2018-03-20
Il primo punto del patto Lega-M5s è fare affondare il Def di Gentiloni
I due partiti usciti vincitori dalle urne hanno un accordo sui temi economici: via la Fornero, spinta alla natalità, ma soprattutto fermare la tagliola dell'Iva. Pronta la convergenza in Parlamento per bocciare il documento del governo e modificarlo. Intanto nel centrodestra i doppi incarichi creano scompiglio. Una trentina di eletti in Parlamento sono anche consiglieri regionali: le due poltrone sono incompatibili, ma molti azzurri temporeggiano. Rischia di durare pochi giorni il sogno di Pier Carlo Padoan e Paolo Gentiloni di farsi un Def, il documento triennale di politica economica e finanziaria, discutendolo in beata solitudine con Bruxelles. Nelle ultime ore la Commissione Ue ha fatto sapere che aspetterà il nuovo governo e che uno sforamento di poche settimane sul termine del 10 aprile non sarà un dramma. E non a caso M5s e Lega lavorano anche a un accordo sul Def, partendo dall'abolizione immediata della tagliola dei rincari Iva in caso di sforamento del deficit. È stata proprio la trappola dell'Iva a insospettire Luigi Di Maio, candidato premier dei 5 stelle, e i suoi consiglieri economici, a cominciare dal ministro in pectore dell'Economia, Andrea Roventini. «Se lasciamo fare il Def a quelli del Pd, ci legano le mani per due anni con lo spauracchio dell'Iva e noi non potremo fare nulla di quello per cui abbiamo preso i voti di milioni di italiani», è stato il ragionamento dei vertici del Movimento. Per gestirsi anche il prossimo Def, Padoan aveva preso la rincorsa. Lo scorso 21 febbraio aveva affermato: «Stiamo già scrivendo il prossimo Def perché non credo che ad aprile ci sarà un governo in pieno potere». Poi, dopo la disfatta del suo partito e l'impossibilità manifesta di fare un governo con Silvio Berlusconi, il reggente del Tesoro ha tentato una doppia mossa: da un lato ha spiegato che avrebbe fatto un Def «assolutamente tecnico» (qualche tabella aggiornata e poco più); dall'altro ha sparso panico nell'aria affermando che l'Italia adesso «è un elemento di incertezza per l'Ue». Ma a Bruxelles lo hanno un po' mollato e non solo Pierre Moscovici, commissario per gli Affari economici, ha ribadito che «l'Italia resta un partner affidabile», ma dalla Commissione è arrivato anche un via libera informale a sforare sul termine del 10 aprile. Nel frattempo, sempre alla voce «panico», lo spread con i Bund tedeschi si mantiene a quota 130 punti, addirittura 4 punti base sotto il livello di venerdì 2 marzo. A questo punto, ci sono due alternative. O il governo uscente lascia perdere la scrittura del Def, oppure si presenta in Parlamento comunque con un testo proprio, che però a quel punto rischia seriamente di essere bocciato, a meno che non recepisca le misure proposte da 5 stelle e Lega. Che cosa ci sia in questa prima agenda condivisa, è presto detto. Sull'eliminazione della tagliola Iva c'è accordo. Le coperture sono ancora da trovare, e si parla dei soliti tagli delle detrazioni fiscali per aziende e cittadini. Va detto che stiamo parlando di 12 miliardi nel 2019 e altri 19 miliardi l'anno seguente. Sono tanti soldi, ma in soccorso di Di Maio viene il fatto che tutto sommato, in sede di Def, gli impegni e le coperture di spesa sono meno stringenti che nella legge di bilancio. I 5 stelle, che ragionano più che altro su un governo monocolore con appoggio esterno della Lega, vogliono poi tirare fuori dal cilindro una misura vistosa a favore delle imprese e un provvedimento per la famiglia, che rilanci la natalità. E anche su queste due direttrici sono convinti che Matteo Salvini darà il suo contributo. Resta invece spinosissimo il tema delle due misure bandiera delle rispettive campagne elettorali. Il reddito di cittadinanza non piace alla Lega, che lo trova diseducativo, e la flat tax non piace a M5s, che teme un regalo ai ricchi. Risultato: si tenterà un anticipo di reddito di cittadinanza e qualche misura di semplificazione fiscale che piaccia ai redditi più elevati. Per coprire il lavorio sulla parte propositiva della politica economica, ieri Di Maio ha anche ribadito ai suoi senatori che per prima cosa «aboliremo le leggi odiose». Si tratta innanzitutto del Jobs Act, o quantomeno di recuperare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sui licenziamenti, e poi della riforma Fornero delle pensioni. Che però è un altro giochino assai costoso, visto che abolirla costerebbe 70 miliardi l'anno. Più facile un accordio per un ritorno graduale ai vecchi quozienti. E mentre Beppe Grillo, intervistato da Repubblica al termine di uno spettacolo, conferma che M5s sta cambiando pelle e mira a stare al potere «20 anni, senza vaffa, ma anche senza inciuci», ieri Di Maio ha motivato ancora una volta le truppe parlamentari. «Saremo il perno di questa legislatura e dobbiamo ragionare da maggioranza», ha detto ai senatori, giunti a Palazzo Madama per sbrigare le questioni burocratiche. Dopo di che ha ammesso quello che da giorni sostengono i giornali: «La presidenza del Senato andrà alla Lega, mentre quella della Camera tocca a noi». Non solo, ma si fa strada anche l'ipotesi raccontata per prima da La Verità domenica, ovvero che a guidare il Senato sia Salvini, con Di Maio a Montecitorio. Pensato probabilmente dal Quirinale come un modo per ingabbiare i due leader in un ruolo istituzionale e stanarli con un primo mandato per la formazione di un governo, in realtà uno schema del genere potrebbe non dispiacere neppure agli interessati. Salvini prenderebbe il primo incarico, come seconda carica dello Stato, e Di Maio raccoglierebbe il testimone in caso di suo insuccesso. Entrambi, se non dovessero farcela, potrebbero pretendere le elezioni e tornare dai propri elettori dicendo che «il Palazzo» ha provato a tenerli fuori dalla stanza dei bottoni. E questa volta, riuscire a prendere tutti i voti necessari. Unico momento di imbarazzo, condito dal silenzio del leader, la riammissione nel gruppo del Movimento al Senato di Emanuele Dessì, il candidato con la casa popolare a 7 euro al mese. Francesco Bonazzi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/il-primo-punto-del-patto-lega-m5s-e-fare-affondare-il-def-di-gentiloni-2550032943.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-doppi-incarichi-agitano-il-centrodestra" data-post-id="2550032943" data-published-at="1757565748" data-use-pagination="False"> I doppi incarichi agitano il centrodestra Francesca Pascale LaPresse L'atmosfera all'interno del centrodestra è di guerra fredda: tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini il barometro segna maltempo tendente alla bufera, con Giorgia Meloni alla finestra. Più dei tanti retroscena, a dimostrare il clima di diffidenza che caratterizza i rapporti tra alleati, ci sono alcuni esempi concreti. Prendiamo il caso di Galeazzo Bignami, neodeputato di Forza Italia, eletto il 4 marzo scorso. Bignami è anche consigliere regionale, capogruppo azzurro in Emilia Romagna, e dunque si ritrova in una condizione molto particolare, comune a circa una trentina di nuovi eletti: le cariche di parlamentare e consigliere regionale sono incompatibili, e quindi il neodeputato dovrà dimettersi dall'assemblea della Regione se vorrà entrare alla Camera. Quando lo farà? Aspetterà il più possibile. La motivazione non è opportunistica, ovvero causata dal fatto che, essendo il ritorno alle urne un'ipotesi tutt'altro che remota, i consiglieri regionali che sono stati eletti in Parlamento potrebbero ritrovarsi ad aver lasciato invano le loro poltrone: le regionali in Emilia Romagna sono in programma infatti tra solo un anno. «La cosa che brucia di più», spiega Bignami alla Verità, «è che il primo dei non eletti in Consiglio regionale, che mi subentrerebbe, pur candidatosi con Forza Italia nel 2014, si è nel frattempo avvicinato alla Lega, e ha fatto campagna elettorale per Salvini. Ho già comunicato alla Regione Emilia Romagna che rinuncio allo stipendio di consigliere regionale, ma aspetterò tutta la trafila burocratica per dimettermi. La Regione ha chiesto all'ufficio tecnico legislativo della Camera dei deputati come procedere. Aspetterò», conclude Bignami, «la risposta della Camera», che potrebbe arrivare tra mesi. Il subentrante, Michele Facci, ha aderito al Movimento sovranista di Gianni Alemanno, «gemellato» con il Carroccio: basta uno sguardo al suo profilo Facebook per rendersi conto che ormai con Forza Italia non ha più nulla, ma proprio nulla, a che spartire. Il fatto che Bignami freni sulle dimissioni dal Consiglio, prendendo tempo, per rinviare il più possibile l'ingresso al suo posto di Facci, teoricamente un alleato, la dice lunga sui rapporti all'interno del centrodestra. La speranza di Silvio Berlusconi di evitare l'accordo tra Lega e M5s è appesa ormai alle mosse di Roberto Maroni, che nelle intenzioni del leader azzurro, dovrebbe riuscire a «sfilare» qualche decina di parlamentari a Matteo Salvini, in nome dell'unità del centrodestra e del «no» all'intesa con Di Maio. Più che un'ipotesi, un miraggio, così come le ventilate ripercussioni sulle alleanze di governo nelle Regioni in caso di governo Lega-M5s: ve li immaginate i consiglieri regionali e gli assessori maroniani e berlusconiani, in Liguria, Lombardia e Veneto, che mollano le poltrone per fare un dispetto a Salvini? «L'unica speranza», confida un forzista di primissimo piano, «per evitare l'accordo tra Lega e M5s è che gli avversari interni di Salvini e Di Maio riescano a ostacolare il loro disegno. Parliamo di Maroni da una parte e Roberto Fico e gli ortodossi dall'altra, che verrebbero messi all'angolo se i due leader riuscissero nel loro intento». A proposito di Berlusconi, la già mesta atmosfera che ha avvolto Arcore dopo la batosta elettorale è diventata nelle ultime ore ancora più cupa. La «maledizione di Dudù», infatti, ha colpito ancora: Maria Tripodi, grande amica di Francesca Pascale, candidata in Calabria, era stata l'unica esponente del «cerchietto tragico» della fidanzata di Berlusconi ad essere eletta, dopo il flop inaspettato di Vanessa Sgarito. Incredibilmente, dopo aver festeggiato l'elezione, la Tripodi si è ritrovata fuori dalla Camera, dopo che la Corte di Appello di Catanzaro ha concluso le verifiche dei voti assegnando il seggio a Fausto Orsomarso di Fratelli d'Italia. La strategia di Matteo Salvini e Luigi Di Maio prevede, stando alle indiscrezioni che circolano ai piani alti del centrodestra, un colpo di scena: proporre il Mattarellum a Mattarella. Il programma che verrà sottoposto al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per varare un esecutivo sostenuto da Lega e M5s è pronto. Salvini e Di Maio daranno vita a un governo di scopo con tre punti programmatici da realizzare, per poi tornare al voto. I punti sarebbero i seguenti: taglio degli stipendi dei parlamentari (con abolizione dei vitalizi), abolizione della legge Fornero sulle pensioni, approvazione di una nuova legge elettorale che garantisca la governabilità. Ma più che «nuova», la legge proposta da Lega e M5s sarebbe quella che è rimasta in vigore dal 1993 al 2005, che porta proprio il nome dell'attuale inquilino del Colle, che ne fu il relatore.Il Mattarellum è un sistema misto tra maggioritario e proporzionale, come il Rosatellum con il quale abbiamo votato lo scorso 4 marzo, ma al contrario della legge elettorale attualmente in vigore prevede che la parte più ampia dei seggi, il 75%, sia assegnata attraverso il maggioritario, mentre il Rosatellum (non a caso definito Mattarellum rovesciato) attribuisce soltanto il 36% dei seggi attraverso i collegi uninominali. Dunque, il Mattarellum ha la caratteristica di indirizzare il sistema politico verso il bipartitismo, costringendo i partiti ad aggregarsi per vincere le sfide nei collegi. Salvini e Di Maio diventerebbero i leader dei due poli che andrebbero poi a sfidarsi alle successive elezioni. Non solo: i leader di Lega e M5s avrebbero in mente di aumentare la quota di parlamentari eletti con il maggioritario, fino all'80% (c'è chi parla addirittura del 90%).Carlo Tarallo
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