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2018-11-13
Il guru degli psichiatri Usa: i pazzi votano per le destre
ANSA
Fu lo psichiatra Massimo Fagioli a dichiarare perentoriamente: «Una persona sana di mente non può non essere di sinistra». E sebbene l'uomo fosse estremamente discutibile e discusso, fin troppi dalle nostre parti hanno fatto propria quella sua frase. Sono anni, ormai, che dal fronte progressista sentiamo ripetere ogni genere di bestialità. Di fronte all'avanzare dei partiti «di destra», «identitari» o «populisti», la sinistra ha ideato le spiegazioni più allucinanti. Chi rifiuta di votare i partiti «democratici» è stato dipinto come ignorante, stupido, poco scolarizzato, ostaggio di pregiudizi e paure.
Sulla paura, ultimamente, i progressisti insistono con particolare vigore. Non potendo dire apertamente che chi non li sostiene è un demente, dipingono il quadretto di un popolo in preda a timori irrazionali, privo di lucidità e guidato dai soli istinti. Un esempio perfetto di questo atteggiamento è il libro Nel labirinto delle paure, firmato dal sociologo Aldo Bonomi e dall'assessore milanese del Partito democratico Pierfrancesco Majorino. Il volumetto spiega che nel nostro Paese «si fa strada la paura», un sentimento che i «populismi e nazionalismi» sfruttano onde «alimentarla di rancore e rovesciarla su chi sta ancora più in basso».
A intemerate di questo tipo, dicevamo, ormai siamo abituati. Non stupisce e di certo non indigna vedere l'esponente del Pd o il titolato editorialista esprimere disprezzo verso la massa idiota che vota la Lega o i 5 stelle. Il problema sorge quando lo stesso disprezzo promana dalle pagine di uno dei più stimati e riveriti psichiatri del mondo. Stiamo parlando dell'americano Allen Frances, professore emerito di psichiatria alla Duke University e autore di una serie di saggi tradotti e apprezzati a livello globale.
L'editore Bollati Boringhieri (lo stesso di Bonomi e Majorino) ha appena pubblicato in Italia il nuovo bestseller di Frances intitolato Il crepuscolo di una nazione, che negli Stati Uniti ha suscitato ampio e scoppiettante dibattito.
Il senso del libro è perfettamente riassunto dalla frase che lo apre: «Non è Trump a essere pazzo. Siamo noi». Questa affermazione non scaturisce dal nulla. È la risposta del professore di Duke alle tesi di illustri intellettuali democratici che, negli ultimi tempi, hanno speculato sulla sanità mentale del presidente americano, utilizzando più o meno gli stessi argomenti sfoderati dai progressisti di casa nostra (i quali sono soliti clonare tutto ciò che arriva da New York e dintorni).
Secondo Frances, Donald Trump è un narcisista, tuttavia non è un malato mentale. In compenso, a mostrare segni evidenti di squilibrio sono tutti quelli che lo hanno votato. «Trump è sintomo di un mondo in difficoltà, non ne è l'unica causa», scrive lo psichiatria. «Rimproverarlo per i nostri problemi significa non vedere la ben più profonda malattia sociale che sta dietro e ha reso possibile la sua improbabile ascesa. Dire che Trump è un pazzo ci permette di non vedere la follia della nostra società - se vogliamo tornare a essere sani di mente, dobbiamo innanzitutto capire noi stessi. Detta in due parole: Trump non è pazzo, ma la nostra società sì».
Alcune pagine dopo, lo studioso rincara la dose: «Se il 46% della popolazione votante condivide una credenza bizzarra e ti elette presidente, si tratta di delirio collettivo, non personale».
Frances, a un certo punto del saggio, è costretto ad ammettere che i problemi da cui gli elettori di The Donald sono afflitti sono, effettivamente, concreti e pressanti. Tuttavia, non molla la presa e continua per oltre 300 pagine a spiegare perché chi sostiene i populisti vada considerato malato di mente.
La sua analisi, inoltre, non si ferma agli Stati Uniti, ma prende in esame anche fenomeni europei (da Marine Le Pen alla Brexit passando per la situazione italiana). «La nostra follia sociale», afferma, «è una pandemia diffusa e può essere curata solo con la collaborazione di tutto il mondo. Il tribalismo e il nazionalismo sono segnali della prolungata adolescenza della nostra specie: diventiamo adulti in fretta o potremmo non diventare adulti mai più».
Non per nulla, l'editore Bollati Boringhieri presenta il libro al pubblico italiano scrivendo che «Allen Frances scrive un'analisi impietosa del sistema democratica, che risulta valida, in questi tempi incerti, per ogni Stato che sia tentato dal fenomeno populista».
Giunti a questo punto, qualche lettore potrebbe obiettare: «Che c'è di strano? Si tratta dell'ennesimo professore americano che odia Trump e se la prende con i populisti, esattamente come fanno tanti intelligentoni di casa nostra».
Ed eccoci il punto. Allen Frances non è uno psichiatra qualunque. Egli ha fatto parte del comitato che ha redatto il Dsm-III (curandone la sezione sui disturbi di personalità) e ha guidato la squadra di studiosi che ha elaborato il Dsm-IV.
Il Dsm (Diagnostic and statistical manual of mental disorders) è il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali redatto dalla American Psychiatric Association. È il testo a cui fanno riferimento tutti i medici, psichiatri e psicanalisti del mondo per curare i pazienti. Attualmente è giunto alla quinta edizione, ma tante delle parti scritte da Frances e dai suoi collaboratori sono ancora valide. Insomma, il signore secondo cui l'ascesa dei populismi è frutto di follia è l'autore di un manuale che, a partire dal 2000 e per quasi 15 anni ha stabilito i confini della malattia mentale.
Tutto ciò deve far riflettere. Di questi tempi, la scienza viene presentata come una sorta di antidoto al populismo. Alcuni partiti ne fanno una bandiera, come a dire: di fronte all'irrazionalità delle destre, noi ci basiamo sulla verità suprema. Si pensa che la scienza sia impersonale, neutra, fatta di numeri e cifre. In realtà, è fatta di uomini e da uomini. Persone che esprimono opinioni politiche, e sono portatrici di ideologia. Studiosi come Allen Frances, uno che ha segnato la storia della psichiatria e poi scrive libri feroci e faziosi che lo fanno sembrare un Majorino qualsiasi.
Francesco Borgonovo
E a sinistra c’è chi vuole seguire il suo esempio
C'è chi considera malati di mente gli elettori dei partiti populisti. Ma c'è pure chi, da sinistra, pensa di imitarli. Per esempio Chantal Mouffe, docente di Teoria politica all'Università di Westminster, a Londra, considerata una delle più brillanti studiose del mondo, specialmente nei circoli progressisti.
L'editore Laterza ha appena dato alle stampe il suo agile libretto intitolato Per un populismo di sinistra, che a molti soloni nostrani farà probabilmente friggere il fegato. La Mouffe, in sostanza, sbriciola gran parte della retorica oggi molto in voga in Europa (e in Italia in particolare). Dalle nostre parti, è noto, va di moda gridare al fascismo. Impazzano «fascistometri» e altre insulsaggini della medesima risma.
Ma la studiosa di origine francese spiega: «Classificare i partiti populisti di destra come “di estrema destra" o “neofascisti", e attribuire il loro appeal alla mancanza di cultura di chi li sostiene è una soluzione fin troppo comoda per le forze di centrosinistra. È un facile espediente per sminuire il fenomeno senza riconoscere le responsabilità dello stesso centrosinistra per questa emergenza. Con lo stabilire una frontiera “morale", così da escludere gli “estremisti" dal dibattito democratico, i “bravi democratici" credono di poter interrompere l'ascesa e l'affermarsi di passioni “irrazionali". Tale strategia di demonizzazione dei “nemici" del consenso bipartisan può apparire di conforto sul piano morale, ma è politicamente castrante». Già, eppure la sinistra italiana è ferma lì, alla demonizzazione del nemico, all'infinita divisione fra buoni e cattivi.
Secondo la Mouffe, invece, è «necessario elaborare una risposta schiettamente politica» al populismo di destra. «Anziché escludere a priori gli elettori dei partiti populisti di destra, perché necessariamente animati da passioni primitive, condannandoli quindi a restare per sempre prigionieri di quei sentimenti, è necessario riconoscere il nucleo democratico all'origine di molte delle loro domande».
A parere della Mouffe, il populismo non è una bestia feroce da domare, anzi. In un'epoca caratterizzata dall'eclissi della politica, che è diventata mera «gestione dell'ordine costituito», totalmente schiacciata sul pensiero unico neoliberale, il populismo è un ritorno del politico. L'ascesa di populismi (di ogni colore) è l'indicatore di «un risveglio politico dopo anni di relativa apatia».
Quello che la studiosa vorrebbe creare è, sostanzialmente, un populismo di sinistra che conduca a «una riaffermazione ed estensione dei valori democratici».
Interessante, sulla carta. Viene da chiedersi come sia possibile realizzarlo, però. Il rischio (per la sinistra) è che il «suo» populismo si riveli una triste imitazione dei movimenti di destra, una brutta copia che arriva in ritardo, e con armi spuntate.
In ogni caso, poco c'importa. Quel che conta è notare come, specie in altri Paesi, ci sia a sinistra qualcuno capace di uscire dalle solite banalità. Qualcuno in grado di evitare la demonizzazione dell'avversario, qualcuno che non gridi al fascismo o non accusi gli avversari politici di essere malati di mente.
Forse, se dalle nostre parti ci fossero intellettuali come Chantal Mouffe, il livello del discorso sarebbe decisamente più elevato, l'astio politico non sarebbe così diffuso e tutto il Paese ne guadagnerebbe. Ma, purtroppo, di Mouffe per ora ce n'è una sola, e non sta in Italia.
Riccardo Torrescura
Il giullare contro le élite Quando Dario Fo dava lezioni di populismo
«Stringimi forte i polsi/contro le mani tue/ ed anche ad occhi chiusi/ gli occhi tuoi vedrò/ prego, raccogli il mio amore/ ti prego/ per un sorriso/ se vuoi te lo cedo…». Questa è la canzone con cui il 15 ottobre del 2016, sul sagrato del duomo di Milano, si è aperta la cerimonia laica per salutare il premio nobel Dario Fo. «La aveva scritta lui per la mamma», Franca Rame, dichiarava il figlio Jacopo, commosso. Ed era vero. Vero era anche, come subito avevano ricordato molti giornali, che la canzone, nella versione cantata da Mina, fu la colonna sonora della contestata Canzonissima del 1962, condotta proprio dalla coppia Fo-Rame, che inaugurò ufficialmente la fama maledetta da contestatori del duo milanese. Tuttavia, Fo aveva scritto la canzone anni prima. Nel 1959, essa compare nella commedia in tre atti Gli arcangeli non giocano a flipper, musicata dal leggendario Fiorenzo Carpi.
Se Canzonissima segna pubblicamente (l'inizio de) il passaggio dal Fo del teatro «leggero» al Fo giullare contro il potere, Gli arcangeli non giocano a flipper è considerata, tra i lavori del premio Nobel, un testo di transizione. Sebbene non contenga una satira politica militante come i lavori dei tardi anni Sessanta e Settanta, elementi del Fo più tardo sono in essa contenuti in nuce. A fare da trait d'union satirico nella commedia, infatti, è un altro capolavoro musicale di Fo e Carpi: Fratelli d'ufficio, l'inno dei burocrati italiani.
«Alziam gli sportelli, laudiamo al Signore/ Che per nostro amore qui tutto creò: / I timbri rotondi, la carta bollata/ La marca da dieci, la carta intestata/ l'usciere alla porta, i portapennini / La penna, i cestini per il capo-sezion!». Così cantano i burocrati. Nella commedia, l'amore popolare si oppone alla proverbiale burocrazia italica.
Negli anni successivi, fanno capolino nella produzione di Fo altri temi che la sinistra odierna liquiderebbe come becera e banalizzante antipolitica. In Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), commedia che dà un ritratto antieroico e truffaldino di Cristoforo Colombo e della sua impresa, è, nuovamente, un canzone, quella che chiude il primo tempo, cantata a squarciagola sullo sfondo della splendida scenografia disegnata da Fo che si può apprezzare nella registrazione Rai del 1977, a restituirci il succo morale (moralista?) dello spettacolo: «Cristoforo Colombo con due facce di bronzo/ cacciando qualche balla ottenne le tre caravelle/ […] così fece propria codesta morale/ se tu vuoi dall'uomo fiducia acquistare/ tu non farti scrupoli lo devi truffare/ perché nella truffa vivendo da un pezzo/ ei più non distingue profumo da puzza».
Il Colombo di Fo è un fanfarone che convince la regina Isabella (Franca Rame) a dargli le navi a suon di balle. L'America è dietro l'angolo e Colombo è il classico italiano smargiasso. Ma sì, che importa mentire (o non fare gli scontrini), tanto in Italia è tutto marcio.
Una visione che Fo conferma pochi anni dopo, in Settimo ruba un po' meno. Fo è sempre Fo. Di nuovo battone, di nuovo stralunati e qualche matto vero, loschi commercialisti e suore. Il ritratto dell'Italia del 1964 è impietoso: la commedia si conclude con un altro inno, non dei burocrati ma degli Italioti: «Se ci dicon: quello ruba, quello truffa, quello frega, / noi alziamo la spalluccia e da idioti sorridiam. / Perché siamo gli italioti, razza antica indo-fenicia, / siam felici, siam contenti del cervello che teniamo. / Anche voi dovreste farlo: trapanatevi il cervello / e mettetevi anche un'elica, per andar sempre col vento».
Tutta brava gente, altra canzonetta della commedia, accompagna il disvelarsi del politico intrigo con parole inequivocabili: «Truffe sui medicinali, sulle mutue e gli ospedali, / sopra i dazi e le dogane, gli aeroplani e le banane./ Oh, che pacchia, che cuccagna: / bella è la vita per chi la sa far! / Ma tu, miracolato del ceto medio basso, / tu devi risparmiare, accetta sto salasso: / non devi mangiar carne, / devi salvar la lira / e, mentre gli altri fregano, tu fai l'austerità!». Il miracolato del ceto medio basso (che detto nell'Italia del boom fa forse sorridere oggi) fa l'austerità mentre chi sta al potere, truffa proprio su tutto. L'unica differenza è che oggi, al posto della lira dobbiamo salvare l'euro.
«Italioti lobotomizzati sveglia! Di austerity si muore, mentre loro gozzovigliano», sembra dire Fo. Ma non è proprio per via di argomenti del genere che quelli «giusti» e illuminati prendono in giro i populisti ai nostri giorni?
Dario Fo ha vinto il Nobel restituendo, con la sua arte, dignità agli oppressi, così diceva l'accademia di Svezia premiando l'attore lombardo. «Arte popolare» è una locuzione che ritorna in modo quasi ridondante nel lavoro di Dario Fo e Franca Rame. L'idea di Fo era quella di riscoprire la vecchia e dimenticata arte popolare, quella dei giullari che l'attore tornerà a far vivere in Mistero Buffo. Popolare nei luoghi che abitava (Fo uscì dal circuito teatrale tradizionale e portò il teatro nelle fabbriche e in luoghi non convenzionali) e nei temi, oltre che nel linguaggio.
Dall'opera di Fo prepotentemente emerge quel populismo letterario che già Alberto Asor Rosa, da sinistra, stroncò, nel celebre Scrittori e popolo del 1965, da poco ristampato proprio in chiava anti populista. Il critico disprezzava l'arte che proponeva una visione di popolo mitizzato, la stessa della sinistra ufficiale del Pci. I comunisti italiani scrivevano «proletariato», ma intendevano il «popolo che ha sempre ragione». Si riferivano al mite e sentimentale popolo italico dei romanzi di Ignazio Silone (membro attivo della sinistra ufficiale del Psi) e dei quadri di Renato Guttuso (de facto pittore ufficiale del Pci). Questo popolo, a ben vedere, non è poi troppo diverso dal popolo dipinto dal fascista Mario Sironi. Quando uscì Scrittori e popolo, L'Unità non risparmiò Asor Rosa, definendolo un «piccolo borghese sul piedistallo». Tre anni dopo l'uscita del libro, nel 1968, molti di quei «piccoli borghesi» avrebbero scavalcato, dai loro piedistalli, il Pci, dettando le regole della nuova gauche internazionale, a cui lo stesso Fo giurò fedeltà per più di un decennio.
La svolta populista di Dario Fo e Franca Rame (lei senatrice Idv, lui grillino di ferro) degli ultimi anni non è stata quindi frutto di rimbambimento senile, ma è semplicemente parte di un fil-rouge pluridecennale. Fo, forse suo malgrado, cantando di un medioevo e di una contemporaneità da lui fin troppo proletarizzati, ha anticipato la polarizzazione sociale di oggi. Giullari contro nobili, Fra Dolcino contro Bonifacio VIII, il poer nano Caino contro Abele il prediletto. L'italiota contro la burocrazia e l'austerità. L'italiota innamorato di una battona vecchio stampo, come quelle dei carrugi genovesi, che in fondo, dietro le labbra rosso fuoco, ha un cuore d'oro.
Popolo contro élite, per farla breve. Una contrapposizione che la sinistra italiana di oggi giudica semplicistica e figlia dell'ignoranza.
Alberto Pesaro
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Allen Frances ha curato la stesura del manuale diagnostico dei disturbi mentali. Nel nuovo libro spiega che l'ascesa dei movimenti identitari è dovuta a follia.E a sinistra c'è chi vuole seguire il suo esempio. L'intellettuale Chantal Mouffe, in un pamphlet, propone di creare un «populismo alternativo» per far rinascere i partiti democratici europei.Il giullare contro le élite. Quando Dario Fo dava lezioni di populismo. Nelle commedie e nelle canzoni del premio Nobel si trovano temi e toni molto simili a quelli che i progressisti di oggi condannano.Lo speciale comprende tre articoli. Fu lo psichiatra Massimo Fagioli a dichiarare perentoriamente: «Una persona sana di mente non può non essere di sinistra». E sebbene l'uomo fosse estremamente discutibile e discusso, fin troppi dalle nostre parti hanno fatto propria quella sua frase. Sono anni, ormai, che dal fronte progressista sentiamo ripetere ogni genere di bestialità. Di fronte all'avanzare dei partiti «di destra», «identitari» o «populisti», la sinistra ha ideato le spiegazioni più allucinanti. Chi rifiuta di votare i partiti «democratici» è stato dipinto come ignorante, stupido, poco scolarizzato, ostaggio di pregiudizi e paure. Sulla paura, ultimamente, i progressisti insistono con particolare vigore. Non potendo dire apertamente che chi non li sostiene è un demente, dipingono il quadretto di un popolo in preda a timori irrazionali, privo di lucidità e guidato dai soli istinti. Un esempio perfetto di questo atteggiamento è il libro Nel labirinto delle paure, firmato dal sociologo Aldo Bonomi e dall'assessore milanese del Partito democratico Pierfrancesco Majorino. Il volumetto spiega che nel nostro Paese «si fa strada la paura», un sentimento che i «populismi e nazionalismi» sfruttano onde «alimentarla di rancore e rovesciarla su chi sta ancora più in basso». A intemerate di questo tipo, dicevamo, ormai siamo abituati. Non stupisce e di certo non indigna vedere l'esponente del Pd o il titolato editorialista esprimere disprezzo verso la massa idiota che vota la Lega o i 5 stelle. Il problema sorge quando lo stesso disprezzo promana dalle pagine di uno dei più stimati e riveriti psichiatri del mondo. Stiamo parlando dell'americano Allen Frances, professore emerito di psichiatria alla Duke University e autore di una serie di saggi tradotti e apprezzati a livello globale. L'editore Bollati Boringhieri (lo stesso di Bonomi e Majorino) ha appena pubblicato in Italia il nuovo bestseller di Frances intitolato Il crepuscolo di una nazione, che negli Stati Uniti ha suscitato ampio e scoppiettante dibattito. Il senso del libro è perfettamente riassunto dalla frase che lo apre: «Non è Trump a essere pazzo. Siamo noi». Questa affermazione non scaturisce dal nulla. È la risposta del professore di Duke alle tesi di illustri intellettuali democratici che, negli ultimi tempi, hanno speculato sulla sanità mentale del presidente americano, utilizzando più o meno gli stessi argomenti sfoderati dai progressisti di casa nostra (i quali sono soliti clonare tutto ciò che arriva da New York e dintorni). Secondo Frances, Donald Trump è un narcisista, tuttavia non è un malato mentale. In compenso, a mostrare segni evidenti di squilibrio sono tutti quelli che lo hanno votato. «Trump è sintomo di un mondo in difficoltà, non ne è l'unica causa», scrive lo psichiatria. «Rimproverarlo per i nostri problemi significa non vedere la ben più profonda malattia sociale che sta dietro e ha reso possibile la sua improbabile ascesa. Dire che Trump è un pazzo ci permette di non vedere la follia della nostra società - se vogliamo tornare a essere sani di mente, dobbiamo innanzitutto capire noi stessi. Detta in due parole: Trump non è pazzo, ma la nostra società sì». Alcune pagine dopo, lo studioso rincara la dose: «Se il 46% della popolazione votante condivide una credenza bizzarra e ti elette presidente, si tratta di delirio collettivo, non personale». Frances, a un certo punto del saggio, è costretto ad ammettere che i problemi da cui gli elettori di The Donald sono afflitti sono, effettivamente, concreti e pressanti. Tuttavia, non molla la presa e continua per oltre 300 pagine a spiegare perché chi sostiene i populisti vada considerato malato di mente. La sua analisi, inoltre, non si ferma agli Stati Uniti, ma prende in esame anche fenomeni europei (da Marine Le Pen alla Brexit passando per la situazione italiana). «La nostra follia sociale», afferma, «è una pandemia diffusa e può essere curata solo con la collaborazione di tutto il mondo. Il tribalismo e il nazionalismo sono segnali della prolungata adolescenza della nostra specie: diventiamo adulti in fretta o potremmo non diventare adulti mai più». Non per nulla, l'editore Bollati Boringhieri presenta il libro al pubblico italiano scrivendo che «Allen Frances scrive un'analisi impietosa del sistema democratica, che risulta valida, in questi tempi incerti, per ogni Stato che sia tentato dal fenomeno populista». Giunti a questo punto, qualche lettore potrebbe obiettare: «Che c'è di strano? Si tratta dell'ennesimo professore americano che odia Trump e se la prende con i populisti, esattamente come fanno tanti intelligentoni di casa nostra». Ed eccoci il punto. Allen Frances non è uno psichiatra qualunque. Egli ha fatto parte del comitato che ha redatto il Dsm-III (curandone la sezione sui disturbi di personalità) e ha guidato la squadra di studiosi che ha elaborato il Dsm-IV. Il Dsm (Diagnostic and statistical manual of mental disorders) è il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali redatto dalla American Psychiatric Association. È il testo a cui fanno riferimento tutti i medici, psichiatri e psicanalisti del mondo per curare i pazienti. Attualmente è giunto alla quinta edizione, ma tante delle parti scritte da Frances e dai suoi collaboratori sono ancora valide. Insomma, il signore secondo cui l'ascesa dei populismi è frutto di follia è l'autore di un manuale che, a partire dal 2000 e per quasi 15 anni ha stabilito i confini della malattia mentale. Tutto ciò deve far riflettere. Di questi tempi, la scienza viene presentata come una sorta di antidoto al populismo. Alcuni partiti ne fanno una bandiera, come a dire: di fronte all'irrazionalità delle destre, noi ci basiamo sulla verità suprema. Si pensa che la scienza sia impersonale, neutra, fatta di numeri e cifre. In realtà, è fatta di uomini e da uomini. Persone che esprimono opinioni politiche, e sono portatrici di ideologia. Studiosi come Allen Frances, uno che ha segnato la storia della psichiatria e poi scrive libri feroci e faziosi che lo fanno sembrare un Majorino qualsiasi.Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-guru-degli-psichiatri-usa-i-pazzi-votano-per-le-destre-2619405795.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="e-a-sinistra-ce-chi-vuole-seguire-il-suo-esempio" data-post-id="2619405795" data-published-at="1765818025" data-use-pagination="False"> E a sinistra c’è chi vuole seguire il suo esempio C'è chi considera malati di mente gli elettori dei partiti populisti. Ma c'è pure chi, da sinistra, pensa di imitarli. Per esempio Chantal Mouffe, docente di Teoria politica all'Università di Westminster, a Londra, considerata una delle più brillanti studiose del mondo, specialmente nei circoli progressisti. L'editore Laterza ha appena dato alle stampe il suo agile libretto intitolato Per un populismo di sinistra, che a molti soloni nostrani farà probabilmente friggere il fegato. La Mouffe, in sostanza, sbriciola gran parte della retorica oggi molto in voga in Europa (e in Italia in particolare). Dalle nostre parti, è noto, va di moda gridare al fascismo. Impazzano «fascistometri» e altre insulsaggini della medesima risma. Ma la studiosa di origine francese spiega: «Classificare i partiti populisti di destra come “di estrema destra" o “neofascisti", e attribuire il loro appeal alla mancanza di cultura di chi li sostiene è una soluzione fin troppo comoda per le forze di centrosinistra. È un facile espediente per sminuire il fenomeno senza riconoscere le responsabilità dello stesso centrosinistra per questa emergenza. Con lo stabilire una frontiera “morale", così da escludere gli “estremisti" dal dibattito democratico, i “bravi democratici" credono di poter interrompere l'ascesa e l'affermarsi di passioni “irrazionali". Tale strategia di demonizzazione dei “nemici" del consenso bipartisan può apparire di conforto sul piano morale, ma è politicamente castrante». Già, eppure la sinistra italiana è ferma lì, alla demonizzazione del nemico, all'infinita divisione fra buoni e cattivi. Secondo la Mouffe, invece, è «necessario elaborare una risposta schiettamente politica» al populismo di destra. «Anziché escludere a priori gli elettori dei partiti populisti di destra, perché necessariamente animati da passioni primitive, condannandoli quindi a restare per sempre prigionieri di quei sentimenti, è necessario riconoscere il nucleo democratico all'origine di molte delle loro domande». A parere della Mouffe, il populismo non è una bestia feroce da domare, anzi. In un'epoca caratterizzata dall'eclissi della politica, che è diventata mera «gestione dell'ordine costituito», totalmente schiacciata sul pensiero unico neoliberale, il populismo è un ritorno del politico. L'ascesa di populismi (di ogni colore) è l'indicatore di «un risveglio politico dopo anni di relativa apatia». Quello che la studiosa vorrebbe creare è, sostanzialmente, un populismo di sinistra che conduca a «una riaffermazione ed estensione dei valori democratici». Interessante, sulla carta. Viene da chiedersi come sia possibile realizzarlo, però. Il rischio (per la sinistra) è che il «suo» populismo si riveli una triste imitazione dei movimenti di destra, una brutta copia che arriva in ritardo, e con armi spuntate. In ogni caso, poco c'importa. Quel che conta è notare come, specie in altri Paesi, ci sia a sinistra qualcuno capace di uscire dalle solite banalità. Qualcuno in grado di evitare la demonizzazione dell'avversario, qualcuno che non gridi al fascismo o non accusi gli avversari politici di essere malati di mente. Forse, se dalle nostre parti ci fossero intellettuali come Chantal Mouffe, il livello del discorso sarebbe decisamente più elevato, l'astio politico non sarebbe così diffuso e tutto il Paese ne guadagnerebbe. Ma, purtroppo, di Mouffe per ora ce n'è una sola, e non sta in Italia. Riccardo Torrescura <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-guru-degli-psichiatri-usa-i-pazzi-votano-per-le-destre-2619405795.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-giullare-contro-le-elite-quando-dario-fo-dava-lezioni-di-populismo" data-post-id="2619405795" data-published-at="1765818025" data-use-pagination="False"> Il giullare contro le élite Quando Dario Fo dava lezioni di populismo «Stringimi forte i polsi/contro le mani tue/ ed anche ad occhi chiusi/ gli occhi tuoi vedrò/ prego, raccogli il mio amore/ ti prego/ per un sorriso/ se vuoi te lo cedo…». Questa è la canzone con cui il 15 ottobre del 2016, sul sagrato del duomo di Milano, si è aperta la cerimonia laica per salutare il premio nobel Dario Fo. «La aveva scritta lui per la mamma», Franca Rame, dichiarava il figlio Jacopo, commosso. Ed era vero. Vero era anche, come subito avevano ricordato molti giornali, che la canzone, nella versione cantata da Mina, fu la colonna sonora della contestata Canzonissima del 1962, condotta proprio dalla coppia Fo-Rame, che inaugurò ufficialmente la fama maledetta da contestatori del duo milanese. Tuttavia, Fo aveva scritto la canzone anni prima. Nel 1959, essa compare nella commedia in tre atti Gli arcangeli non giocano a flipper, musicata dal leggendario Fiorenzo Carpi. Se Canzonissima segna pubblicamente (l'inizio de) il passaggio dal Fo del teatro «leggero» al Fo giullare contro il potere, Gli arcangeli non giocano a flipper è considerata, tra i lavori del premio Nobel, un testo di transizione. Sebbene non contenga una satira politica militante come i lavori dei tardi anni Sessanta e Settanta, elementi del Fo più tardo sono in essa contenuti in nuce. A fare da trait d'union satirico nella commedia, infatti, è un altro capolavoro musicale di Fo e Carpi: Fratelli d'ufficio, l'inno dei burocrati italiani. «Alziam gli sportelli, laudiamo al Signore/ Che per nostro amore qui tutto creò: / I timbri rotondi, la carta bollata/ La marca da dieci, la carta intestata/ l'usciere alla porta, i portapennini / La penna, i cestini per il capo-sezion!». Così cantano i burocrati. Nella commedia, l'amore popolare si oppone alla proverbiale burocrazia italica. Negli anni successivi, fanno capolino nella produzione di Fo altri temi che la sinistra odierna liquiderebbe come becera e banalizzante antipolitica. In Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), commedia che dà un ritratto antieroico e truffaldino di Cristoforo Colombo e della sua impresa, è, nuovamente, un canzone, quella che chiude il primo tempo, cantata a squarciagola sullo sfondo della splendida scenografia disegnata da Fo che si può apprezzare nella registrazione Rai del 1977, a restituirci il succo morale (moralista?) dello spettacolo: «Cristoforo Colombo con due facce di bronzo/ cacciando qualche balla ottenne le tre caravelle/ […] così fece propria codesta morale/ se tu vuoi dall'uomo fiducia acquistare/ tu non farti scrupoli lo devi truffare/ perché nella truffa vivendo da un pezzo/ ei più non distingue profumo da puzza». Il Colombo di Fo è un fanfarone che convince la regina Isabella (Franca Rame) a dargli le navi a suon di balle. L'America è dietro l'angolo e Colombo è il classico italiano smargiasso. Ma sì, che importa mentire (o non fare gli scontrini), tanto in Italia è tutto marcio. Una visione che Fo conferma pochi anni dopo, in Settimo ruba un po' meno. Fo è sempre Fo. Di nuovo battone, di nuovo stralunati e qualche matto vero, loschi commercialisti e suore. Il ritratto dell'Italia del 1964 è impietoso: la commedia si conclude con un altro inno, non dei burocrati ma degli Italioti: «Se ci dicon: quello ruba, quello truffa, quello frega, / noi alziamo la spalluccia e da idioti sorridiam. / Perché siamo gli italioti, razza antica indo-fenicia, / siam felici, siam contenti del cervello che teniamo. / Anche voi dovreste farlo: trapanatevi il cervello / e mettetevi anche un'elica, per andar sempre col vento». Tutta brava gente, altra canzonetta della commedia, accompagna il disvelarsi del politico intrigo con parole inequivocabili: «Truffe sui medicinali, sulle mutue e gli ospedali, / sopra i dazi e le dogane, gli aeroplani e le banane./ Oh, che pacchia, che cuccagna: / bella è la vita per chi la sa far! / Ma tu, miracolato del ceto medio basso, / tu devi risparmiare, accetta sto salasso: / non devi mangiar carne, / devi salvar la lira / e, mentre gli altri fregano, tu fai l'austerità!». Il miracolato del ceto medio basso (che detto nell'Italia del boom fa forse sorridere oggi) fa l'austerità mentre chi sta al potere, truffa proprio su tutto. L'unica differenza è che oggi, al posto della lira dobbiamo salvare l'euro. «Italioti lobotomizzati sveglia! Di austerity si muore, mentre loro gozzovigliano», sembra dire Fo. Ma non è proprio per via di argomenti del genere che quelli «giusti» e illuminati prendono in giro i populisti ai nostri giorni? Dario Fo ha vinto il Nobel restituendo, con la sua arte, dignità agli oppressi, così diceva l'accademia di Svezia premiando l'attore lombardo. «Arte popolare» è una locuzione che ritorna in modo quasi ridondante nel lavoro di Dario Fo e Franca Rame. L'idea di Fo era quella di riscoprire la vecchia e dimenticata arte popolare, quella dei giullari che l'attore tornerà a far vivere in Mistero Buffo. Popolare nei luoghi che abitava (Fo uscì dal circuito teatrale tradizionale e portò il teatro nelle fabbriche e in luoghi non convenzionali) e nei temi, oltre che nel linguaggio. Dall'opera di Fo prepotentemente emerge quel populismo letterario che già Alberto Asor Rosa, da sinistra, stroncò, nel celebre Scrittori e popolo del 1965, da poco ristampato proprio in chiava anti populista. Il critico disprezzava l'arte che proponeva una visione di popolo mitizzato, la stessa della sinistra ufficiale del Pci. I comunisti italiani scrivevano «proletariato», ma intendevano il «popolo che ha sempre ragione». Si riferivano al mite e sentimentale popolo italico dei romanzi di Ignazio Silone (membro attivo della sinistra ufficiale del Psi) e dei quadri di Renato Guttuso (de facto pittore ufficiale del Pci). Questo popolo, a ben vedere, non è poi troppo diverso dal popolo dipinto dal fascista Mario Sironi. Quando uscì Scrittori e popolo, L'Unità non risparmiò Asor Rosa, definendolo un «piccolo borghese sul piedistallo». Tre anni dopo l'uscita del libro, nel 1968, molti di quei «piccoli borghesi» avrebbero scavalcato, dai loro piedistalli, il Pci, dettando le regole della nuova gauche internazionale, a cui lo stesso Fo giurò fedeltà per più di un decennio. La svolta populista di Dario Fo e Franca Rame (lei senatrice Idv, lui grillino di ferro) degli ultimi anni non è stata quindi frutto di rimbambimento senile, ma è semplicemente parte di un fil-rouge pluridecennale. Fo, forse suo malgrado, cantando di un medioevo e di una contemporaneità da lui fin troppo proletarizzati, ha anticipato la polarizzazione sociale di oggi. Giullari contro nobili, Fra Dolcino contro Bonifacio VIII, il poer nano Caino contro Abele il prediletto. L'italiota contro la burocrazia e l'austerità. L'italiota innamorato di una battona vecchio stampo, come quelle dei carrugi genovesi, che in fondo, dietro le labbra rosso fuoco, ha un cuore d'oro. Popolo contro élite, per farla breve. Una contrapposizione che la sinistra italiana di oggi giudica semplicistica e figlia dell'ignoranza. Alberto Pesaro
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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Getty Images
Nel 2025 la pirateria torna a imporsi come una minaccia fluida, che si adatta ad ogni situazione, capace di sfruttare ogni varco lasciato aperto nel fragile equilibrio della sicurezza marittima globale. Due aree, più di altre, raccontano questa nuova stagione di attacchi: il Golfo di Guinea e l’Oceano Indiano. Non si tratta più di fenomeni isolati come mostrano i report di Praesidium, società che si occupa di intelligence marittima, né di improvvise fiammate criminali. È un ecosistema in movimento, che segue logiche precise, approfitta delle lacune statali, cavalca il maltempo o il suo contrario, e ridisegna continuamente la mappa del rischio.
Nel Golfo di Guinea, l’andamento dell’anno ha mostrato un susseguirsi di incursioni che sembrano quasi seguire una traiettoria invisibile. All’inizio la pressione è stata particolarmente intensa nel settore orientale, tra Gabon, Guinea Equatoriale e São Tomé e Príncipe. L’attacco del 31 gennaio al peschereccio Amerger VII ha inaugurato la stagione. Tre membri dell’equipaggio sono finiti nelle mani dei pirati a poche miglia da Owendo, un episodio che ha posto subito il tema dell’audacia dei gruppi criminali e della loro capacità di muoversi vicino alle acque territoriali. Interessante notare che la stessa imbarcazione era già stata attaccata nella stessa area nel 2020.
Pochi giorni dopo, l’abbordaggio della Jsp Vento, nella Zona economica esclusiva (Zee) della Repubblica della Guinea Equatoriale, ha mostrato un altro tratto distintivo della pirateria del 2025: attacchi rapidi e condotti contro navi senza scorta, dove gli equipaggi sono spesso lasciati a loro stessi visti i lunghi tempi di reazione delle autorità locali. In questo caso i pirati hanno abbandonato la nave dopo essere stati avvistati dall’equipaggio. A marzo l’escalation si è fatta più chiara. L’incursione alla petroliera Bitu River, al largo di São Tomé, è durata ore e ha incluso la violazione della cittadella, con i pirati che sono riusciti a prendere in ostaggio diversi membri dell’equipaggio e a fuggire. Il trasferimento degli ostaggi in Nigeria e il loro rilascio settimane dopo suggeriscono canali consolidati, territori di appoggio e una filiera criminale ben riconoscibile.
La traiettoria della minaccia è poi scivolata verso ovest, raggiungendo il Ghana, dove a fine marzo il peschereccio Meng Xin 1 è stato assaltato e tre marittimi sono stati rapiti e trasportati nel Delta del Niger, cuore storico delle milizie locali. In quest’area, simili episodi ai danni di pescherecci sono stati in passato ricondotti a dispute locali o ad azioni di ritorsione. Tuttavia, il fatto che gli assalitori comunicassero in pidgin english nigeriano richiama il modus operandi tipico dei sequestri a scopo di riscatto riconducibili alla pirateria nigeriana, lasciando aperta l’ipotesi di un’evoluzione dell’evento in tale contesto.
Il vero punto di svolta è arrivato il 21 aprile, quando la Sea Panther è stata abbordata a oltre 130 miglia da Brass. L’episodio ha segnato il ritorno ufficiale della pirateria all’interno della Zee nigeriana, un territorio che non registrava attacchi confermati dal 2021. Per gli analisti si è trattato della prova definitiva che la pressione militare degli anni precedenti si è attenuata, lasciando di nuovo spazio a cellule in grado di spingersi in acque profonde. Poche settimane dopo, a fine maggio, l’assalto alla Orange Frost nella zona di sviluppo congiunto tra Nigeria e São Tomé ha completato il quadro, mostrando come i gruppi criminali siano capaci di colpire anche aree formalmente pattugliate da due Stati.
L’estate ha portato una calma apparente, dissoltasi con l’arrivo di nuovi episodi a partire da agosto, quando il tentativo di sequestro della Endo Ponente è stato sventato dalla pronta ritirata nella cittadella da parte dell’equipaggio, che è rimasto all’interno fino all’intervento delle forze navali avvenuto comunque ore dopo l’attacco. Un altro tentato attacco è stato registrato nella regione occidentale del Golfo in ottobre contro la Alfred Temile 10 al largo del Benin. A novembre la minaccia è tornata a concentrarsi a est, dove la Ual Africa è stata presa di mira al confine tra la Zee di São Tomé e Principe e quella della Guinea Equatoriale: l’equipaggio ha resistito chiudendosi in un’area blindata all’interno della nave - un locale protetto, sigillato e dotato di comunicazioni indipendenti - progettata per consentire all’equipaggio di mettersi al sicuro durante un attacco. Non riuscendo a fare breccia nelle difese, i pirati hanno devastato ponte e alloggi prima di ritirarsi.
Se il Golfo di Guinea racconta una pirateria che cambia posizione ma non perde incisività, l’Oceano Indiano nel 2025 ha dato vita a uno scenario ancora più inquietante. La regione somala è tornata teatro di sequestri e attacchi con una frequenza che ricorda i periodi più bui della pirateria del decennio precedente. La stagione è iniziata a febbraio con una serie di dirottamenti per mezzo di dhow yemeniti, piccole imbarcazioni utilizzate dai pirati come piattaforme mobili per proiettarsi molto a largo. Il sequestro dell’Al Najma N.481 ha rivelato un modus operandi ormai consueto: catturare un peschereccio, impossessarsi delle piccole imbarcazioni, rifornirsi a bordo e ripartire verso obiettivi più remunerativi. Anche gli altri casi registrati tra il 15 febbraio e il 16 marzo mostrano lo stesso schema, con dhow impiegati come basi avanzate e poi abbandonati dopo l’intervento delle forze navali internazionali o a seguito del pagamento di riscatti.
Il periodo dei monsoni, tra maggio e settembre, ha rallentato l’attività, ma non l’ha soppressa. Appena il mare è tornato praticabile, gli avvistamenti sospetti sono ripresi con un’intensità che ha sorpreso perfino le missioni navali. Tra ottobre e novembre si è assistito a un ritorno deciso dei gruppi somali in acque profonde, con tentativi di abbordaggio a centinaia di miglia dalla costa, un dettaglio che ricorda i livelli operativi raggiunti nel 2011-2012. Il primo attacco avvenuto nel 2025 contro una nave commerciale è stato registrato il 3 novembre alla petroliera Stolt Sagaland, a oltre 332 miglia nautiche da Mogadiscio: quattro uomini armati hanno aperto il fuoco prima di ritirarsi, segno di una rinnovata audacia. Pochi giorni dopo, la Hellas Aphrodite è stata addirittura abbordata a più di 700 miglia nautiche dalla Somalia, un dato che conferma l’utilizzo di «navi madre» capaci di sostenere missioni lunghe e complesse. Proprio in questo contesto si inserisce il misterioso dhow iraniano Issamamohamadi, sequestrato a fine ottobre e ritrovato abbandonato l’11 novembre: secondo gli investigatori è molto probabile che sia stato utilizzato come base per gli attacchi alla Stolt Sagaland e alla Hellas Aphrodite.
Il mese di novembre ha proposto un crescendo di avvicinamenti sospetti, scafi non identificati che si accostano a mercantili per poi allontanarsi all’improvviso, petroliere che segnalano la presenza di droni in aree dove solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Le due regioni – Golfo di Guinea e Oceano Indiano – raccontano, seppure con dinamiche diverse, una stessa verità: la pirateria non è affatto un fenomeno residuale. È una minaccia che continua a mutare, sfrutta gli spazi lasciati liberi dalla sicurezza internazionale e approfitta delle fragilità degli Stati costieri. Nel 2025, il mare torna a parlare il linguaggio inquieto delle rotte clandestine, dei sequestri silenziosi e dei gruppi armati che conoscono perfettamente le pieghe della geografia nautica e delle debolezze politiche di intere regioni. Una minaccia che non chiede di essere osservata: semplicemente, ritorna.
«La lotta agli Huthi ha sottratto risorse. Contro i sequestri i mezzi sono limitati»
Stefano Ràkos, è manager del dipartimento di intelligence e responsabile del progetto M.a.r.e. di Praesidium.
In che modo la pirateria nel Golfo di Guinea nel 2025 dimostra una crescente capacità organizzativa rispetto agli anni precedenti?
«La crescente capacità organizzativa emerge soprattutto dall’elevata adattabilità dei pirati al contesto di sicurezza. I gruppi dimostrano di monitorare costantemente l’evoluzione delle misure di protezione, inclusa l’estensione progressiva delle aree coperte da scorte armate o navi militari, e di raccogliere informazioni attraverso canali aperti e circuiti informali. Le aree di attacco vengono quindi selezionate in modo sempre più mirato, privilegiando i settori dove le scorte armate non sono consentite per motivi legali o di scarsa presenza di asset militari. Gli assalti risultano basati su informazioni preventive sui movimenti delle navi e non più su opportunità casuali, indicando un livello di pianificazione e coordinamento superiore rispetto al passato».
Quali fattori hanno consentito ai gruppi criminali dell’Oceano Indiano di tornare a operare a distanze così elevate dalla costa somala, arrivando a colpire navi a oltre 700 miglia?
«A partire dalla fine del 2023, il ritorno delle attività pirata a distanze superiori alle 700 miglia dalla costa somala è stato favorito dallo spostamento dell’attenzione navale internazionale verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden a seguito della crisi legata agli Huthi, con una conseguente riduzione della pressione di controllo nell’Oceano Indiano. La fine del monsone ha ripristinato condizioni meteomarine favorevoli alle operazioni offshore. Sul piano operativo, si è registrata una persistente limitata capacità di interdizione effettiva da parte degli assetti navali internazionali. Nel caso del dirottamento della Ruen nel dicembre 2023, così come in un più recente episodio con dinamiche analoghe, le forze presenti si sono limitate ad attività di monitoraggio a distanza, senza procedere a un’azione diretta di interruzione prima del rientro delle unità verso le coste somale. Questo approccio ha di fatto confermato ai gruppi criminali l’esistenza di ampi margini di manovra operativa, rafforzando la percezione di un basso livello di rischio nelle fasi successive al sequestro».
Che ruolo ha giocato la cooperazione regionale degli Stati dell’Africa occidentale nella gestione dei sequestri e nella risposta agli attacchi, e quali limiti emergono da questi interventi?
«Nella pratica, la cooperazione regionale tra gli Stati dell’Africa occidentale ha inciso in modo molto limitato sulla gestione dei sequestri e sulla risposta agli attacchi. I principali quadri di riferimento, tra cui Ecowas e l’Architettura di Yaoundé con i relativi centri di coordinamento regionali, hanno prodotto soprattutto meccanismi formali di cooperazione e scambio informativo. Tuttavia, tali strutture non si sono tradotte in una capacità operativa realmente integrata. Le risposte restano nazionali, frammentate e spesso tardive, con forti disomogeneità tra le marine locali».
In che misura l’utilizzo di dhow come «navi madre» rappresenta un salto qualitativo nelle operazioni dei pirati somali, e quali rischi introduce per le rotte commerciali globali?
«L’impiego dei dhow come navi madre non rappresenta una tattica nuova, ma una strategia già utilizzata dai pirati somali in passato e oggi tornata pienamente operativa. Questo schema consente di superare i limiti degli skiff, che per autonomia di carburante e condizioni del mare non possono spingersi troppo lontano dalla costa. L’uso di un’imbarcazione più grande permette invece di operare a grande distanza, trasportando uomini, carburante e mezzi d’assalto in aree di mare molto più estese. Una volta avvicinato il bersaglio, vengono poi impiegati gli skiff, più rapidi e adatti alla fase di abbordaggio. Ne deriva un ampliamento diretto dell’area di rischio e una maggiore esposizione delle rotte commerciali globali, anche in settori che in passato erano considerati marginali rispetto alla minaccia pirata. Negli anni d’oro della pirateria somala il loro raggio operativo raggiungeva addirittura le Maldive».
Quali segnali osservabili indicano che nel 2025 la pirateria non è un fenomeno residuale ma un ecosistema in evoluzione che sfrutta lacune statali e vuoti di sicurezza internazionale?
«Nel contesto dell’Oceano Indiano, l’assenza di un controllo statale effettivo su ampie porzioni del territorio somalo continua a costituire un fattore strutturale di instabilità, che facilita la riorganizzazione delle reti criminali. Le missioni navali internazionali, tra cui le componenti europee e le task force multinazionali, non esercitano più il livello di deterrenza raggiunto negli anni precedenti. La Marina indiana mantiene una presenza attiva nella regione, ma gli interventi risultano spesso legati alla presenza di cittadini indiani a bordo delle unità coinvolte. Nel Golfo di Guinea, il quadro appare ancora più critico. I gruppi criminali nigeriani operano con crescente frequenza al di fuori della zona economica esclusiva della Nigeria, spesso in aree dove l’impiego di scorte armate non è consentito. I tempi di risposta delle marine locali risultano generalmente elevati e frammentati, in assenza di un dispositivo internazionale strutturato analogo a quello attivo in Oceano Indiano».
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