2018-11-13
Il guru degli psichiatri Usa: i pazzi votano per le destre
Allen Frances ha curato la stesura del manuale diagnostico dei disturbi mentali. Nel nuovo libro spiega che l'ascesa dei movimenti identitari è dovuta a follia.E a sinistra c'è chi vuole seguire il suo esempio. L'intellettuale Chantal Mouffe, in un pamphlet, propone di creare un «populismo alternativo» per far rinascere i partiti democratici europei.Il giullare contro le élite. Quando Dario Fo dava lezioni di populismo. Nelle commedie e nelle canzoni del premio Nobel si trovano temi e toni molto simili a quelli che i progressisti di oggi condannano.Lo speciale comprende tre articoli. Fu lo psichiatra Massimo Fagioli a dichiarare perentoriamente: «Una persona sana di mente non può non essere di sinistra». E sebbene l'uomo fosse estremamente discutibile e discusso, fin troppi dalle nostre parti hanno fatto propria quella sua frase. Sono anni, ormai, che dal fronte progressista sentiamo ripetere ogni genere di bestialità. Di fronte all'avanzare dei partiti «di destra», «identitari» o «populisti», la sinistra ha ideato le spiegazioni più allucinanti. Chi rifiuta di votare i partiti «democratici» è stato dipinto come ignorante, stupido, poco scolarizzato, ostaggio di pregiudizi e paure. Sulla paura, ultimamente, i progressisti insistono con particolare vigore. Non potendo dire apertamente che chi non li sostiene è un demente, dipingono il quadretto di un popolo in preda a timori irrazionali, privo di lucidità e guidato dai soli istinti. Un esempio perfetto di questo atteggiamento è il libro Nel labirinto delle paure, firmato dal sociologo Aldo Bonomi e dall'assessore milanese del Partito democratico Pierfrancesco Majorino. Il volumetto spiega che nel nostro Paese «si fa strada la paura», un sentimento che i «populismi e nazionalismi» sfruttano onde «alimentarla di rancore e rovesciarla su chi sta ancora più in basso». A intemerate di questo tipo, dicevamo, ormai siamo abituati. Non stupisce e di certo non indigna vedere l'esponente del Pd o il titolato editorialista esprimere disprezzo verso la massa idiota che vota la Lega o i 5 stelle. Il problema sorge quando lo stesso disprezzo promana dalle pagine di uno dei più stimati e riveriti psichiatri del mondo. Stiamo parlando dell'americano Allen Frances, professore emerito di psichiatria alla Duke University e autore di una serie di saggi tradotti e apprezzati a livello globale. L'editore Bollati Boringhieri (lo stesso di Bonomi e Majorino) ha appena pubblicato in Italia il nuovo bestseller di Frances intitolato Il crepuscolo di una nazione, che negli Stati Uniti ha suscitato ampio e scoppiettante dibattito. Il senso del libro è perfettamente riassunto dalla frase che lo apre: «Non è Trump a essere pazzo. Siamo noi». Questa affermazione non scaturisce dal nulla. È la risposta del professore di Duke alle tesi di illustri intellettuali democratici che, negli ultimi tempi, hanno speculato sulla sanità mentale del presidente americano, utilizzando più o meno gli stessi argomenti sfoderati dai progressisti di casa nostra (i quali sono soliti clonare tutto ciò che arriva da New York e dintorni). Secondo Frances, Donald Trump è un narcisista, tuttavia non è un malato mentale. In compenso, a mostrare segni evidenti di squilibrio sono tutti quelli che lo hanno votato. «Trump è sintomo di un mondo in difficoltà, non ne è l'unica causa», scrive lo psichiatria. «Rimproverarlo per i nostri problemi significa non vedere la ben più profonda malattia sociale che sta dietro e ha reso possibile la sua improbabile ascesa. Dire che Trump è un pazzo ci permette di non vedere la follia della nostra società - se vogliamo tornare a essere sani di mente, dobbiamo innanzitutto capire noi stessi. Detta in due parole: Trump non è pazzo, ma la nostra società sì». Alcune pagine dopo, lo studioso rincara la dose: «Se il 46% della popolazione votante condivide una credenza bizzarra e ti elette presidente, si tratta di delirio collettivo, non personale». Frances, a un certo punto del saggio, è costretto ad ammettere che i problemi da cui gli elettori di The Donald sono afflitti sono, effettivamente, concreti e pressanti. Tuttavia, non molla la presa e continua per oltre 300 pagine a spiegare perché chi sostiene i populisti vada considerato malato di mente. La sua analisi, inoltre, non si ferma agli Stati Uniti, ma prende in esame anche fenomeni europei (da Marine Le Pen alla Brexit passando per la situazione italiana). «La nostra follia sociale», afferma, «è una pandemia diffusa e può essere curata solo con la collaborazione di tutto il mondo. Il tribalismo e il nazionalismo sono segnali della prolungata adolescenza della nostra specie: diventiamo adulti in fretta o potremmo non diventare adulti mai più». Non per nulla, l'editore Bollati Boringhieri presenta il libro al pubblico italiano scrivendo che «Allen Frances scrive un'analisi impietosa del sistema democratica, che risulta valida, in questi tempi incerti, per ogni Stato che sia tentato dal fenomeno populista». Giunti a questo punto, qualche lettore potrebbe obiettare: «Che c'è di strano? Si tratta dell'ennesimo professore americano che odia Trump e se la prende con i populisti, esattamente come fanno tanti intelligentoni di casa nostra». Ed eccoci il punto. Allen Frances non è uno psichiatra qualunque. Egli ha fatto parte del comitato che ha redatto il Dsm-III (curandone la sezione sui disturbi di personalità) e ha guidato la squadra di studiosi che ha elaborato il Dsm-IV. Il Dsm (Diagnostic and statistical manual of mental disorders) è il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali redatto dalla American Psychiatric Association. È il testo a cui fanno riferimento tutti i medici, psichiatri e psicanalisti del mondo per curare i pazienti. Attualmente è giunto alla quinta edizione, ma tante delle parti scritte da Frances e dai suoi collaboratori sono ancora valide. Insomma, il signore secondo cui l'ascesa dei populismi è frutto di follia è l'autore di un manuale che, a partire dal 2000 e per quasi 15 anni ha stabilito i confini della malattia mentale. Tutto ciò deve far riflettere. Di questi tempi, la scienza viene presentata come una sorta di antidoto al populismo. Alcuni partiti ne fanno una bandiera, come a dire: di fronte all'irrazionalità delle destre, noi ci basiamo sulla verità suprema. Si pensa che la scienza sia impersonale, neutra, fatta di numeri e cifre. In realtà, è fatta di uomini e da uomini. Persone che esprimono opinioni politiche, e sono portatrici di ideologia. Studiosi come Allen Frances, uno che ha segnato la storia della psichiatria e poi scrive libri feroci e faziosi che lo fanno sembrare un Majorino qualsiasi.Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-guru-degli-psichiatri-usa-i-pazzi-votano-per-le-destre-2619405795.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="e-a-sinistra-ce-chi-vuole-seguire-il-suo-esempio" data-post-id="2619405795" data-published-at="1758065957" data-use-pagination="False"> E a sinistra c’è chi vuole seguire il suo esempio C'è chi considera malati di mente gli elettori dei partiti populisti. Ma c'è pure chi, da sinistra, pensa di imitarli. Per esempio Chantal Mouffe, docente di Teoria politica all'Università di Westminster, a Londra, considerata una delle più brillanti studiose del mondo, specialmente nei circoli progressisti. L'editore Laterza ha appena dato alle stampe il suo agile libretto intitolato Per un populismo di sinistra, che a molti soloni nostrani farà probabilmente friggere il fegato. La Mouffe, in sostanza, sbriciola gran parte della retorica oggi molto in voga in Europa (e in Italia in particolare). Dalle nostre parti, è noto, va di moda gridare al fascismo. Impazzano «fascistometri» e altre insulsaggini della medesima risma. Ma la studiosa di origine francese spiega: «Classificare i partiti populisti di destra come “di estrema destra" o “neofascisti", e attribuire il loro appeal alla mancanza di cultura di chi li sostiene è una soluzione fin troppo comoda per le forze di centrosinistra. È un facile espediente per sminuire il fenomeno senza riconoscere le responsabilità dello stesso centrosinistra per questa emergenza. Con lo stabilire una frontiera “morale", così da escludere gli “estremisti" dal dibattito democratico, i “bravi democratici" credono di poter interrompere l'ascesa e l'affermarsi di passioni “irrazionali". Tale strategia di demonizzazione dei “nemici" del consenso bipartisan può apparire di conforto sul piano morale, ma è politicamente castrante». Già, eppure la sinistra italiana è ferma lì, alla demonizzazione del nemico, all'infinita divisione fra buoni e cattivi. Secondo la Mouffe, invece, è «necessario elaborare una risposta schiettamente politica» al populismo di destra. «Anziché escludere a priori gli elettori dei partiti populisti di destra, perché necessariamente animati da passioni primitive, condannandoli quindi a restare per sempre prigionieri di quei sentimenti, è necessario riconoscere il nucleo democratico all'origine di molte delle loro domande». A parere della Mouffe, il populismo non è una bestia feroce da domare, anzi. In un'epoca caratterizzata dall'eclissi della politica, che è diventata mera «gestione dell'ordine costituito», totalmente schiacciata sul pensiero unico neoliberale, il populismo è un ritorno del politico. L'ascesa di populismi (di ogni colore) è l'indicatore di «un risveglio politico dopo anni di relativa apatia». Quello che la studiosa vorrebbe creare è, sostanzialmente, un populismo di sinistra che conduca a «una riaffermazione ed estensione dei valori democratici». Interessante, sulla carta. Viene da chiedersi come sia possibile realizzarlo, però. Il rischio (per la sinistra) è che il «suo» populismo si riveli una triste imitazione dei movimenti di destra, una brutta copia che arriva in ritardo, e con armi spuntate. In ogni caso, poco c'importa. Quel che conta è notare come, specie in altri Paesi, ci sia a sinistra qualcuno capace di uscire dalle solite banalità. Qualcuno in grado di evitare la demonizzazione dell'avversario, qualcuno che non gridi al fascismo o non accusi gli avversari politici di essere malati di mente. Forse, se dalle nostre parti ci fossero intellettuali come Chantal Mouffe, il livello del discorso sarebbe decisamente più elevato, l'astio politico non sarebbe così diffuso e tutto il Paese ne guadagnerebbe. Ma, purtroppo, di Mouffe per ora ce n'è una sola, e non sta in Italia. Riccardo Torrescura <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-guru-degli-psichiatri-usa-i-pazzi-votano-per-le-destre-2619405795.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-giullare-contro-le-elite-quando-dario-fo-dava-lezioni-di-populismo" data-post-id="2619405795" data-published-at="1758065957" data-use-pagination="False"> Il giullare contro le élite Quando Dario Fo dava lezioni di populismo «Stringimi forte i polsi/contro le mani tue/ ed anche ad occhi chiusi/ gli occhi tuoi vedrò/ prego, raccogli il mio amore/ ti prego/ per un sorriso/ se vuoi te lo cedo…». Questa è la canzone con cui il 15 ottobre del 2016, sul sagrato del duomo di Milano, si è aperta la cerimonia laica per salutare il premio nobel Dario Fo. «La aveva scritta lui per la mamma», Franca Rame, dichiarava il figlio Jacopo, commosso. Ed era vero. Vero era anche, come subito avevano ricordato molti giornali, che la canzone, nella versione cantata da Mina, fu la colonna sonora della contestata Canzonissima del 1962, condotta proprio dalla coppia Fo-Rame, che inaugurò ufficialmente la fama maledetta da contestatori del duo milanese. Tuttavia, Fo aveva scritto la canzone anni prima. Nel 1959, essa compare nella commedia in tre atti Gli arcangeli non giocano a flipper, musicata dal leggendario Fiorenzo Carpi. Se Canzonissima segna pubblicamente (l'inizio de) il passaggio dal Fo del teatro «leggero» al Fo giullare contro il potere, Gli arcangeli non giocano a flipper è considerata, tra i lavori del premio Nobel, un testo di transizione. Sebbene non contenga una satira politica militante come i lavori dei tardi anni Sessanta e Settanta, elementi del Fo più tardo sono in essa contenuti in nuce. A fare da trait d'union satirico nella commedia, infatti, è un altro capolavoro musicale di Fo e Carpi: Fratelli d'ufficio, l'inno dei burocrati italiani. «Alziam gli sportelli, laudiamo al Signore/ Che per nostro amore qui tutto creò: / I timbri rotondi, la carta bollata/ La marca da dieci, la carta intestata/ l'usciere alla porta, i portapennini / La penna, i cestini per il capo-sezion!». Così cantano i burocrati. Nella commedia, l'amore popolare si oppone alla proverbiale burocrazia italica. Negli anni successivi, fanno capolino nella produzione di Fo altri temi che la sinistra odierna liquiderebbe come becera e banalizzante antipolitica. In Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), commedia che dà un ritratto antieroico e truffaldino di Cristoforo Colombo e della sua impresa, è, nuovamente, un canzone, quella che chiude il primo tempo, cantata a squarciagola sullo sfondo della splendida scenografia disegnata da Fo che si può apprezzare nella registrazione Rai del 1977, a restituirci il succo morale (moralista?) dello spettacolo: «Cristoforo Colombo con due facce di bronzo/ cacciando qualche balla ottenne le tre caravelle/ […] così fece propria codesta morale/ se tu vuoi dall'uomo fiducia acquistare/ tu non farti scrupoli lo devi truffare/ perché nella truffa vivendo da un pezzo/ ei più non distingue profumo da puzza». Il Colombo di Fo è un fanfarone che convince la regina Isabella (Franca Rame) a dargli le navi a suon di balle. L'America è dietro l'angolo e Colombo è il classico italiano smargiasso. Ma sì, che importa mentire (o non fare gli scontrini), tanto in Italia è tutto marcio. Una visione che Fo conferma pochi anni dopo, in Settimo ruba un po' meno. Fo è sempre Fo. Di nuovo battone, di nuovo stralunati e qualche matto vero, loschi commercialisti e suore. Il ritratto dell'Italia del 1964 è impietoso: la commedia si conclude con un altro inno, non dei burocrati ma degli Italioti: «Se ci dicon: quello ruba, quello truffa, quello frega, / noi alziamo la spalluccia e da idioti sorridiam. / Perché siamo gli italioti, razza antica indo-fenicia, / siam felici, siam contenti del cervello che teniamo. / Anche voi dovreste farlo: trapanatevi il cervello / e mettetevi anche un'elica, per andar sempre col vento». Tutta brava gente, altra canzonetta della commedia, accompagna il disvelarsi del politico intrigo con parole inequivocabili: «Truffe sui medicinali, sulle mutue e gli ospedali, / sopra i dazi e le dogane, gli aeroplani e le banane./ Oh, che pacchia, che cuccagna: / bella è la vita per chi la sa far! / Ma tu, miracolato del ceto medio basso, / tu devi risparmiare, accetta sto salasso: / non devi mangiar carne, / devi salvar la lira / e, mentre gli altri fregano, tu fai l'austerità!». Il miracolato del ceto medio basso (che detto nell'Italia del boom fa forse sorridere oggi) fa l'austerità mentre chi sta al potere, truffa proprio su tutto. L'unica differenza è che oggi, al posto della lira dobbiamo salvare l'euro. «Italioti lobotomizzati sveglia! Di austerity si muore, mentre loro gozzovigliano», sembra dire Fo. Ma non è proprio per via di argomenti del genere che quelli «giusti» e illuminati prendono in giro i populisti ai nostri giorni? Dario Fo ha vinto il Nobel restituendo, con la sua arte, dignità agli oppressi, così diceva l'accademia di Svezia premiando l'attore lombardo. «Arte popolare» è una locuzione che ritorna in modo quasi ridondante nel lavoro di Dario Fo e Franca Rame. L'idea di Fo era quella di riscoprire la vecchia e dimenticata arte popolare, quella dei giullari che l'attore tornerà a far vivere in Mistero Buffo. Popolare nei luoghi che abitava (Fo uscì dal circuito teatrale tradizionale e portò il teatro nelle fabbriche e in luoghi non convenzionali) e nei temi, oltre che nel linguaggio. Dall'opera di Fo prepotentemente emerge quel populismo letterario che già Alberto Asor Rosa, da sinistra, stroncò, nel celebre Scrittori e popolo del 1965, da poco ristampato proprio in chiava anti populista. Il critico disprezzava l'arte che proponeva una visione di popolo mitizzato, la stessa della sinistra ufficiale del Pci. I comunisti italiani scrivevano «proletariato», ma intendevano il «popolo che ha sempre ragione». Si riferivano al mite e sentimentale popolo italico dei romanzi di Ignazio Silone (membro attivo della sinistra ufficiale del Psi) e dei quadri di Renato Guttuso (de facto pittore ufficiale del Pci). Questo popolo, a ben vedere, non è poi troppo diverso dal popolo dipinto dal fascista Mario Sironi. Quando uscì Scrittori e popolo, L'Unità non risparmiò Asor Rosa, definendolo un «piccolo borghese sul piedistallo». Tre anni dopo l'uscita del libro, nel 1968, molti di quei «piccoli borghesi» avrebbero scavalcato, dai loro piedistalli, il Pci, dettando le regole della nuova gauche internazionale, a cui lo stesso Fo giurò fedeltà per più di un decennio. La svolta populista di Dario Fo e Franca Rame (lei senatrice Idv, lui grillino di ferro) degli ultimi anni non è stata quindi frutto di rimbambimento senile, ma è semplicemente parte di un fil-rouge pluridecennale. Fo, forse suo malgrado, cantando di un medioevo e di una contemporaneità da lui fin troppo proletarizzati, ha anticipato la polarizzazione sociale di oggi. Giullari contro nobili, Fra Dolcino contro Bonifacio VIII, il poer nano Caino contro Abele il prediletto. L'italiota contro la burocrazia e l'austerità. L'italiota innamorato di una battona vecchio stampo, come quelle dei carrugi genovesi, che in fondo, dietro le labbra rosso fuoco, ha un cuore d'oro. Popolo contro élite, per farla breve. Una contrapposizione che la sinistra italiana di oggi giudica semplicistica e figlia dell'ignoranza. Alberto Pesaro