2020-02-20
Il pm chiede di condannare sette rom. «La loro è incultura, odiano le donne»
A Firenze il magistrato invoca 22 anni di pena per gli zingari che durante una faida uccisero il giovane Duccio Dini. La requisitoria sfida il buonismo: «Spregiano la figura femminile». Fdi: «Ma il loro campo è ancora lì».Il procuratore Tommaso Coletta ama dire che la sua è «una giustizia che risolve i problemi della gente qualunque. Una giustizia che tratta con pari dignità quelli che potrebbero sembrare casi piccoli, ma dal quale si possono strutturare grandi tragedie». È la verità, al netto della retorica. Coletta si sts occupando in prima persona di un caso che non ha delle celebrità fra i protagonisti, un caso che ha fatto deflagrare una tragedia enorme nella vita di tante persone comuni. Stiamo parlando dell'atroce vicenda di Duccio Dini, ammazzato a 29 anni il 10 giugno del 2018 in una maniera orrenda.Era domenica, il tempo era buono, Duccio era fermo sul suo scooter al semaforo tra via Canova e via Simone Martini, a Firenze, stava andando al lavoro. Viveva ancora con i genitori, ma da lì a un paio di giorni si sarebbe trasferito a Roma per iniziare una nuova attività. Nella Capitale non è mai arrivato. Mentre aspettava al semaforo gli si è schiantata addosso una Volvo S60, una bestia metallica schiumante, con i suoi 1.984 centimetri cubi di cilindrata lanciati a 103 chilometri orari. Duccio ha fatto un volo di dieci metri, ha perso conoscenza. La morte cerebrale è stata dichiarata il giorno dopo al Careggi di Firenze.Alla guida della Volvo c'era Mustafa Remzi, 21 anni, rom del campo fiorentino del Poderaccio. Non era solo. In auto con lui c'erano Amet Remzi (65 anni), Amet Kjamuran (38 anni) e Mustafa Deharan (36 anni). Ma a correre a folle velocità sulle strade toscane erano anche altre due auto: una Lancia Libra guidata da Antonio Mustafa e una Opel Vivaro a bordo della quale si trovavano Emin Gani e Kole Amet. Stavano inseguendo una Opel Zafira guidata da Bajram Rufat.Sulle prime, Mustafa Remzi, il conducente della Volvo, ha mentito agli investigatori: «Stavo inseguendo Rufat Bajram perché uscendo dall'Esselunga mi aveva urtato con la sua macchina e non avevo capito il motivo. E dopo l'incidente sono corso al campo del Poderaccio perché soffro di emofilia e dovevo subito prendere un farmaco. Non sapevo che ci fosse stato un morto».Tutte balle. Dietro la morte del povero Duccio Dini c'è una orrenda storia di vendetta tribale. E martedì il procuratore Tommaso Coletta lo ha dichiarato con parole chiare e potenti. Il pm ha chiesto condanne a 22 anni per Amet Kjamuran, 21 e 6 mesi per Amet Remzi, Mustafa Remzi, Mustafa Dehran e Antonio Mustafa, 9 anni per Kole Amet ed Emin Gani. Ma, soprattutto, durante la requisitoria ha avuto il coraggio di dire una grande verità. Ha spiegato che Duccio Dini «fu vittima incolpevole, vittima sacrificale di una incultura». Per la precisione «una incultura Rom», «una incultura zingara» basata «su un senso troppo forte della famiglia e su un atteggiamento di spregio verso la figura femminile». Finalmente, alla faccia della correttezza politica, qualcuno ha il fegato di dirlo.Vi sembrano parole troppo forti? Non lo sono. A Duccio è stata rubata la vita per colpa di una faida rom. Le tre auto lanciate come ghepardi sulle strade fiorentine inseguivano Bajram Rufat, colpevole di aver offeso il capo comunità del campo rom. Bajram è il genero di Amet Remzi, di cui sposò giovanissimo la figlia Manuela. Violento, con precedenti per usura e altre schifezze, Rufat umiliava la moglie, la maltrattava, faceva entrare prostitute nel campo rom praticamente davanti a lei. «Mia moglie è di mia proprietà e posso farla anche prostituire per 20 euro per sfamare i miei figli», ha detto al processo.A causa dei continui maltrattamenti la donna lo aveva lasciato, trasferendosi altrove per due anni. Poi decise di rientrare, ma Bajram pretese un giuramento di fedeltà, come da tradizione. Lo ottenne, però pretese pure di firmarlo, suscitando le ire degli altri membri della comunità e in particolare del suocero. Ne nacque una lite, Bajram colpì Amet Remzi: una offesa da lavare nel sangue. Prima ci furono le minacce, poi la fuga di Bajram. Infine la resa dei conti.Ricostruiscono dall'associazione «Amici di Duccio Dini»: «Il 10 giugno 2018 i rom hanno trovato Bajram Rufat all'Esselunga. Hanno iniziato l'inseguimento nel parcheggio, si sono urtati e speronati rischiando già lì di ferire gente. Poi hanno continuato la folle corsa e gli speronamenti fino a travolgere Duccio».Ora dite se questa non è subcultura. Una donna trattata da schiava, la vendetta dei famigliari, il tentativo di linciaggio. Il disprezzo per tutto e tutti al di fuori del mondo chiuso e brutale del campo.Bajram Rufat se l'è cavata con poco, Duccio ha perso tutto, così come la sua famiglia. E per cosa? Per colpa di usanze barbare che definire tradizioni è offensivo. Il pm Coletta ha avuto il merito di chiamare le cose con il loro nome, voce forte ma isolata in un Paese i cui rapporti con i rom sono regolati dell'ipocrisia. Pensate che alcuni degli imputati nel processo, sgomberati dal campo del Poderaccio, hanno trascorso i domiciliari in case popolari del Comune di Firenze. La baraccopoli da cui provengono avrebbe dovuto essere rasa al suo anni fa, e invece è ancora lì, un verminaio di incultura e di bestialità. Succede perché dai rom si tollera tutto, li si presenta ogni volta come una minoranza discriminata, chi vuole chiudere i campi è trattato da razzista.«All'indomani dell'uccisione di Duccio organizzammo con i cittadini una fiaccolata nel quartiere», dice Giovanni Donzelli di Fratelli d'Italia. «Allora fummo tacciati di razzismo da Comune di Firenze e Regione. Oggi persino i magistrati affermano che Duccio fu vittima dell'incultura rom». Donzelli attacca: «Le istituzioni della sinistra sono sempre molto attente alla sensibilità dei rom, ai quali è stato consentito persino di scontare gli arresti domiciliari nelle case popolari. In un sopralluogo scoprimmo che in uno di questi alloggi viveva la famiglia di uno dei rom coinvolto nella vicenda, che commerciava auto di lusso: il Comune si difese dicendo che era tutto regolare. E per di più le promesse di smantellamento del campo del Poderaccio fatte dal sindaco Dario Nardella sono rimaste parole al vento da campagna elettorale». L'incultura, a quanto pare, ha sempre molti sostenitori.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
Continua a leggereRiduci