
L'euro ha azzerato la nostra libertà valutaria, creando un ambiente ostile alle imprese. Vittime sacrificali: salari e mercato domestico.Bruxelles ci sta ancora una volta minacciando perché il nostro Pil non cresce? E nessuno minaccia Bruxelles proprio perché il nostro Pil non può crescere, anche per colpa di Bruxelles? La nostra responsabilità, che possiamo riconoscere, è che pur di sembrare i più europeisti in Europa abbiamo voluto strafare e quindi sbagliare. Primo. Abbiamo voluto dimostrare di saper privatizzare, senza riflettere che era impossibile farlo per molte attività economiche alle condizioni inopportunamente decise. Si ricordi che le imprese in mano allo Stato, da privatizzare, rappresentavano molto più di metà dell'economia italiana, molte svolgevano un ruolo «sociale-assistenziale» e perdevano troppo. Altre non erano acquisibili da imprenditori domestici, per mancanza di capitali e si utilizzò in modo eccessivo il credito bancario, per riuscire a farle acquisire. In sostanza le privatizzazioni, fatte cosi, hanno indebolito la nostra forza economica. Secondo. Abbiamo voluto dimostrare di saper ridurre in brevissimo tempo il deficit di bilancio portandolo dal 7% al 3% , con i criteri definiti allora di «risanamento», che furono: aumento di tasse, taglio di investimenti in ricerca, riduzione troppo rapida degli interessi sul debito di Stato (con conseguenze disastrose sui consumi).Terzo. Abbiamo voluto dimostrare la capacità virtuale di contenere il debito pubblico senza aver studiato come farlo, accettando come obiettivo il 60% del Pil, ma prevedendo persino l'imposizione del Fiscal compact nel patto di stabilità. Quarto. Non abbiamo tenuto conto di cosa avrebbe significato, in queste condizioni di fragilità economica, perdere i vantaggi di avere i tassi di cambio che fungevano da stabilizzatori automatici, apprezzando o deprezzando le diverse monete, (con impatto sulle importazioni e esportazioni) e riequilibrando conseguentemente la bilancia commerciale. Perdendo così la possibilità di azionare manovre per attivare la crescita economica quando necessario. Certo la svalutazione della moneta è un arma a doppio taglio, ma un taglio almeno prima lo avevamo. Allora si sosteneva che non sarebbe più stato necessario svalutare perché la nostra economia sarebbe volata e l'euro avrebbe «fatto un mazzo così» al dollaro. Quinto. Si sarebbe anche dovuto riflettere che, privandosi delle monete nazionali, si sarebbe avuta una politica monetaria uguale per tutti (ex Bce), cioè una politica di tassi di interesse uguali per economie diverse, di fatto un costo del credito uniforme, ma in un contesto di forte disomogeneità. Quando la crisi scoppiò nel 2008, le regole accettate con il trattato han significato per noi una politica di austerità che ha creato recessione, accelerata dal 2012, con il primo governo cooptato che fece approvare dal Parlamento il Fiscal compact e avviò politiche economiche fallimentari (riduzione prioritaria del debito, taglio spesa pubblica, crescita tasse). Certo la moneta unica ci ha salvato dai famosi speculatori in valute, che, o sono curiosamente scomparsi o ora speculano sull'euro e non ce ne siamo accorti. Mi domando ora come possa stare in piedi l'euro se l'Italia saltasse. L'Italia sta vivendo il simbolico «caso Fiat». Come un dipendente della fabbrica degli Agnelli un tempo comperava auto Fiat e investiva in titoli Fiat, così un italiano lavorava in Italia, comperava italiano e investiva in Italia. Ma come il dipendente Fiat si mise a comperare auto più convenienti e investire in titoli più promettenti, finché Fiat non chiuse bottega e lui restò senza lavoro, così ragionevolmente stiamo facendo noi italiani. Se comperare straniero costa meno, investire straniero rende di più, come potrà l'italiano trovare lavoro in Italia? Poiché i padroni della moneta unica sono i mercati (e gli speculatori), dovremmo riflettere sul fatto che non potendo svalutare la moneta per esser competitivi, siamo forzati ad esserlo nei costi di produzione, altrimenti non vendiamo e esportiamo. Ma ridurre i costi, in mancanza di vantaggi tecnologici, significa ridurre i salari, il potere di acquisto, i consumi, la crescita del Pil e perciò la possibilità di ridurre il famoso debito pubblico, per il quale riceviamo le famose minacce da Bruxelles. Situazione opposta per la Germania, per la quale l'euro è la moneta debole che le permette di aumentare le esportazioni. Starebbe infatti fresca oggi se avesse il marco con l' avanzo commerciale che si ritrova. Il marco sarebbe alle stelle e le sue esportazioni crollerebbero. Per la Germania un euro debole, grazie alle difficoltà di bilancio con l'estero degli altri Paesi comunitari, è una pacchia, un vero vantaggio competitivo, che lascia sospettare che più gli altri Paesi son deboli, più ne trae vantaggio. È evidente che è troppo complesso uscire dall'euro, perché si creerebbe un disordine monetario mondiale, tanto che nessuno osa pensarci. Ma che succederà quando la Bce sarà obbligata a non fornire più liquidità (Qe) e la Fed decidesse di non sostenere l'euro? Oppure se alle prossime europee non si formasse una vera coalizione di governo credibile e stabile? Che fine farebbe l'euro?
Ranieri Guerra (Imagoeconomica). Nel riquadro, Cristiana Salvi
Nelle carte di Zambon alla Procura gli scambi di opinioni tra i funzionari Cristiana Salvi e Ranieri Guerra: «Mitighiamo le critiche, Roma deve rifinanziare il nostro centro a Venezia e non vogliamo contrattacchi».
Un rapporto tecnico, destinato a spiegare al mondo come l’Italia aveva reagito alla pandemia da Covid 19, si è trasformato in un dossier da riscrivere per «mitigare le parti più problematiche». Le correzioni da apportare misurano la distanza tra ciò che l’Organizzazione mondiale della sanità dovrebbe essere e ciò che era diventata: un organismo che, di fronte a una crisi globale, ha scelto la prudenza diplomatica invece della verità. A leggere i documenti depositati alla Procura di Bergamo da Francesco Zambon, funzionario senior per le emergenze sanitarie dell’Ufficio regionale per l’Europa dell’Oms, il confine tra verità scientifica e volontà politica è stato superato.
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L’annuncio per un’abitazione a Roma. La padrona di casa: «Non dovete polemizzare».
La teoria di origine statunitense della «discriminazione positiva» ha almeno questo di buono: è chiara e limpida nei suoi intenti non egualitari, un po’ come le quote rosa o il bagno (solo) per trans. Ma se non si fa attenzione, ci vuole un attimo affinché la presunta e buonista «inclusione» si trasformi in una clava che esclude e mortifica qualcuno di «meno gradito».
Su Facebook, la piattaforma di Mark Zuckerberg che ha fatto dell’inclusività uno dei principali «valori della community», è appena apparso un post che rappresenta al meglio l’ipocrisia in salsa arcobaleno.
In Svizzera vengono tolti i «pissoir». L’obiettivo dei progressisti è quello di creare dei bagni gender free nelle scuole pubbliche. Nella provincia autonoma di Bolzano, pubblicato un vademecum inclusivo: non si potrà più dire cuoco, ma solamente chef.
La mozione non poteva che arrivare dai Verdi, sempre meno occupati a difendere l’ambiente (e quest’ultimo ringrazia) e sempre più impegnati in battaglie superflue. Sono stati loro a proporre al comune svizzero di Burgdorf, nel Canton Berna, di eliminare gli orinatoi dalle scuole. Per questioni igieniche, ovviamente, anche se i bidelli hanno spiegato che questo tipo di servizi richiede minor manutenzione e lavoro di pulizia. Ma anche perché giudicati troppo «maschilisti». Quella porcellana appesa al muro, con quei ragazzi a gambe aperte per i propri bisogni, faceva davvero rabbrividire la sinistra svizzera. Secondo la rappresentante dei Verdi, Vicky Müller, i bagni senza orinatoi sarebbero più puliti, anche se un’indagine (sì il Comune svizzero ha fatto anche questo) diceva il contrario.






