 euro percepiti nel 2023 (cui si aggiungono specifiche indennità e detrazioni fiscali comunitarie, diverse da quelle nazionali), ergo 38.841 euro al mese. Il vicepresidente Luis de Guindos, spagnolo, percepisce circa 400.000 euro (valore stimato in base ai rapporti precedenti, di solito corrispondente all’85-90% dello stipendio della presidente). Gli altri membri del comitato esecutivo guadagnano invece circa 330.000-340.000 euro ciascuno. Ai membri spettano anche le indennità di residenza (15% dello stipendio base), di rappresentanza e per figli a carico, che aumentano il netto effettivo. Il costo totale annuale del personale della Bce è di 844 milioni di euro, valore che include stipendi, indennità, contributi previdenziali e costi per le pensioni di tutti i dipendenti della banca. Il dato incredibile è che questa voce è aumentata di quasi 200 milioni in due anni: nel 2023, infatti, il costo totale annuale del personale era di 676 milioni di euro. Secondo una nota ufficiale della Bce, l’incremento del 2024 è dovuto principalmente a modifiche nelle regole dei piani pensionistici e ai benefici post impiego, oltre ai normali adeguamenti salariali legati all’inflazione, cresciuta del 2,4 per cento a dicembre dello scorso anno. La morale è chiara ed è la stessa riassunta ieri dal direttore, Maurizio Belpietro: per la Bce l’inflazione va combattuta in tutti i modi, ma se si tratta dello stipendio dei funzionari Ue, il discorso non vale.
Stessa solfa alla Corte di Giustizia che ha sede a Lussemburgo: gli stipendi variano notevolmente a seconda della posizione (avvocato, cancelliere, giudice, personale amministrativo), ma sono generalmente elevati, con giuristi principianti che possono guadagnare da 2.000 a 5.000 euro al mese e stipendi più alti per i magistrati, anche se cifre precise per i giudici non sono facilmente disponibili pubblicamente. Gli stipendi si basano sulle griglie della funzione pubblica europea e aumentano con l’anzianità, passando da 2.600 euro per il personale esecutivo a oltre 18.000 euro per alcuni alti funzionari.
Il problema, va precisato, non risiede nel fatto che le persone competenti siano pagate bene, com’è giusto che sia, ma che svolgano bene il proprio lavoro e soprattutto che ci sia trasparenza sui salari. Dei risultati delle politiche di Von der Leyen e Lagarde i giudici non sono esattamente entusiastici, ma il conto lo pagano, come al solito, i cittadini europei.
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