2022-06-14
Il Papa e Biden bussano al Cremlino. È l’ora delle trattative top secret
Papa Francesco e Joe Biden (Ansa)
Mosca conferma l’esistenza di un canale «aperto e riservato» col Vaticano. Pure il presidente degli States apre a Vladimir Putin, incalzato dal disastro dell’economia americana. La crisi del grano è nelle mani del Sultano.Il segretario dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg sposa la linea di chiusura di Ankara: l’adesione al patto di Finlandia e Svezia a rischio per il loro atteggiamento verso il Pkk.Lo speciale contiene due articoliLa diplomazia vaticana continua a muoversi sulla crisi ucraina. A confermarlo è stato il direttore del primo dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, Alexei Paramonov. «La dirigenza vaticana ha ripetutamente dichiarato la propria disponibilità a fornire ogni possibile assistenza per raggiungere la pace e porre fine alle ostilità in Ucraina», ha dichiarato il diplomatico russo. «Queste affermazioni sono confermate nella pratica. Manteniamo un dialogo aperto e riservato su una serie di questioni, principalmente legate alla situazione umanitaria in Ucraina», ha aggiunto.Contemporaneamente proseguono i tentativi diplomatici della Turchia. Tayyip Erdogan ha annunciato che risentirà telefonicamente in settimana sia Volodymyr Zelensky sia Vladimir Putin, per cercare di rilanciare i negoziati e arrivare allo sblocco dei porti ucraini. Un nodo, quello della crisi alimentare, rimarcato ieri anche dalla Commissione europea. «La priorità immediata è portare via il grano dall’Ucraina», ha dichiarato il commissario europeo all’Agricoltura, Janusz Wojciechowski. Dello stesso tema hanno discusso, sempre ieri, il segretario di Stato americano Tony Blinken e l’omologa britannica Liz Truss.Nel mentre, resta poco chiaro lo stato effettivo dei rapporti tra Joe Biden e lo stesso Zelensky. Ricordiamo che la settimana scorsa il presidente americano aveva accusato il leader ucraino di non averlo voluto ascoltare, mentre lanciava l’allarme su un’imminente invasione russa. Una tesi che è stata tuttavia respinta seccamente da Kiev. Del resto, non si tratta del primo attrito recentemente verificatosi tra Washington e Kiev. Senza poi dimenticare l’indisponibilità statunitense a rifornire gli ucraini di missili a lungo raggio. Tutto questo, mentre – negli ultimi tempi – si sono susseguiti colloqui ad alto livello tra americani e russi. In questo quadro, ieri Dagospia, citando fonti di Washington, ha riferito che sarebbero addirittura in corso delle trattative dirette tra Biden e Putin. Si tratta di uno scenario tutt’altro che improbabile: non bisogna infatti trascurare due fattori. Sul piano interno, la crisi ucraina sta causando degli impatti notevolmente negativi sull’economia statunitense: l’inflazione è ai massimi da quarant’anni, mentre il caro carburante ha raggiunto livelli stellari. Elementi, questi, che preoccupano significativamente Biden in vista delle elezioni di metà mandato del prossimo novembre. Sul piano internazionale, va poi ricordato che, nonostante la retorica anti russa, l’attuale inquilino della Casa Bianca sta contraddittoriamente negoziando con Mosca da oltre un anno per rilanciare il nefasto accordo sul nucleare con l’Iran. Ragion per cui Biden non ha mai avuto realmente intenzione di bruciare tutti i ponti con il Cremlino. Questo non deve ovviamente indurre a pensare che Washington si accinga ad abbandonare ipso facto l’Ucraina al suo destino. Tuttavia è plausibile ritenere che Biden tirerà parzialmente il freno a mano, avvicinandosi forse alla linea trattativista di Italia, Francia e Germania.Per il momento restano ondivaghi anche i rapporti tra Washington e Pechino. Ieri, il capo del Pentagono, Lloyd Austin, ha usato parole relativamente concilianti per descrivere il suo incontro con l’omologo cinese, Wei Fenghe, avvenuto venerdì a Singapore. «È stato un passo importante nei nostri sforzi per sviluppare linee di comunicazione aperte con la leadership dell’Esercito popolare di liberazione... È stata un’importante opportunità per sollevare le nostre preoccupazioni sul potenziale di instabilità nello Stretto di Taiwan», ha detto.E proprio il dossier taiwanese aveva creato delle tensioni nel corso dell’incontro tra Austin e Wei Fenghe. Il capo del Pentagono aveva accusato Pechino di «approccio aggressivo», mentre il ministro cinese aveva replicato, ribadendo la volontà della Repubblica popolare di procedere all’«unificazione». La distanza, insomma, resta notevole. Probabilmente l’amministrazione Biden crede ancora di poter convincere i cinesi a far pressione sui russi per dissuaderli dal proseguire l’invasione dell’Ucraina. Una speranza che rischia di rivelarsi vana. Nonostante le recenti voci di attriti tra Pechino e Mosca, Xi Jinping non ha per ora alcuna convenienza ad abbandonare Putin. Che l’asse sino-russo resti al momento saldo è d’altronde testimoniato dalla recente inaugurazione del ponte di collegamento tra la città russa di Blagoveshchensk e quella cinese di Heihe: una mossa non solo simbolica, ma che mira anche a rafforzare i rapporti commerciali tra i due Paesi.Al di là delle pericolose ambiguità di Pechino, Washington deve fare molta attenzione alle mosse di altri Paesi politicamente piuttosto vicini alla Russia. Venerdì scorso, il vice primo ministro bielorusso, Igor Petrishenko, ha annunciato che i membri della comunità degli Stati indipendenti avrebbero approntato un piano congiunto per contrastare le sanzioni occidentali. Tutto questo, mentre – negli scorsi giorni – un alleato di Putin come il presidente venezuelano Nicolas Maduro si è recato in visita in Turchia, Algeria e Iran rafforzando i legami di Caracas con tutti questi Paesi. Varsavia si è detta frattanto pronta a rispondere a un eventuale attacco russo. «Se la Russia dovesse mai pensare ad attaccare la Polonia, il Cremlino sappia che 40 milioni di polacchi sono pronti a prendere le armi e difendere la madrepatria», ha dichiarato ieri il premier polacco, Mateusz Morawiecki. Il consigliere presidenziale ucraino, Mykhailo Podoloyak, ha intanto chiesto più armi per negoziare da una «posizione di forza».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-papa-e-biden-bussano-al-cremlino-e-lora-delle-trattative-top-secret-2657503822.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sui-curdi-la-nato-si-piega-a-erdogan" data-post-id="2657503822" data-published-at="1655155375" data-use-pagination="False"> Sui curdi la Nato si piega a Erdogan Sull’adesione alla Nato, Svezia e Finlandia hanno deciso di andare di pari passo, mantenendo lo storico legame con la «questione curda», mentre il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg si «allinea» sulle posizioni del presidente turco Erdogan. Sembra in salita – e la salita è rappresentata dalla Turchia – la strada verso l’Alleanza atlantica dei due Paesi Nordeuropei. Nell’incontro con Stoltenberg, Helsinki ha dichiarato che non entrerà a far parte dell’Alleanza se i problemi che Stoccolma ha con la Turchia dovessero comportare il rinvio dell’adesione della Svezia. Il presidente finlandese Sauli Niinisto è stato chiaro: «Il caso della Svezia è anche nostro». Il caso è quello dell’appoggio alla causa del popolo curdo, che ha determinato la contrarietà di Erdogan all’ingresso delle due nazioni nella Nato. Come si ricorderà, il Paese del premier Sanna Marin e la Svezia hanno presentato le rispettive domande di adesione all’Alleanza a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Gli ambasciatori dei due Paesi avevano consegnato le istanze nelle mani del segretario generale Stoltenberg, che aveva commentato: «Questo è un momento storico in un momento critico per la nostra sicurezza. Speriamo di concludere rapidamente il processo di adesione». Recep Tayyip Erdogan ha minacciato però il veto, sostenendo che i due Paesi «sono un vivaio di organizzazioni terroristiche». Il riferimento è alla protezione offerta da Finlandia e Svezia (soprattutto da quest’ultima) ad esponenti del Pkk, il partito dei lavoratori curdi che Ankara considera un’organizzazione, appunto, terroristica. Insomma, la situazione si è complicata non poco, poiché appare difficile riuscire a superare la posizione intransigente di Erdogan. «Le preoccupazioni sollevate dalla Turchia sono legittime, siamo impegnati in un dialogo trilaterale», ha dichiarato Stoltenberg, appoggiando dunque le osservazioni di parte turca. «La decisione di entrare nella Nato da parte di Finlandia e Svezia è storica, è giusta per questi Paesi, per la Nato e per l’Europa». In conferenza stampa con il primo ministro svedese Magdalena Andersson, Stoltenberg ha anche palesato l’intenzione di «risolvere i problemi con la Turchia il prima possibile per poter far entrare Svezia e Finlandia nella Nato». «Quando un alleato fondamentale come la Turchia solleva preoccupazioni sul terrorismo, ovviamente dobbiamo sederci e prenderle sul serio. Ed è esattamente quello che facciamo», ha detto il numero uno dell’Alleanza. Le richieste di Ankara a Helsinki e Stoccolma includono, tra le altre cose, la revoca delle restrizioni alle esportazioni di armi verso la Turchia e l’estradizione di membri di alcune organizzazioni curde che si oppongono al governo di Erdogan. Le prime mosse svedesi verso le posizioni turche sono state colte dal segretario dell’Alleanza atlantica, il quale ha dichiarato di accogliere «con favore il fatto che la Svezia abbia già cominciato a cambiare la sua legislazione anti terrorismo e che la Svezia garantirà che una cornice legale sull’esportazione di armi rifletterà lo status futuro di membro Nato con nuovo impegno per gli Alleati». La questione curda, dunque, diventa il nodo da sciogliere per ottenere il placet di Erdogan. La comunità internazionale, del resto, ha già chiuso gli occhi sulle operazioni militari condotte dalla Turchia contro i curdi. Dovranno Helsinki e a Stoccolma fare altrettanto, affinché la loro adesione possa sbloccarsi? La risposta è cruciale per un popolo spesso usato – ad esempio per combattere l’Isis - e poi scaricato.
Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio europeo (Ansa)
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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