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2019-09-23
Paghiamo ogni giorno 59 euro di tasse
Ma quanto paghiamo di tasse? Troppo, questo è evidente. Troppo sugli immobili (con una patrimoniale sul mattone da quasi 22 miliardi l'anno che ne ha schiantato il valore, oltre a prosciugare la liquidità degli italiani, come non si stanca di denunciare Confedilizia); troppo sulle imprese, con un total tax rate che mette le nostre aziende fuori competizione; troppo sui singoli, sui lavoratori e sulle famiglie. Un raro e positivo passo in avanti si era registrato l'anno scorso con l'esperimento voluto dalla Lega di una flat tax al 15% per le partite Iva, le piccole imprese e i professionisti (fino a 65.000 euro di fatturato), che dal 2020 avrebbe dovuto essere esteso fino ai 100.000 euro. Ma con il nuovo governo giallorosso si moltiplicano le voci secondo cui questo secondo passaggio sarebbe fortemente in discussione.
Partiamo tuttavia da un dato certo, per poi affidarci a due elaborazioni. Il dato certo viene dal Def della scorsa primavera: secondo quella fotografia, scattata dal precedente governo, la pressione fiscale passerà dal 42% del 2019 al 42,7% del biennio 2020-2021 per raggiungere il 42,5% nel 2022. Vedremo presto nella Nota di aggiornamento al Def, primo atto di politica economica del nuovo governo, se e come queste previsioni saranno ritoccate. Occorrerà aspettare ancora quattro giorni, fino a venerdì di questa settimana.
Intanto, il Centro studi di Unimpresa, a partire dalle cifre del Def di primavera, ha scorporato e elaborato i dati. Se le tendenze fossero confermate, nel 2022 lo Stato incasserebbe 890 miliardi (a tanto corrisponderebbe il 42,5% del Pil), mentre le uscite supererebbero il limite dei 900 miliardi. Se li dividessimo per ognuno dei 41 milioni di contribuenti, quegli 890 miliardi farebbero in media 21.707 euro di tasse a testa l'anno: 59 euro al giorno, 2,5 per ogni ora che passa.
Sempre Unimpresa ha scomposto e classificato la massa delle entrate. Il totale delle entrate tributarie si attesterà a quota 506,8 miliardi a fine 2019; di questi, 248,6 miliardi sono le imposte dirette (Irpef, Ires, Irap, Imu), 257,2 miliardi le indirette (Iva, accise, registro) e 967 milioni le altre in conto capitale. Si tratta di una voce del bilancio pubblico che salirà a 535,2 miliardi nel 2020 (rispettivamente 250,1 miliardi, 284,1 miliardi e 972 milioni), a 550,3 miliardi nel 2021 (rispettivamente 255,1 miliardi, 294,2 miliardi e 979 milioni), a 559,93 miliardi nel 2022 (rispettivamente 259,2 miliardi, 299,1 miliardi e 985 milioni).
Complessivamente - spiega ancora Unimpresa - considerando la variazione di ciascun anno del quadriennio in esame rispetto al 2018, l'aumento delle entrate tributarie nelle casse dello Stato sarà pari a 55,3 miliardi (+10,98%): le imposte dirette cresceranno di 10,4 miliardi (+4,18%), le indirette di 45,4 miliardi (17,92%) e le altre si ridurranno di 493 milioni (-33,36%).
Il report di Unimpresa mostra che cresceranno anche le entrate relative ai contributi sociali (previdenza e assistenza): dai 234,9 miliardi del 2018 si passerà ai 250,5 miliardi del 2019, ai 244,1 miliardi del 2020, ai 248,3 miliardi del 2021, ai 253,6 miliardi del 2022. L'incremento complessivo di questa voce, che ha effetti sul costo del lavoro per le imprese, sarà pari a 18,6 miliardi (+7,95%). In salita, poi, anche le altre entrate correnti per 2,1 miliardi (+2,92%). Ne consegue che il totale delle entrate dello Stato aumenterà di 76,2 miliardi (+9,37%) rispetto al 2018 nei prossimi 4 anni: dagli 834,4 miliardi del 2019 si passerà agli 856,6 miliardi del 2020, agli 875,4 miliardi del 2021 e agli 890,1 miliardi del 2022.
Anche la Cgia di Mestre ha realizzato un approfondimento, in questo caso comparando la situazione italiana con quella di altri Paesi europei. Con risultati impressionanti (in negativo) sia nel confronto tra l'Italia e la media degli altri Paesi Ue, sia tra l'Italia e quasi ogni altra singola nazione. Secondo la Cgia, nel 2018 gli italiani hanno pagato 33,4 miliardi di tasse in più rispetto all'ammontare complessivo medio versato dai cittadini dell'Ue. Un differenziale che vale circa 2 punti di Pil, letteralmente mangiati dallo Stato. Se invece - prosegue la Cgia - consideriamo il dato pro capite, viene fuori che i contribuenti italiani hanno versato al fisco circa 552 euro a testa in più rispetto alla media dei cittadini Ue.
Secondo la valutazione degli artigiani di Mestre, peggio di noi starebbero solo i contribuenti di Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia, in termini di tasse versate.
Rispetto a tutti gli altri, sono gli italiani i più tartassati. Qualche esempio tratto dall'elaborazione della Cgia? Se avessimo la pressione fiscale tedesca, pagheremmo 24,6 miliardi di tasse in meno (407 euro a testa); se avessimo quella olandese, 56,2 (930 euro pro capite); se avessimo quella britannica 114,2 (1.888 euro pro capite); se avessimo quella spagnola 119,5 (1.975 euro pro capite). E se non è un'emergenza questa…
Daniele Capezzone
Merendine, bibite, aerei, contanti Il Conte 2 studia già altre stangate
L'ultima arrivata è la tassa sulla pipì introdotta dalla Regione Lazio governata dal segretario Pd,
Nicola Zingaretti. Bar e ristoranti dovranno esporre il cartello con la somma chiesta per usare i servizi igienici: e pazienza se il regolamento di polizia urbana del Comune di Roma ne impone l'utilizzo gratuito anche a chi non prende un caffè, un bicchiere d'acqua o un pacchetto di caramelle. L'Italia è la patria delle tasse più assurde, soprattutto quando governa il centrosinistra. Che rimane fedele all'immortale frase del compianto Tomaso Padoa-Schioppa, ministro dell'Economia e delle finanze nel secondo governo di Romano Prodi, per il quale «le tasse sono una cosa bellissima».
Il
Conte 2 è già partito sotto i migliori auspici, devoto alla linea. L'inesauribile fantasia dei nostri governanti è sempre al lavoro. Particolarmente attivo è il nuovo ministro dell'Istruzione, il grillino Lorenzo Fioramonti. Egli ne ha ipotizzate addirittura tre. La prima tassa colpirebbe le merendine vendute nelle scuole. La seconda si abbatterebbe sulle bibite zuccherate. La terza si dovrebbe concretizzare in una «mancia» di 1 euro per ogni volo aereo. Il triplice gettito dovrebbe andare a finanziare la scuola italiana, in particolare gli stipendi dei professori statali.
Già è sconcertante che in un Paese soffocato dal fisco un governo s'incaponisca a inventarsi nuove forme di prelievo. Ma la cosa più sbalorditiva sono i motivi addotti a giustificare la stangata. Si tratta di motivi «etici», pseudo educativi. Taglieggiare le merendine e le bibite contenute nei distributori automatici si propone di rieducare gli italiani, che secondo
Fioramonti sarebbero troppo grassi per colpa degli zuccheri ingeriti. E poiché gli spuntini e le bevande strategicamente piazzati nei corridoi delle scuole sono carichi di malefico glucosio, ecco che studenti e professori golosi vanno puniti.
Anche l'imposta sui voli è ispirata a un criterio etico, perché gli italiani devono essere ripresi e sgridati. Il nostro stile di vita va raddrizzato e corretto. Quella lanciata da
Fioramonti, ma - a quanto pare - già recepita favorevolmente da tutto il governo compreso il nuovo titolare delle Finanze Roberto Gualtieri, è una «greta-tax». Una tassa «gretina» perché segue le orme di Greta Thunberg, la giovane attivista verde che è andata dalla Svezia agli Stati Uniti in barca per non mettere piede su un odiato mezzo con le ali. Perché gli aerei inquinano, il cherosene bruciato dai jet si disperde nell'atmosfera, allarga il buco dell'ozono e contribuisce ai vituperati cambiamenti climatici. Quindi, dagli all'inquinatore alato e viva il movimento lento. Ora si attendono sgravi fiscali per i produttori di piroscafi o magari di zattere.
All'esame ci sono anche misure per colpire i cosiddetti ricchi. Il ministro
Roberto Speranza, l'unico rappresentante nell'esecutivo della sinistra di Liberi e uniti, vorrebbe togliere il ticket sulle visite specialistiche e sugli esami. Ottima cosa, a prima vista: salta una delle più odiate tasse sulla salute. Ma siccome i soldi per finanziare la sanità da qualche parte vanno trovati, ecco l'idea di infierire su qualche strumento finanziario. «Pagano banche, assicurazioni e fondi», ha detto Speranza. I quali prima protesteranno e infine scaricheranno il conto sui risparmiatori.
Dal canto suo, per non sfigurare davanti alla fantasia impositrice del governo, Confindustria ha proposto una tassa sui prelievi in contanti, come se non fossero sufficienti le commissioni da versare alle banche. Vogliono incentivare l'utilizzo delle carte elettroniche per combattere il «nero». Sarà. Intanto chi ci guadagna sono i gestori del credito. E sullo sfondo, con la coppia Pd-M5s a Palazzo Chigi, resta sempre il classico spettro di una patrimoniale.
Stefano Filippi
«Fisco locale, attenti alla riforma»
È all'esame del Parlamento una riforma del fisco locale che rischia di compromettere l'autonomia impositiva dei Comuni. Il professor Gaetano Ragucci, ordinario di diritto tributario alla Statale di Milano e presidente dell'Associazione nazionale tributaristi italiani, spiega il contesto di questa operazione.
Perché si vuole rivedere il sistema impositivo locale?
«La riforma risale al 2014, quando fu introdotta l'imposta unica comunale articolata in Imu e Tasi. Due imposte separate, una basata sulle rendite catastali, l'altra parametrata sui costi per i servizi indivisibili come l'illuminazione pubblica, la manutenzione delle strade, la sicurezza e altre voci alle quali tutti devono contribuire».
L'impianto non regge più?
«La Tasi era pensata come strumento di autonomia fiscale, cioè di responsabilità dei Comuni nella gestione delle proprie casse. Tanto si percepisce, tanto si spende e poi saranno i cittadini a giudicare al momento del voto. Questa impostazione è però andata in crisi».
Per quali motivi?
«Si sono combinati due fattori. Il primo è l'esenzione dall'Imu delle prime case, che ha determinato una sensibile riduzione del gettito. Il secondo è il meccanismo di perequazione tra Comuni, al quale non partecipa lo Stato, che impone agli enti locali con più risorse di trasferirne una parte a chi ne ha meno. In generale, le disponibilità sono diminuite e la Tasi, invece che imposta da gestire responsabilmente, è andata a compensare la perdita di gettito».
Ora il Parlamento che cosa intende fare?
«Ci sono tre proposte di legge, a firma Gusmeroli (Lega), Fragomeli (Pd) e Cancelleri (M5s) che nella sostanza prendono atto di questo fallimento e concordano nel fare confluire la Tasi nell'Imu».
L'Associazione dei tributaristi che cosa ne pensa?
«A luglio, come altre associazioni, siamo stati convocati per un'audizione alla Commissione finanze alla Camera e abbiamo osservato che questa riforma è a gettito invariato: semplifica, perché elimina una voce di imposta, ma non porta giovamento ai contribuenti. Inoltre, la riunione delle due vecchie imposte fa venire meno uno degli strumenti dell'autonomia impositiva dei Comuni».
Cioè toglie margini di intervento agli enti locali?
«Risponde a uno stato di necessità generale, ma riporta la fiscalità locale in una condizione di tensione finanziaria in cui molti invocano l'aiuto dello stato. L'Anci, per esempio, ha proposto che lo Stato tornasse a mettere risorse proprie nel fondo di perequazione per i Comuni meno abbienti».
Un ritorno al passato.
«Noi ci siamo discostati perché si ripropone un'impostazione abbandonata, quella della finanza locale che vive di trasferimenti dal centro. Tornerebbe la deresponsabilizzazione che fu ripudiata negli anni Novanta perché riconosciuta come causa dei fenomeni di malcostume. La riforma fu fatta proprio per evitare ciò».
E voi non volete che si faccia un passo indietro.
«No. Anzi si potrebbe approfittare della riforma in cantiere per accelerare sulla digitalizzazione del rapporto tra contribuente e amministrazioni locali. Su questo fronte non si parte da zero, come mostrano per esempio la fattura elettronica o le dichiarazioni precompilate. L'informatizzazione dovrebbe essere estesa alla fiscalità locale attraverso una piattaforma nazionale unitaria da cui il cittadino possa conoscere la sua posizione in tempo reale».
È anche uno strumento di lotta all'abusivismo.
«E una semplificazione reale, che eliminerebbe varie intermediazioni».
Che cosa chiedete dunque al Parlamento?
«Una semplificazione effettiva e che non si perda la prospettiva dell'autonomia impositiva locale».
Stefano Filippi
La gara tra sindaci: inventare tributi per servizi scadenti
La tendenza va avanti da anni. Sempre più spesso il gettito di diverse imposte finisce per passare dalle tasche dello Stato a quelle dei Comuni. In parole povere, le tasse locali aumentano, ma i servizi restano sempre gli stessi (quando non diminuiscono).
Oltre alle più note Imu (nel 2019, secondo uno studio Uil, le aliquote dell'imposta sulla casa sono salite in 215 Comuni), Tari (aumentata in 44 Comuni italiani) e addizionali comunali (divenute più salate in 566 amministrazione locali) esiste infatti una moltitudine di tributi locali che finiscono per ingrassare i portafogli dei Comuni senza offrire però particolari benefici ai cittadini.
Come spiegano alcuni dati forniti dall'ex consigliere economico del presidente del Consiglio
Renzi (e poi Gentiloni), Luigi Marattin, molti amministrazioni locali hanno iniziato a tagliare le spese e a ingolfare di tasse «fantasiose» le tasche dei cittadini.
Secondo
Marattin, dal 2010 i Comuni hanno tagliato la spesa pubblica del 28,24%. Un taglio che si è tradotto in una riduzione dei servizi: per fare un esempio, secondo il sito Openbilanci.it, nel 2005 la spesa media in cultura delle città con più di 200.000 abitanti era di 71,5 euro per ogni abitante. Nel 2014, la somma spesa per diffondere cultura dalle amministrazioni locali è scesa a 61 euro per abitante.
Che dire poi di tutti i servizi per l'infanzia. Un'elaborazione della Fp Cgil Nazionale, condotta sui dati Istat relativi all'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, mostra come la spesa dei Comuni per i nidi abbia smesso di crescere da tempo, passando da 1,6 miliardi di euro del 2012 a 1,475 miliardi del 2016 (ultimo dato disponibile).
Con questi chiari di luna è dunque evidente come le amministrazioni locali tentino in tutti i modi, anche quelli più fantasiosi, di trovare altri introiti attraverso nuove imposte.
Esiste ad esempio un'imposta per l'esposizione della bandiera, di fatto un balzello per la pubblicità allo Stato, per poter esibire la bandiera dello Stato italiano. La nota divertente è che per la bandiera della Comunità europea questa imposta non vige.
C'è persino un'imposta sui gradini. Il proprietario di un immobile con scalini che danno direttamente sulla strada pubblica, ha infatti l'obbligo di pagare un'imposta. Questo vale anche sui ballatoi prospicienti sulla pubblica via. Lo stesso vale per chi vuole posare uno zerbino sul suolo pubblico.
In Italia esiste anche una tassa sull'ombra che grava su qualsiasi locale che monti una tenda che proietti ombra sul marciapiede occupando quindi il suolo pubblico.
Sono tutte imposte riconducibili alla Tosap, la tassa di occupazione del suolo pubblico, un tributo più che giusto quando marciapiedi, strade e piazze di proprietà pubblica sono effettivamente occupati dai privati. Il problema è che la Tosap diventa anacronistica quando, ad esempio, si colpisce il passaggio obbligato che un cittadino deve fare per entrare e uscire da casa sua.
Esiste persino un balzello sui permessi della raccolta dei funghi. Per raccogliere funghi serve un permesso su cui grava un'imposta di bollo. In alcuni comuni vige anche la tassa sulla raccolta delle castagne.
Persino per chi passa a miglior vita c'è da pagare. Il rilascio del certificato di constatazione di decesso rilasciato dall'ufficiale sanitario dell'Asl ha un costo di 35 euro più un euro di bollettino postale. Non finisce qui, chi sceglie di essere cremato e di disperdere in aria le sue ceneri deve pagare una tassa più relative imposte di bollo. Senza considerare il diritto fisso sul trasporto dei defunti e la tassa per la manutenzione dei cimiteri.
Le amministrazioni comunali chiedono soldi anche per sposarsi. Chi sceglie di convolare a nozze in Comune deve pagare una tassa sulla celebrazione. Il bello è che il prezzo varia da Comune a Comune oppure anche se vi si risiede o meno. Ad esempio, sposarsi in Campidoglio a Roma per chi non ci abita costa 150 euro nei giorni feriali e 200 nel fine settimana. In un primo momento si pensò anche a un contributo di 100 euro per i residenti, proposta poi ritirata.
Pur non avendo centrali nucleari attive in Italia i contribuenti italiani sono costretti ancora oggi (dopo il referendum del 1987 che mise fine alle centrali nucleari in Italia) a pagare attraverso la bolletta dell'elettricità
un euro ogni 5.000 chilowattora per finanziare quelle amministrazioni locali che ai tempi avevano deciso di ospitare impianti per la produzione di energia attraverso combustibili nucleari.
Tra i balzelli più curiosi c'è persino una imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili (che vige anche per chi non ha preso un aereo in vita sua). A questa va aggiunta l'addizionale comunale su diritti di imbarco dei passeggeri.
Tutta questa fantasia tributaria è figlia di un'ondata federalista partita nei primi anni 2000 che invece di avvicinare le tasse ai servizi attesi dai cittadini, invece di semplificare loro la vita, ha tolto certezza di diritto e ha aggiunto lacci del tutto inutili all'attività economica. A questo si aggiunga una crisi economica da cui l'Italia non si è mai davvero rialzata. Come spiega la Cgia, negli ultimi 20 anni la ricchezza del nostro Paese è cresciuta mediamente soltanto dello 0,2% ogni anno. I soldi non bastano al fabbisogno delle amministrazioni e questo innesca una spasmodica necessità di fare cassa. Il punto è che, all'aumentare delle imposte, i cittadini non vedono da tempo un aumento dei servizi.
Gianluca Baldini
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Riduci
Ogni contribuente paga in media 59 euro di imposte al giorno, cioè 21.707 euro all'anno. Rispetto agli altri Paesi dell'Unione europea, gli italiani versano al fisco 552 euro a testa in più. Radiografia di un sistema che il nuovo governo potrebbe inasprire.Il più creativo è il ministro Lorenzo Fioramonti: aumentare i cost per cambiare stili di vita.L'allarme del presidente dei tributaristi: il Parlamento sta lavorando alle modifiche di Imu e Tasi. Ma dietro alla proposta, si nascondono alcuni pericoli. Ecco quali.Balzelli sull'ombra, i morti, la bandiera: sempre più fantasiose le gabelle applicate dai Comuni senza vantaggi per i cittadini.Lo speciale contiene quattro articoliMa quanto paghiamo di tasse? Troppo, questo è evidente. Troppo sugli immobili (con una patrimoniale sul mattone da quasi 22 miliardi l'anno che ne ha schiantato il valore, oltre a prosciugare la liquidità degli italiani, come non si stanca di denunciare Confedilizia); troppo sulle imprese, con un total tax rate che mette le nostre aziende fuori competizione; troppo sui singoli, sui lavoratori e sulle famiglie. Un raro e positivo passo in avanti si era registrato l'anno scorso con l'esperimento voluto dalla Lega di una flat tax al 15% per le partite Iva, le piccole imprese e i professionisti (fino a 65.000 euro di fatturato), che dal 2020 avrebbe dovuto essere esteso fino ai 100.000 euro. Ma con il nuovo governo giallorosso si moltiplicano le voci secondo cui questo secondo passaggio sarebbe fortemente in discussione. Partiamo tuttavia da un dato certo, per poi affidarci a due elaborazioni. Il dato certo viene dal Def della scorsa primavera: secondo quella fotografia, scattata dal precedente governo, la pressione fiscale passerà dal 42% del 2019 al 42,7% del biennio 2020-2021 per raggiungere il 42,5% nel 2022. Vedremo presto nella Nota di aggiornamento al Def, primo atto di politica economica del nuovo governo, se e come queste previsioni saranno ritoccate. Occorrerà aspettare ancora quattro giorni, fino a venerdì di questa settimana.Intanto, il Centro studi di Unimpresa, a partire dalle cifre del Def di primavera, ha scorporato e elaborato i dati. Se le tendenze fossero confermate, nel 2022 lo Stato incasserebbe 890 miliardi (a tanto corrisponderebbe il 42,5% del Pil), mentre le uscite supererebbero il limite dei 900 miliardi. Se li dividessimo per ognuno dei 41 milioni di contribuenti, quegli 890 miliardi farebbero in media 21.707 euro di tasse a testa l'anno: 59 euro al giorno, 2,5 per ogni ora che passa. Sempre Unimpresa ha scomposto e classificato la massa delle entrate. Il totale delle entrate tributarie si attesterà a quota 506,8 miliardi a fine 2019; di questi, 248,6 miliardi sono le imposte dirette (Irpef, Ires, Irap, Imu), 257,2 miliardi le indirette (Iva, accise, registro) e 967 milioni le altre in conto capitale. Si tratta di una voce del bilancio pubblico che salirà a 535,2 miliardi nel 2020 (rispettivamente 250,1 miliardi, 284,1 miliardi e 972 milioni), a 550,3 miliardi nel 2021 (rispettivamente 255,1 miliardi, 294,2 miliardi e 979 milioni), a 559,93 miliardi nel 2022 (rispettivamente 259,2 miliardi, 299,1 miliardi e 985 milioni). Complessivamente - spiega ancora Unimpresa - considerando la variazione di ciascun anno del quadriennio in esame rispetto al 2018, l'aumento delle entrate tributarie nelle casse dello Stato sarà pari a 55,3 miliardi (+10,98%): le imposte dirette cresceranno di 10,4 miliardi (+4,18%), le indirette di 45,4 miliardi (17,92%) e le altre si ridurranno di 493 milioni (-33,36%).Il report di Unimpresa mostra che cresceranno anche le entrate relative ai contributi sociali (previdenza e assistenza): dai 234,9 miliardi del 2018 si passerà ai 250,5 miliardi del 2019, ai 244,1 miliardi del 2020, ai 248,3 miliardi del 2021, ai 253,6 miliardi del 2022. L'incremento complessivo di questa voce, che ha effetti sul costo del lavoro per le imprese, sarà pari a 18,6 miliardi (+7,95%). In salita, poi, anche le altre entrate correnti per 2,1 miliardi (+2,92%). Ne consegue che il totale delle entrate dello Stato aumenterà di 76,2 miliardi (+9,37%) rispetto al 2018 nei prossimi 4 anni: dagli 834,4 miliardi del 2019 si passerà agli 856,6 miliardi del 2020, agli 875,4 miliardi del 2021 e agli 890,1 miliardi del 2022.Anche la Cgia di Mestre ha realizzato un approfondimento, in questo caso comparando la situazione italiana con quella di altri Paesi europei. Con risultati impressionanti (in negativo) sia nel confronto tra l'Italia e la media degli altri Paesi Ue, sia tra l'Italia e quasi ogni altra singola nazione. Secondo la Cgia, nel 2018 gli italiani hanno pagato 33,4 miliardi di tasse in più rispetto all'ammontare complessivo medio versato dai cittadini dell'Ue. Un differenziale che vale circa 2 punti di Pil, letteralmente mangiati dallo Stato. Se invece - prosegue la Cgia - consideriamo il dato pro capite, viene fuori che i contribuenti italiani hanno versato al fisco circa 552 euro a testa in più rispetto alla media dei cittadini Ue.Secondo la valutazione degli artigiani di Mestre, peggio di noi starebbero solo i contribuenti di Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia, in termini di tasse versate. Rispetto a tutti gli altri, sono gli italiani i più tartassati. Qualche esempio tratto dall'elaborazione della Cgia? Se avessimo la pressione fiscale tedesca, pagheremmo 24,6 miliardi di tasse in meno (407 euro a testa); se avessimo quella olandese, 56,2 (930 euro pro capite); se avessimo quella britannica 114,2 (1.888 euro pro capite); se avessimo quella spagnola 119,5 (1.975 euro pro capite). E se non è un'emergenza questa…Daniele Capezzone<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-paese-delle-tasse-2640476853.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="merendine-bibite-aerei-contanti-il-conte-2-studia-gia-altre-stangate" data-post-id="2640476853" data-published-at="1765452064" data-use-pagination="False"> Merendine, bibite, aerei, contanti Il Conte 2 studia già altre stangate L'ultima arrivata è la tassa sulla pipì introdotta dalla Regione Lazio governata dal segretario Pd, Nicola Zingaretti. Bar e ristoranti dovranno esporre il cartello con la somma chiesta per usare i servizi igienici: e pazienza se il regolamento di polizia urbana del Comune di Roma ne impone l'utilizzo gratuito anche a chi non prende un caffè, un bicchiere d'acqua o un pacchetto di caramelle. L'Italia è la patria delle tasse più assurde, soprattutto quando governa il centrosinistra. Che rimane fedele all'immortale frase del compianto Tomaso Padoa-Schioppa, ministro dell'Economia e delle finanze nel secondo governo di Romano Prodi, per il quale «le tasse sono una cosa bellissima». Il Conte 2 è già partito sotto i migliori auspici, devoto alla linea. L'inesauribile fantasia dei nostri governanti è sempre al lavoro. Particolarmente attivo è il nuovo ministro dell'Istruzione, il grillino Lorenzo Fioramonti. Egli ne ha ipotizzate addirittura tre. La prima tassa colpirebbe le merendine vendute nelle scuole. La seconda si abbatterebbe sulle bibite zuccherate. La terza si dovrebbe concretizzare in una «mancia» di 1 euro per ogni volo aereo. Il triplice gettito dovrebbe andare a finanziare la scuola italiana, in particolare gli stipendi dei professori statali. Già è sconcertante che in un Paese soffocato dal fisco un governo s'incaponisca a inventarsi nuove forme di prelievo. Ma la cosa più sbalorditiva sono i motivi addotti a giustificare la stangata. Si tratta di motivi «etici», pseudo educativi. Taglieggiare le merendine e le bibite contenute nei distributori automatici si propone di rieducare gli italiani, che secondo Fioramonti sarebbero troppo grassi per colpa degli zuccheri ingeriti. E poiché gli spuntini e le bevande strategicamente piazzati nei corridoi delle scuole sono carichi di malefico glucosio, ecco che studenti e professori golosi vanno puniti. Anche l'imposta sui voli è ispirata a un criterio etico, perché gli italiani devono essere ripresi e sgridati. Il nostro stile di vita va raddrizzato e corretto. Quella lanciata da Fioramonti, ma - a quanto pare - già recepita favorevolmente da tutto il governo compreso il nuovo titolare delle Finanze Roberto Gualtieri, è una «greta-tax». Una tassa «gretina» perché segue le orme di Greta Thunberg, la giovane attivista verde che è andata dalla Svezia agli Stati Uniti in barca per non mettere piede su un odiato mezzo con le ali. Perché gli aerei inquinano, il cherosene bruciato dai jet si disperde nell'atmosfera, allarga il buco dell'ozono e contribuisce ai vituperati cambiamenti climatici. Quindi, dagli all'inquinatore alato e viva il movimento lento. Ora si attendono sgravi fiscali per i produttori di piroscafi o magari di zattere. All'esame ci sono anche misure per colpire i cosiddetti ricchi. Il ministro Roberto Speranza, l'unico rappresentante nell'esecutivo della sinistra di Liberi e uniti, vorrebbe togliere il ticket sulle visite specialistiche e sugli esami. Ottima cosa, a prima vista: salta una delle più odiate tasse sulla salute. Ma siccome i soldi per finanziare la sanità da qualche parte vanno trovati, ecco l'idea di infierire su qualche strumento finanziario. «Pagano banche, assicurazioni e fondi», ha detto Speranza. I quali prima protesteranno e infine scaricheranno il conto sui risparmiatori. Dal canto suo, per non sfigurare davanti alla fantasia impositrice del governo, Confindustria ha proposto una tassa sui prelievi in contanti, come se non fossero sufficienti le commissioni da versare alle banche. Vogliono incentivare l'utilizzo delle carte elettroniche per combattere il «nero». Sarà. Intanto chi ci guadagna sono i gestori del credito. E sullo sfondo, con la coppia Pd-M5s a Palazzo Chigi, resta sempre il classico spettro di una patrimoniale. Stefano Filippi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-paese-delle-tasse-2640476853.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="fisco-locale-attenti-alla-riforma" data-post-id="2640476853" data-published-at="1765452064" data-use-pagination="False"> «Fisco locale, attenti alla riforma» È all'esame del Parlamento una riforma del fisco locale che rischia di compromettere l'autonomia impositiva dei Comuni. Il professor Gaetano Ragucci, ordinario di diritto tributario alla Statale di Milano e presidente dell'Associazione nazionale tributaristi italiani, spiega il contesto di questa operazione. Perché si vuole rivedere il sistema impositivo locale? «La riforma risale al 2014, quando fu introdotta l'imposta unica comunale articolata in Imu e Tasi. Due imposte separate, una basata sulle rendite catastali, l'altra parametrata sui costi per i servizi indivisibili come l'illuminazione pubblica, la manutenzione delle strade, la sicurezza e altre voci alle quali tutti devono contribuire». L'impianto non regge più? «La Tasi era pensata come strumento di autonomia fiscale, cioè di responsabilità dei Comuni nella gestione delle proprie casse. Tanto si percepisce, tanto si spende e poi saranno i cittadini a giudicare al momento del voto. Questa impostazione è però andata in crisi». Per quali motivi? «Si sono combinati due fattori. Il primo è l'esenzione dall'Imu delle prime case, che ha determinato una sensibile riduzione del gettito. Il secondo è il meccanismo di perequazione tra Comuni, al quale non partecipa lo Stato, che impone agli enti locali con più risorse di trasferirne una parte a chi ne ha meno. In generale, le disponibilità sono diminuite e la Tasi, invece che imposta da gestire responsabilmente, è andata a compensare la perdita di gettito». Ora il Parlamento che cosa intende fare? «Ci sono tre proposte di legge, a firma Gusmeroli (Lega), Fragomeli (Pd) e Cancelleri (M5s) che nella sostanza prendono atto di questo fallimento e concordano nel fare confluire la Tasi nell'Imu». L'Associazione dei tributaristi che cosa ne pensa? «A luglio, come altre associazioni, siamo stati convocati per un'audizione alla Commissione finanze alla Camera e abbiamo osservato che questa riforma è a gettito invariato: semplifica, perché elimina una voce di imposta, ma non porta giovamento ai contribuenti. Inoltre, la riunione delle due vecchie imposte fa venire meno uno degli strumenti dell'autonomia impositiva dei Comuni». Cioè toglie margini di intervento agli enti locali? «Risponde a uno stato di necessità generale, ma riporta la fiscalità locale in una condizione di tensione finanziaria in cui molti invocano l'aiuto dello stato. L'Anci, per esempio, ha proposto che lo Stato tornasse a mettere risorse proprie nel fondo di perequazione per i Comuni meno abbienti». Un ritorno al passato. «Noi ci siamo discostati perché si ripropone un'impostazione abbandonata, quella della finanza locale che vive di trasferimenti dal centro. Tornerebbe la deresponsabilizzazione che fu ripudiata negli anni Novanta perché riconosciuta come causa dei fenomeni di malcostume. La riforma fu fatta proprio per evitare ciò». E voi non volete che si faccia un passo indietro. «No. Anzi si potrebbe approfittare della riforma in cantiere per accelerare sulla digitalizzazione del rapporto tra contribuente e amministrazioni locali. Su questo fronte non si parte da zero, come mostrano per esempio la fattura elettronica o le dichiarazioni precompilate. L'informatizzazione dovrebbe essere estesa alla fiscalità locale attraverso una piattaforma nazionale unitaria da cui il cittadino possa conoscere la sua posizione in tempo reale». È anche uno strumento di lotta all'abusivismo. «E una semplificazione reale, che eliminerebbe varie intermediazioni». Che cosa chiedete dunque al Parlamento? «Una semplificazione effettiva e che non si perda la prospettiva dell'autonomia impositiva locale». Stefano Filippi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-paese-delle-tasse-2640476853.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="la-gara-tra-sindaci-inventare-tributi-per-servizi-scadenti" data-post-id="2640476853" data-published-at="1765452064" data-use-pagination="False"> La gara tra sindaci: inventare tributi per servizi scadenti La tendenza va avanti da anni. Sempre più spesso il gettito di diverse imposte finisce per passare dalle tasche dello Stato a quelle dei Comuni. In parole povere, le tasse locali aumentano, ma i servizi restano sempre gli stessi (quando non diminuiscono). Oltre alle più note Imu (nel 2019, secondo uno studio Uil, le aliquote dell'imposta sulla casa sono salite in 215 Comuni), Tari (aumentata in 44 Comuni italiani) e addizionali comunali (divenute più salate in 566 amministrazione locali) esiste infatti una moltitudine di tributi locali che finiscono per ingrassare i portafogli dei Comuni senza offrire però particolari benefici ai cittadini. Come spiegano alcuni dati forniti dall'ex consigliere economico del presidente del Consiglio Renzi (e poi Gentiloni), Luigi Marattin, molti amministrazioni locali hanno iniziato a tagliare le spese e a ingolfare di tasse «fantasiose» le tasche dei cittadini. Secondo Marattin, dal 2010 i Comuni hanno tagliato la spesa pubblica del 28,24%. Un taglio che si è tradotto in una riduzione dei servizi: per fare un esempio, secondo il sito Openbilanci.it, nel 2005 la spesa media in cultura delle città con più di 200.000 abitanti era di 71,5 euro per ogni abitante. Nel 2014, la somma spesa per diffondere cultura dalle amministrazioni locali è scesa a 61 euro per abitante. Che dire poi di tutti i servizi per l'infanzia. Un'elaborazione della Fp Cgil Nazionale, condotta sui dati Istat relativi all'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, mostra come la spesa dei Comuni per i nidi abbia smesso di crescere da tempo, passando da 1,6 miliardi di euro del 2012 a 1,475 miliardi del 2016 (ultimo dato disponibile). Con questi chiari di luna è dunque evidente come le amministrazioni locali tentino in tutti i modi, anche quelli più fantasiosi, di trovare altri introiti attraverso nuove imposte. Esiste ad esempio un'imposta per l'esposizione della bandiera, di fatto un balzello per la pubblicità allo Stato, per poter esibire la bandiera dello Stato italiano. La nota divertente è che per la bandiera della Comunità europea questa imposta non vige. C'è persino un'imposta sui gradini. Il proprietario di un immobile con scalini che danno direttamente sulla strada pubblica, ha infatti l'obbligo di pagare un'imposta. Questo vale anche sui ballatoi prospicienti sulla pubblica via. Lo stesso vale per chi vuole posare uno zerbino sul suolo pubblico. In Italia esiste anche una tassa sull'ombra che grava su qualsiasi locale che monti una tenda che proietti ombra sul marciapiede occupando quindi il suolo pubblico. Sono tutte imposte riconducibili alla Tosap, la tassa di occupazione del suolo pubblico, un tributo più che giusto quando marciapiedi, strade e piazze di proprietà pubblica sono effettivamente occupati dai privati. Il problema è che la Tosap diventa anacronistica quando, ad esempio, si colpisce il passaggio obbligato che un cittadino deve fare per entrare e uscire da casa sua. Esiste persino un balzello sui permessi della raccolta dei funghi. Per raccogliere funghi serve un permesso su cui grava un'imposta di bollo. In alcuni comuni vige anche la tassa sulla raccolta delle castagne. Persino per chi passa a miglior vita c'è da pagare. Il rilascio del certificato di constatazione di decesso rilasciato dall'ufficiale sanitario dell'Asl ha un costo di 35 euro più un euro di bollettino postale. Non finisce qui, chi sceglie di essere cremato e di disperdere in aria le sue ceneri deve pagare una tassa più relative imposte di bollo. Senza considerare il diritto fisso sul trasporto dei defunti e la tassa per la manutenzione dei cimiteri. Le amministrazioni comunali chiedono soldi anche per sposarsi. Chi sceglie di convolare a nozze in Comune deve pagare una tassa sulla celebrazione. Il bello è che il prezzo varia da Comune a Comune oppure anche se vi si risiede o meno. Ad esempio, sposarsi in Campidoglio a Roma per chi non ci abita costa 150 euro nei giorni feriali e 200 nel fine settimana. In un primo momento si pensò anche a un contributo di 100 euro per i residenti, proposta poi ritirata. Pur non avendo centrali nucleari attive in Italia i contribuenti italiani sono costretti ancora oggi (dopo il referendum del 1987 che mise fine alle centrali nucleari in Italia) a pagare attraverso la bolletta dell'elettricità un euro ogni 5.000 chilowattora per finanziare quelle amministrazioni locali che ai tempi avevano deciso di ospitare impianti per la produzione di energia attraverso combustibili nucleari. Tra i balzelli più curiosi c'è persino una imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili (che vige anche per chi non ha preso un aereo in vita sua). A questa va aggiunta l'addizionale comunale su diritti di imbarco dei passeggeri. Tutta questa fantasia tributaria è figlia di un'ondata federalista partita nei primi anni 2000 che invece di avvicinare le tasse ai servizi attesi dai cittadini, invece di semplificare loro la vita, ha tolto certezza di diritto e ha aggiunto lacci del tutto inutili all'attività economica. A questo si aggiunga una crisi economica da cui l'Italia non si è mai davvero rialzata. Come spiega la Cgia, negli ultimi 20 anni la ricchezza del nostro Paese è cresciuta mediamente soltanto dello 0,2% ogni anno. I soldi non bastano al fabbisogno delle amministrazioni e questo innesca una spasmodica necessità di fare cassa. Il punto è che, all'aumentare delle imposte, i cittadini non vedono da tempo un aumento dei servizi. Gianluca Baldini
A dirlo è l’Unctad (United nations conference on trade and development), l’organismo dell’Onu che si occupa di commercio e sviluppo, secondo cui le misure tariffarie e le politiche industriali stanno cambiando la geografia degli scambi più di quanto ne stiano riducendo l’ammontare complessivo.
Il 2024 ha rappresentato, infatti, un punto di svolta dopo la debolezza del 2023. L’organizzazione della Nazioni Unite ha registrato per il 2024 un valore record di circa 33 trilioni di dollari di scambi globali di beni e servizi, con una crescita intorno al 3,7% (circa +1,2 trilioni). La componente servizi ha guidato l’espansione: +9% nell’anno, con un contributo di circa 700 miliardi, pari a quasi il 60% della crescita totale; i beni sono saliti di circa il 2% (+500 miliardi).
Il 2025, inoltre, consolida il quadro. Nell’aggiornamento di dicembre, Unctad stima che il commercio mondiale supererà per la prima volta i 35 trilioni di dollari, con un aumento di circa 2,2 trilioni, ossia circa il 7% in più rispetto al 2024. Di questa crescita, circa 1,5 trilioni verrebbero dai beni e circa 750 miliardi dai servizi, attesi in aumento vicino al 9%. Per il quarto trimestre 2025, la crescita rimane positiva ma più moderata: circa lo 0,5% in più per i beni e il 2% per i servizi. Nel 2026, invece, la stima è di un rallentamento causato da tensioni geopolitiche, conflitti e costi crescenti (tra cui i dazi).
Ma come i dazi hanno allora influenzato i commerci mondiali? Unctad osserva che la frammentazione geopolitica sta rimodellando i flussi e che friendshoring (delocalizzazione verso Paesi considerati amici) e nearshoring (spostamento verso Stati vicini a quello di origine) stanno rafforzandosi.
In parallelo, la crescita dei servizi rende il sistema meno vulnerabile alle tariffe sui beni. I servizi digitali, professionali e legati alle catene manifatturiere avanzate sono più scalabili, spesso regolati da standard e da norme di mercato più che da dazi doganali, e trovano domanda in fasi del ciclo economico diverse rispetto alle merci tradizionali. L’aumento più rapido dei servizi nel 2024 e nel 2025 è coerente con questa trasformazione del mix commerciale.
Unctad segnala anche un passaggio dalla crescita «di prezzo» a una crescita più «di volume» verso fine 2025: dopo due trimestri sostenuti anche da prezzi più alti, le quotazioni dei beni scambiati dovrebbero calare, e l’espansione sarà trainata maggiormente dalle quantità effettivamente commerciate.
Un ulteriore elemento di tenuta è il protagonismo delle economie in via di sviluppo. Unctad evidenzia che nel 2024 le economie emergenti hanno sostenuto gran parte della dinamica e che gli scambi Sud-Sud hanno continuato a crescere. Nel 2025 questa tendenza si è rafforzata: Asia orientale e Africa risultano tra le principali aree commerciali, mentre gli scambi tra Paesi in via di sviluppo hanno mostrato un’espansione più rapida della media globale.
I dati Unctad, insomma, non raccontano la fine della globalizzazione, ma la sua ricalibrazione. La crescita degli scambi convive con dazi più alti perché il commercio si sta spostando a Oriente, incorporando una quota crescente di servizi.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Per quanto riguarda, invece, la direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale (Csrd), che impone alle aziende di comunicare il proprio impatto ambientale e sociale, l’accordo prevede si applichi solo alle aziende con più di 1.000 dipendenti e un fatturato netto annuo di 450 milioni di euro.
Con le modifiche decise due giorni fa, l’80% delle aziende che sarebbero state soggette alla norma saranno ora liberate dagli obblighi. Festeggia Ursula von der Leyen: «Accolgo con favore l’accordo politico sul pacchetto di semplificazione Omnibus I. Con un risparmio fino a 4,5 miliardi di euro ridurrà i costi amministrativi, taglierà la burocrazia e renderà più semplice il rispetto delle norme di sostenibilità», ha detto il presidente della Commissione.
In un comunicato stampa, la Commissione dice: «Le misure proposte per ridurre l’ambito di applicazione della Csrd genereranno notevoli risparmi sui costi per le aziende. Le modifiche alla Csddd eliminano inutili complessità e, in ultima analisi, riducono gli oneri di conformità, preservando al contempo gli obiettivi della direttiva».
Dunque, ricapitolando, la revisione libera dall’obbligo di conformità l’80% dei soggetti obbligati dalla vecchia norma, il che significa evidentemente che per l’80% dei casi quella norma era inutile, anzi dannosa, visto che comportava costi ingenti per il suo rispetto e nessuna utilità pratica. Se vi fosse stata una qualche utilità la norma sarebbe rimasta anche per questi, è chiaro.
Non solo. Von der Leyen si rallegra di avere fatto risparmiare 4,5 miliardi di euro, come se a scaricare quella montagna di costi sulle aziende fosse stato qualcun altro o il destino cinico e baro, e non la norma che lei stessa e la sua maggioranza hanno voluto. La Commissione si rallegra di aver semplificato cose che essa stessa ha complicato, di avere tolto burocrazia dopo averla messa.
In questa commedia si potrebbe sospettare una regia di Eugène Ionesco, se fosse ancora vivo. La verità è che già la scorsa primavera, Germania e Francia avevano chiesto l’abrogazione completa delle norme. Nelle dichiarazioni a seguito dell’accordo tra Consiglio Ue e Parlamento, con la benedizione della Commissione, non è da meno il sagace ministro danese dell’Industria, Morten Bodskov (la Danimarca ha la presidenza di turno del Consiglio Ue): «Non stiamo rimuovendo gli obiettivi green, stiamo rendendo più semplice raggiungerli. Pensavamo che legislazione verde più complessa avrebbe creato più posti di lavoro green, ma non è così: anzi, ha generato lavoro per la contabilità». C’è da chiedersi se da quelle parti siano davvero sorpresi dell’effetto negativo generato dall’imposizione di inutile burocrazia sulle aziende. Sul serio a Bruxelles qualcuno pensa che complicare la vita alle imprese generi posti di lavoro? Sono dichiarazioni ben più che preoccupanti.
Fine di un incubo per migliaia di aziende europee, dunque, ma i problemi restano, essendo la norma di difficile applicazione pratica anche per le multinazionali. Sulla revisione delle due direttive hanno giocato certamente un ruolo le pressioni degli Stati Uniti, dopo che Donald Trump a più riprese ha sottolineato come vi siano barriere non di prezzo all’ingresso nel mercato europeo che devono essere eliminate. Due di queste barriere sono proprio le direttive Csrd e Csddd, che restano in vigore per le grandi aziende. Non a caso, il portavoce dell’azienda americana del petrolio Exxon Mobil ha fatto notare che si tratta di norme extraterritoriali, definendole «inaccettabili», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder ha detto che le norme rendono difficile la fornitura all’Europa dell’energia di cui ha bisogno.
La sensazione è che si vada verso un regime di esenzioni ad hoc, si vedrà. Ma i lamenti arrivano anche dalla parte opposta. La finanza green brontola perché teme un aumento dei rischi, senza i piani climatici delle aziende, che però nessuno sinora ha mai visto. Misteri degli algoritmi Esg.
Ora le modifiche, che fanno parte del pacchetto Omnibus I presentato lo scorso febbraio dalla Commissione, dovranno essere approvate dal Consiglio Ue, dove votano i ministri e dove non dovrebbe incontrare ostacoli, e dal Parlamento europeo, dove invece è possibile qualche sorpresa nel voto. La posizione del Parlamento che ha portato all’accordo di martedì è frutto di una intesa tra i popolari del Ppe e la destra dei Patrioti e di Ecr. Il gruppo dei Patrioti esulta, sottolineando come l’accordo sia frutto di una nuova maggioranza di centrodestra che rende superata la maggioranza attuale tra Ppe, Renew e Socialisti.
Il risvolto politico della vicenda è che si è rotto definitivamente il «cordone sanitario» steso a Bruxelles attorno al gruppo che comprende il Rassemblement national francese di Marine Le Pen, il partito ungherese Fidesz e la Lega di Matteo Salvini.
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)
La Bce, pur riconoscendo «alcune novità (nel testo riformulato) che vanno incontro alle osservazioni precedenti», in particolare «il rispetto degli articoli del trattato sulla gestione delle riserve auree dei Paesi», continua ad avere «dubbi sulla finalità della norma». Con la lettera, Giorgetti rassicura che l’emendamento non mira a spianare la strada al trasferimento dell’oro o di altre riserve in valuta fuori del bilancio di Bankitalia e non contiene nessun escamotage per aggirare il divieto per le banche centrali di finanziare il settore pubblico.
Il ministro potrebbe inoltre fornire un ulteriore chiarimento direttamente alla presidente Lagarde, oggi, quando i due si incontreranno per i lavori dell’Eurogruppo. Se la Bce si riterrà soddisfatta delle precisazioni, il ministero dell’Economia darà indicazioni per riformulare l’emendamento.
Una nota informativa di Fdi, smonta i pregiudizi ideologici e le perplessità che sono dietro alla nota della Bce. «L’emendamento proposto da Fratelli d’Italia è volto a specificare un concetto che dovrebbe essere condiviso da tutti: ovvero che le riserve auree sono di proprietà dei popoli che le hanno accumulate negli anni, e quindi», si legge, «si tratta di una previsione che tutti danno per scontata. Eppure non è mai stata codificata nell’ordinamento italiano, a differenza di quanto è avvenuto in altri Stati, anche membri dell’Ue. Affermare che la proprietà delle riserve auree appartenga al popolo non confligge, infatti, in alcun modo con i trattati e i regolamenti europei». Quindi ribadire un principio scontato, e cioè che le riserve auree sono di proprietà del popolo italiano, non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. «Già nel 2019 la Bce, allora guidata da Mario Draghi, aveva chiarito che la questione della proprietà legale e delle competenze del Sistema europeo delle banche centrali (Sebc), con riferimento alle riserve auree degli Stati membri, è definita in ultima istanza dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue)». La nota ricorda che «il parere della Bce del 2019, analogamente a quello redatto lo scorso 2 dicembre, evidenziava che il Trattato non determina le competenze del Sebc e della Bce rispetto alle riserve ufficiali, usando il concetto di proprietà. Piuttosto, il Trattato interviene solo sulla dimensione della detenzione e gestione esclusiva delle riserve. Pertanto, dire che la proprietà delle riserve auree sia del popolo italiano non lede in alcun modo la prerogativa della Banca d’Italia di detenere e gestire le riserve».
Altro punto: Fdi spiega che «nel Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Ue) si parla di “riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri”, quindi si prevede implicitamente che la proprietà delle riserve sia in capo agli Stati. L’emendamento di Fdi vuole esplicitare nell’ordinamento italiano questa previsione». C’è chi sostiene che affermare che la proprietà delle riserve auree di Bankitalia è del popolo italiano non serva a nulla. Ma Fdi dice che «l’Italia non può correre il rischio che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani. Per questo c’è bisogno di una norma che faccia chiarezza sulla proprietà».
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Con Giuseppe Trizzino fondatore e Amministratore Unico di Praesidium International, società italiana di riferimento nella sicurezza marittima e nella gestione dei rischi in aree ad alta criticità e Stefano Rákos Manager del dipartimento di intelligence di Praesidium International e del progetto M.A.R.E.™.