2020-11-13
Il parere dei tecnici: donne a rischio con l’aborto fai da te
Gli esperti della sanità piemontese spiegano che le linee guida volute dal ministro non garantiscono la salute. In tutta Italia. A Roberto Speranza, nei mesi estivi, non è bastato doversi occupare del Covid. Aveva così tanto tempo libero che ha pensato bene di scrivere un libro e di dedicarsi a elaborare nuove «linee guida» sull'assunzione della pillola abortiva Ru486. Il vademecum reso noto dal ministero della Salute ai primi d'agosto prevede «l'interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana». Non solo: la pillola abortiva può essere somministrata «presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all'ospedale e autorizzate dalla Regione, nonché consultori». Queste innovazioni sono state accolte con entusiasmo dalla sinistra tutta, che si è precipitata ad applaudire il ministro. C'è però un problema: le linee guida volute da Speranza mettono a rischio la salute delle donne. E a dirlo non sono pericolosi sovranisti, cattolici, reazionari o altre brutte persone. No, lo sostengono i tecnici della Regione Piemonte, cioè professionisti della sanità che non hanno colore politico, e che per mestiere si occupano di gestire le strutture ospedaliere. La Direzione Sanità regionale ha prodotto un documento (inviato anche al ministero della Salute) in cui si spiega che le linee guida di Speranza, al momento, non sono applicabili. In sostanza, dicono gli esperti, la pillola abortiva si può somministrare soltanto in ospedale, e non nei consultori o in altre strutture simili. Il motivo è che le «strutture territoriali extra-ospedaliere» presentano una lunga serie di carenze. Per prima cosa manca un «collegamento funzionale tra i servizi territoriali e gli ospedali di riferimento, requisito indispensabile per rispondere in maniera appropriata e rispettosa della salute delle donne alla loro eventuale domanda di interruzione farmacologica della gravidanza». Inoltre, notano ancora i tecnici sanitari, fuori dagli ospedali non ci sono strutture adeguate, dotate dalla strumentazione idonea e che possano contare su personale specializzato e perfettamente formato. Dunque consentire l'aborto facile in un consultorio è piuttosto rischioso. Fin qui, in ogni caso, si tratta di rilievi tecnici a cui eventualmente si potrebbe porre rimedio fornendo uomini e mezzi ai consultori. Ci sono però altri due punti su cui gli esperti insistono e che sono molto più difficili da aggirare. Il primo riguarda direttamente il medicinale Mifegyne (mifepristone), cioè la pillola abortiva. Questo farmaco è «classificato da Aifa ai fini della fornitura come Osp, ossia utilizzabile esclusivamente in ambiente ospedaliero o in strutture ad esso assimilabili. È necessario pertanto che vi sia una dotazione di ambienti e personale dedicato e che la donna possa raggiungere facilmente un ospedale in caso di sanguinamenti ed altri effetti collaterali importanti che possono presentarsi con frequenza variabile, ma relativamente probabili». Capito? L'Agenzia italiana del farmaco - che pure nei mesi scorsi ha dato parere positivo sulle linee guida di Speranza - continua a considerare la pillola abortiva un prodotto che si può somministrare solo in ospedale. C'è di più: i tecnici piemontesi sembrano addirittura nutrire dubbi sul fatto che la Ru486 possa essere somministrata in day hospital. Infatti scrivono: «Il clinico deve valutare se la donna è nelle condizioni fisiche e psicologiche per esser rimandata a casa e comunque prevedere un secondo accesso in day hospital per la somministrazione della prostaglandina se la donna non è in condizioni di raggiungere facilmente l'ospedale». Ed eccoci all'ultima, fondamentale, notazione. Gli esperti piemontesi spiegano che «nel riassunto delle caratteristiche del prodotto (Rcp) del farmaco Mifegyne (mifepristone) è prevista dal 50° al 63° giorno la somministrazione di Gemeprost (analogo prostaglandine) in ovuli. (...) Allo stato attuale il farmaco è stato revocato dall'Aifa e si trova con difficoltà anche all'estero (forse in Usa a 500 euro a unità) con conseguente impossibilità di approvvigionamento». Traduciamo: quando si vuole procedere all'aborto farmacologico all'incirca tra la settima e la nona settimana, oltre alla pillola abortiva (mifepristone) bisogna prendere un altro farmaco, che in Italia è fuori commercio e che si trova con difficoltà in America a 500 euro a confezione, costo non coperto dalla mutua.A riassumere bene la situazione è Maurizio Marrone, assessore regionale piemontese di Fratelli d'Italia: «Gli uffici tecnici della sanità piemontese hanno evidenziato come il blitz ferragostano di Speranza, senza rispettare le norme della legge 194, desse il via libera all'aborto farmacologico con Ru486 in strutture territoriali, come i consultori dove mancano personale adeguatamente formato, macchinari imprescindibili come gli ecografi e il collegamento funzionale con gli ospedali in caso di complicazioni. Incredibile poi», dice l'assessore, «che sia stata prevista nelle linee guida ministeriali la somministrazione di un farmaco ritirato dal commercio questa stessa primavera, solo per autorizzare l'estensione del trattamento farmacologico abortivo fino alla nona settimana di gravidanza, nonostante lo stesso Consiglio superiore della sanità avesse messo in guardia sul possibile raddoppio di rischio complicazioni». I problemi che i tecnici piemontesi fanno emergere, ovviamente, non valgono soltanto per la loro regione, ma per tutta Italia. Significa che Speranza, facendosi guidare dall'ideologia, ha proposto linee guida che mettono a rischio le donne. Si vede che la salute non rientra fra i diritti a cui i progressisti sembrano interessarsi tanto.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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