2019-06-04
Il ricatto di Conte a Salvini e Di Maio: «Tratto io con l’Ue altrimenti lascio»
Il premier bacchetta i vice: «Europee passate, finite la caccia ai like». Poi li taglia fuori dalla partita per evitare l'infrazione: «Me ne occupo con Tria e Mattarella». E dà l'ultimatum: «Rispondete in fretta, non vivacchio».Spostatevi, guido io. Giuseppe Conte aspetta che chiudano i mercati per chiedere a Matteo Salvini e Luigi di Maio di fare un passo di lato, di tornare a guardare lo stesso orizzonte, di smetterla di litigare come se la campagna elettorale fosse infinita. «Non vivacchio, o si va avanti decisi e coesi nel voler cambiare il Paese oppure rimetto il mandato». E mentre parla a Palazzo Chigi, in una sorta di sovrapposizione fisiognomica il suo volto lascia il posto a quello di Sergio Mattarella. Il destino del premier è da sempre appeso ai fili: finora erano quelli delle due forze di governo, da ieri sera sono quelli del Quirinale.Il senso del discorso agli italiani è semplice e definitivo, rappresenta un ultimatum e pure un ricatto politico. Il cuore di tutto è in una frase, il resto è contorno di piselli: «Ciascun ministro si concentri sulla propria materia senza prevaricare su scelte che non gli competono, suscettibili di compromettere in prospettiva la credibilità dell'intero esecutivo. Leale collaborazione significa che se ci sono questioni politiche lo si dice rispettando la grammatica istituzionale, parlando in modo chiaro e non lanciando messaggi ambigui sui giornali». La traduzione è scontata: Salvini si occupi di sicurezza e di migranti, Di Maio di lavoro e di sviluppo. Ma l'Ue e i mercati, quei delicatissimi baluardi delle élite che ad ogni sospiro reagiscono male, non sono affari loro. Conte è stato chiarissimo: di Europa e di mercati, di deficit e di clausole di salvaguardia si devono occupare lui stesso e il ministro Giovanni Tria con la supervisione del Colle. I fiori a Pierre Moscovici li porteranno loro perché lui dai sovranisti non li vuole. «E con l'Europa farò il massimo per interloquire nel modo giusto difendendo gli interessi dei cittadini italiani». È un punto di svolta, è l'«io non ci sto» di scalfariana memoria pronunciato con garbo laico e ispirato dalla raffinata mente democristiana di Mattarella, al partito del quale Conte s'è iscritto d'autorità lasciando il M5s. È partito il countdown, il presidente del Consiglio lo dice serenamente. «Tutti i problemi, anche quelli più spinosi, si possono affrontare con una forte coesione e una forte condivisione. In un clima diverso non ci sarà possibilità di successo. Questa non è una diffida a tempo come quella del creditore con il debitore, ma un richiamo alla chiarezza d'intenti e al superamento del clima elettorale. Non posso continuare da solo». Dopo il vertice monco di ieri sera sullo sblocca-cantieri, ora lui va in Vietnam. Starà via quattro giorni e al ritorno, tra giovedì e venerdì, si aspetta una risposta anche nei fatti. «La chiedo chiara, inequivoca e rapida». Ma il nodo è sempre lo stesso. Se non ci saranno rassicurazioni sulla gestione economica e sul rapporto con l'Europa, se non ci sarà la legittimazione forte del ministro Tria (il più prossimo al Quirinale, che a sua volta ha un legame privilegiato con Angela Merkel ed Emmanuel Macron) «rimetterò il mandato nelle mani del capo dello Stato». Di Maio e Salvini sanno cosa significa: crisi a luglio, elezioni a settembre, marasma politico, spread a livello calippo nella hit parade dei termini più gettonati a ferragosto, rischio collasso. Un ricatto politico in piena regola orchestrato da Bruxelles. Sarebbe in parte la replica dell'estate del 2011 con il governo Berlusconi in balia dei temporali.Per evitare tutto ciò occupatevi d'altro, sembra suggerire Conte, anche perché vi viene bene. Il premier non tralascia di sottolineare l'impegno e i risultati di un anno di lavoro, il suo giudizio favorevole sui pilastri del contratto di governo da ambo le parti. Promette alla Lega che condurrà il porto «la riforma organica del Fisco», una metafora per non pronunciare i termini flat tax, e il progetto delle autonomie «pur senza rompere gli equilibri nazionali». Promette ai pentastellati che arriveranno in aula con ottime possibilità di diventare legge i provvedimenti a loro cari: anti corruzione e conflitto d'interessi, riforma del codice penale e civile. Gli viene pure facile, sono ambiti legittimi riguardo ai quali l'opposizione (non avendo controproposte) non può che limitarsi ad esercitare chiassosi happening.Due passaggi non secondari sono quelli sul vagheggiato rimpasto («Non mi è giunta alcuna richiesta») e sull'immigrazione, ultimo terreno di scontro fra Lega e 5 stelle: «La nostra non è una linea dura, ma di maggior rigore rispetto al passato. E non riguarda solo gli sbarchi, ma la gestione complessiva dei flussi migratori». Poi si arrabbia con una giornalista tedesca che vorrebbe far passare il canale di Sicilia per un cimitero voluto dagli italiani e prende le distanze dai grillini («Non mi sento legato al Movimento 5 stelle»). Così diventa all'istante un soggetto politico, un fedele seguace della linea Quirinale, anche lui una risorsa per il futuro. Quando qualcuno a corto di fantasia gli fa una domanda giocando sul cognome uguale a quello dell'allenatore dell'Inter, si capisce che non c'è più niente da dire. «Se ci fosse il posto sarei disposto ad allenare la Roma», risponde gentile. Ma è già lontano, la palla che scotta l'ha passata agli altri.
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