L’antifascismo, si sa, per il Pd è un valore non negoziabile. Lo dimostra la mobilitazione dem che è riuscita a far annullare dalla questura, con argomentazioni più che traballanti, il corteo di Casapound Italia in programma per sabato a Roma (si terrà comunque un sit in sotto la sede del movimento). La parola d’ordine è sempre la stessa: nessuno spazio ai fascisti, con i fascisti non si parla, il fascismo non è un’opinione. Prassi che i progressisti più zelanti peraltro amerebbero estendere anche a Lega e Fratelli d’Italia.
Peccato che proprio i dem si dimostrino molto più flessibili, tolleranti e, diciamolo pure, ben disposti verso l’estrema destra quando fa loro comodo, con tanti saluti alla non negoziabilità dell’antifascismo. Prendiamo l’evento che si è tenuto ieri presso la sala stampa di Montecitorio dedicato all’Holodomor, ovvero lo sterminio per fame di quasi quattro milioni di ucraini tra il 1932 e il 1933 a opera di Stalin. Per riconoscere questa tragedia il Pd ha proposto una mozione parlamentare (ci hanno messo 90 anni, poteva andare peggio), presentata ieri dai primi firmatari del testo: Fausto Raciti, Andrea Romano, Flavia Nardelli Piccoli, tutti e tre del Pd, così come Lia Quartapellle, responsabile esteri del partito. Insieme a loro, lo storico Andrea Graziosi, l’ambasciatore d’Ucraina in Italia, Yaroslav Melnyk, e il presidente dell’Associazione cristiana degli ucraini in Italia, Oles Horodetskyy. Costui - fra l’altro membro del comitato nazionale del partito dei Radicali Italiani - è un volto noto delle nostre televisioni, dove viene spesso invitato per sostenere la causa di Kiev.
Ma è anche famoso nella Rete, dove circolano sue foto accanto a Dmytro Yarosh, leader del movimento di destra radicale ucraino Pravy Sektor, con tanto di bandiera del gruppo. In altri scatti, lo si vede accanto al ritratto di Stepan Bandera, controverso leader ucraino che collaborò con il Terzo Reich, prima di essere poi internato dagli stessi nazisti. Solite bufale della Rete? La Verità lo ha chiamato per saperne di più. Sorpresa: è tutto vero e apertamente rivendicato. «La foto con Yarosh? È del 2014, quando mi sono presentato alle elezioni politiche in Ucraina», dice Olef. «Conoscevo Dmytro da molto tempo, perché io ero dell’Azione cattolica e Dmytro veniva da un movimento chiamato Tryzub, una specie di scout un po’ più militarizzati. Era prima che nascesse Pravy Sektor e Putin creasse questa narrazione dei neonazisti».
Sulle idee di Pravy Sektor, Horodetskyy spiega: «Non lo considero per niente neonazista. Lo considerano così in Russia perché è anti putiniano. Sono attivisti di destra, ma non neonazisti, non ho mai visto Yarosh con una svastica. Sfido chiunque a farmi vedere una foto così. Non è neanche di estrema destra, forse è paragonabile a Fratelli d’Italia». Gli chiediamo se anche le idee del battaglione Azov siano state deformate dalla narrazione putiniana. «Dividerei», spiega Olef, «il battaglione dal movimento del Corpo nazionale. Il battaglione è dentro la guardia nazionale, che è come i carabinieri e lì non sono ammessi discorsi politici. Infatti i membri più politicizzati sono stati espulsi. Il movimento è un’altra cosa e lì non posso escludere ci siano rappresentanti con... altri punti di vista».
Quanto alla foto con il ritratto di Stepan Bandera, Horodetskyy non usa mezzi termini (anche se la sua versione della biografia di Bandera è quanto meno selettiva): «Stepan Bandera è stato incarcerato dai nazisti, i suoi fratelli sono stati uccisi ad Auschwitz. Per me Stepan Bandera è il nostro eroe nazionale, come per la maggior parte degli ucraini. Lui ha sacrificato la maggior parte della sua vita per l’idea di uno Stato indipendente ucraino». Resta da capire se i parlamentari del Pd siano al corrente dei punti di vista di Horodetskyy sulla sua storia patria e sulle sue frequentazioni. «Sì», dice, «me lo hanno chiesto diverse persone, gliel’ho spiegato e abbiamo riso insieme». Chissà perché, allora, di fronte alla destra radicale italiana quelli del Pd frignano sempre.
«Opero per lampi e intuizioni, ma non mi definisco in relazione a una “scuola di pensiero” o a una “corrente di idee”. Ho solo 100 libri a casa, i più essenziali. Tutti gli altri li ho dati via o li ho venduti». Guillaume Faye non è un intellettuale come gli altri. Pur essendo stato per molti anni uno dei principali animatori della Nouvelle droite francese, non potrebbe essere più diverso da Alain de Benoist, che come noto ha una biblioteca personale di più di 200.000 volumi, una delle maggiori di Francia, ed è un bibliomane risaputo. Tanto riflessivo, metodico, «secchione» appare l’autore di Visto da destra, quanto provocatorio, istrionico, elettrizzante Faye.
A quest’ultimo sono state recentemente consacrate due opere: Dei e potenza (Altaforte) e Lessico del rivoluzionario. Idee fondamentali (Ritter, scritto assieme a Pierre Freson e a Robert Steuckers). La lettura dei due saggi costituisce un prezioso contributo alla conoscenza di un autore che in Italia è ancora per molti versi un illustre sconosciuto e i cui lavori maggiormente originali e brillanti giacciono dimenticati in qualche pubblicazione mai tradotta degli anni Ottanta. Dei e potenza costituisce un’antologia di testi e interviste che vanno dal 1979 al 2019, anno in cui Faye è deceduto. Vi troviamo, fra l’altro, diversi accenni alla biografia dell’autore, sinora ignoti ai più. «Il mio ambiente sociale d’origine», confessa il francese, «è quello della grande borghesia parigina, che conosco perfettamente dall’interno e di cui non ho mai condiviso gli ideali conformisti e materialisti, che non ho mai invidiato, perché lo stile di vita che mi proponeva, fondamentalmente, non mi interessava». Pur da impenitente pagano, Faye ha avuto un apprendistato cattolico: «Quando ero studente dai gesuiti, a Parigi, in classe di filosofia (1967), si produsse qualcosa di incredibile. In questo alto luogo del cattolicesimo, il prof di filosofia aveva deciso di tenere il suo corso, durante tutto l’anno, solo su Nietzsche! Exeunt Cartesio, Kant, Hegel, Marx e gli altri. I bravi preti non osarono dire nulla, nonostante questo sconvolgimento del programma», racconta. Segue un percorso culturale tutt’altro che lineare, in cui diversi autori di sinistra hanno avuto un ruolo centrale: «Ho partecipato per un po’ alla corrente situazionista, per la potenza della sua critica alla società occidentale e alla sua vacuità. Paradossalmente, questo mi ha portato negli anni Settanta a interessarmi al Grece e alla Nouvelle droite a cui ho dato un importante contributo. Ma ho lasciato questa corrente nel 1986, perché sentivo che le idee che stavo sviluppando non erano più in linea con la strategia di ricentraggio ideologico dei suoi leader».
Tra i motivi che hanno portato Faye a lasciare la corrente di de Benoist e sodali c’è senz’altro una graduale presa di coscienza del carattere distruttivo dell’immigrazione di massa e della non assimilabilità dell’islam. Va tuttavia detto che, nei testi raccolti in Dei e potenza, ce ne sono alcuni che risalgono ai primi anni Ottanta e in cui Faye dimostra già chiaramente di avere presente come l’immigrazione fosse una colonizzazione di popolamento e il ritorno degli immigrati nei loro Paesi d’origine una precondizione di qualsiasi accordo euroarabo.
Un importante squarcio sull’evoluzione intellettuale di Faye, oltre che un serbatoio di infinite intuizioni politicamente scorrette, lo si trova anche nel Lessico del rivoluzionario, traduzione del Petit lexique du partisan européen, pubblicato originariamente nel 1985. Come si capisce dal titolo, si tratta di un breviario culturale costruito attorno a dei concetti ordinati in ordine alfabetico, con tanto di piccola bibliografia (aggiornata all’oggi dai curatori) in calce a ogni lemma. Alla voce «Civilizzazione occidentale», per esempio, leggiamo: «Civiltà mondiale fondata sulla deculturazione dei popoli e sull’eliminazione della nozione di comunità popolare (etnocidio), la civilizzazione occidentale è finalizzata a stabilire un modo di vivere e un’ideologia planetaria, universalizzando il modello della società mercantilistica occidentale, il suo egualitarismo, il suo riduzionismo economicista e la sua filosofia dei diritti dell’uomo». Un concetto tipicamente fayano, che ricorre anche in molti altri testi, è quello di «disinstallazione», così definito nel Lessico: «Capacità - fondata sulla curiosità, sullo spirito d’avventura e di conquista - di fuoriuscire dalle proprie condizioni di vita, senza per questo tradire se stessi e il proprio retaggio. La mentalità borghese è cosmopolita e al tempo stesso installata; la mentalità aristocratica al contrario, è radicata e disinstallata. I Bororo d’Africa sono installati e radicati. La disinstallazione è il sigillo faustiano delle culture storiche europee. Le conquiste, le scoperte scientifiche, gli assalti di tipo tecnico nei confronti della natura, le grandi avventure individuali e collettive realizzate da “scopritori e conquistatori” sono tutti effetti della “disinstallazione”. In assenza di questo atteggiamento, il radicamento si tramuta in chiusura e fine della storia». La disinstallazione sarebbe quindi ciò che distingue il radicamento e l’identità tipica delle civiltà europee da quella delle tribù «fossili», sempre uguali a se stesse nel corso dei secoli e di fatto già «uscite dalla storia». Un po’ quello che certe oligarchie vorrebbero per noi.
«Voglio ricordare che il piano antinfluenzale del 2006 non è stato aggiornato per 180 mesi, sotto sette governi di colore politico diverso, inclusi quelli composti dalla parte politica che oggi mi accusa». È con questa frecciata che ieri pomeriggio alla Camera, replicando ai suoi critici, il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha toccato lo spinoso tema del piano pandemico, aggiungendo che «ciò che non è stato fatto in tanti anni, è stato fatto in pochi mesi».
Degne di nota pure le sue parole sugli anticorpi monoclonali. «Le attuali giacenze complessive», ha detto Speranza, «sono adeguate ai fabbisogni delle Regioni». In realtà, più che «adeguate», le giacenze sono in eccesso, tanto che il 12 ottobre scorso la sola Lombardia ha regalato 5.200 dosi alla Romania.
Ma torniamo al piano pandemico, tema ieri solo sfiorato e su cui il ministro più volte ha mentito. Per giunta per iscritto e pure quando Report gli aveva servito su un piatto d'argento la possibilità, una volta per tutte, di dare tutti i chiarimenti sulla vicenda.
Sì, perché dalla trasmissione d'inchiesta, in vista della puntata dell'8 novembre, precisamente il giorno 2, era partita una mail per il ministero della Salute con la richiesta di lumi su due aspetti: il perché, all'inizio 2020, non fosse stato attivato il piano pandemico del 2006 - visto che sul punto Goffredo Zaccardi, capo di Gabinetto di Speranza fino a metà settembre, aveva interpellato il magistrato Nicola Ruggiero, che gli ha confermato le responsabilità ministeriali - e il ruolo avuto dal ministro nel ritiro e nella mancata ripubblicazione del rapporto di Zambon.
Questa seconda richiesta era stata avanzata alla luce della rintracciata «testimonianza di alcuni colloqui intercorsi tra il presidente dell'Iss Silvio Brusaferro e il signor ministro Speranza, nel corso dei quali emerge che lo stesso signor ministro, dopo aver ricevuto e visionato il rapporto, dichiara di voler rimproverare con durezza il capo della regione europea Oms Hans Kluge e poi che quest'ultimo si è scusato con lui».
Giocando a carte scoperte, Report aveva insomma fatto capire al ministero di aver raccolto documentazione grave, di sicuro sufficiente a smentire tante cose ripetute fino alla noia - e per giunta pure in Senato, lo scorso 21 aprile - da Speranza.
Il ministro della Salute aveva dunque tutta la possibilità di rivedere la propria posizione, magari decidendosi, finalmente, a raccontare la verità su quanto accaduto il 14 maggio 2020, quando An unprecedented challenge, il rapporto di Zambon, venne ritirato e successivamente fatto sparire. Invece, tanto per cambiare, è andata diversamente.
Venerdì 5 novembre, infatti, l'ufficio stampa di Speranza ha replicato a Report fornendo le solite risposte, cioè delle bugie. La prima riguarda il piano pandemico antinfluenzale del 2006, giudicato «non sufficiente». Il che, trattandosi di un documento datato, è senz'altro vero. Il punto però non è l'età di quel piano «non aggiornato per 180 mesi, sotto sette governi di colore politico diverso»; il punto è che, pur datata, quella strategia avrebbe potuto - se attivata subito - rallentare di molto i contagi della prima ondata, salvando parecchie vite. E spettava al ministro della Salute agire in tal senso. Tanto è vero che Zaccardi, sentito Ruggiero, ha ottenuto doppio sì: sia sul fatto che il piano 2006 si potesse usare e sia sul fatto che toccasse al ministero della Salute muoversi.
Allo stesso modo, sul documento di Zambon, a Report il ministero ha risposto riportando un comunicato del 14 dicembre 2020 con cui si dichiarava che «in nessun momento il governo italiano ha chiesto all'Oms di rimuovere il documento». Peccato che le chat tra Speranza e Brusaferrro, ricostruite integralmente ieri sulla Verità, raccontino un'altra storia, circa il ruolo del ministro nella scomparsa di quel rapporto, che ci fu eccome.
Per tutte queste bugie raccontate sul ruolo avuto nel ritiro e nella scomparsa del report Oms, ieri alla Camera, il deputato di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami è stato molto duro con Speranza. «C'è una parola che si chiama credibilità», ha attaccato Bignami, «ma come fa un ministro che si è comportato come lei a essere credibile? Lei ha mentito. E ha mentito al Parlamento, a milioni di italiani, agli stessi parenti delle vittime del Covid».
Nel suo intervento, l'onorevole ha ricordato pure le chiusura ministeriale nei confronti dei verbali della task force, a più riprese negati a dispetto di precise richieste di accesso agli atti, e che per leggere i quali è stato necessario ricorrere alla magistratura. «Si dimetta, signor ministro», ha concluso infine Bignami, fortemente applaudito dai colleghi di partito presenti alla Camera.
Anche la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni, nella giornata di ieri, è intervenuta attaccando duramente il ministro della Salute. «Ha mentito in Aula sul rapporto dell'Oms», ha dichiarato Meloni, «Speranza ha fallito, il presidente del Consiglio ne prenda atto e lo rimuova».





