2021-08-17
Il grande naufragio dell’illusione liberale
Da sinistra, Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama (Ansa)
Dopo vent'anni si sbriciola il modello dell'esportazione dei diritti democratici: spesso un'egemonia vestita da umanitarismo. Saltati gli esperimenti di ingegneria sociale voluti da Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama: ora è dura parlare di missione civilizzatrice. Osservando le immagini degli sfollati afghani ammassati su un aereo militare americano, o peggio quelle dei disperati aggrappati al carrello e ai portelloni nella speranza di essere presi a bordo, gli occidentali reagiscono tentando di giustificare sé stessi. E, soprattutto, cercando di incolpare della disfatta la parte politica avversa. Sarebbe estremamente consolatorio, ovviamente, poter scaricare la colpa sul presidente più sgradito. A sinistra c'è chi, ancora ossessionato, tira in ballo Donald Trump. A destra, invece, c'è chi si focalizza sugli errori di Biden, che pure esistono, ma dimentica un signore di nome George W. Bush. Conviene allora allargare un poco la prospettiva e ammettere una volta per tutte che l'Afghanistan non è il fallimento di una Amministrazione americana, bensì il fallimento di un intero modello politico. È il crollo, inappellabile e definitivo, di quella che il politologo John J. Mearsheimer ha chiamato «la grande illusione», cioè il sogno liberale di imporre ovunque la propria egemonia. Tale illusione, a dirla tutta, avrebbe dovuto sgretolarsi già da tempo a causa dell'impressionante catena di insuccessi che hanno accompagnato il tentativo di «esportare la democrazia». Insuccessi che, dal 2001 in avanti, sono aumentati. Mearsheimer elenca i motivi per cui le varie campagne statunitensi (Afghanistan, Iraq, Siria) non sono andate a buon fine: «Fare ingegneria sociale in qualunque società, inclusa la propria, è un compito straordinariamente complicato», spiega. «Gli Stati Uniti intervenivano militarmente in Paesi di cui sapevano incredibilmente poco -pochi funzionari governativi parlavano l'arabo o sapevano che sunniti e sciiti professavano fedi islamiche diverse - e la violazione da parte loro del diritto all'autodeterminazione di quegli Stati era destinata fatalmente a causare risentimento. Inoltre, quei Paesi erano tutti divisi in fazioni, per cui era probabile che la caduta del governo scatenasse il caos. Fare ingegneria sociale in un Paese straniero mentre si combatte per assumerne il controllo è praticamente impossibile». I più cinici obietteranno che, in realtà, lo scopo degli Stati Uniti non era quello di esportare il liberalismo (mercato più democrazia) bensì, al massimo, il neoliberismo (molto mercato, meno democrazia). Si dirà anche che l'esportazione della democrazia era una favoletta raccontata da Bush (come da Clinton prima di lui) per coprire la difesa di interessi economici con le armi. Ma è indubbio che gli americani - al netto della ragion di Stato e delle cattive intenzioni - si siano sentiti investiti da una missione civilizzatrice, che Trump ha iniziato a smorzare, portandosi appresso Biden e la sua (tutta presunta) radicale diversità. L'ideologia che sta dietro a tale visione del mondo è quella che Mearsheimer indica come «liberalismo progressista». Parliamo di un frutto perverso dell'Illuminismo che insiste forsennatamente sulle libertà individuali, per promuovere i quali è autorizzato il «cambiamento di regime» anche violento negli Stati che si rendano colpevoli di violazioni dei «diritti umani». Questo approccio (di cui si sono fatti interpreti sia Clinton sia Bush sia Obama) dovrebbe, teoricamente, garantire la pace. Ma finisce per causare «infinite guerre che innalzeranno anziché ridurre il livello del conflitto sullo scacchiere internazionale». Il fatto è che il liberalismo progressista compie un errore fatale: tende a considerare l'uomo un individuo atomizzato, dà poca importanza ai legami sociali forti, specialmente a quel tipo particolare di comunità che prende il nome di nazione. Scrive Mearsheimer che, nella narrazione liberale, «gli esseri umani sono programmati per apprezzare i diritti individuali, e quasi tutti i liberali credono nella propria capacità di fare ingegneria sociale sia in patria sia all'estero». Gli esseri umani, però, sono prima di tutto sociali, comunitari. Il popolo che si riconosce in una cultura comune e costituisce così una nazione non può essere prodotto in laboratorio. Esso si sviluppa su un determinato territorio, cementa i legami attraverso la vicinanza e la condivisione. Non è detto che una nazione si fondi esclusivamente su un elemento etnico, e di certo il «plebiscito di ogni giorno» è fondamentale affinché una nazione sopravviva. Esiste però un'anima della nazione che non è riproducibile artificialmente, ed è alimentata da un sentimento di appartenenza che è persino difficile descrivere, figuriamoci modificare. Il liberalismo progressista abbraccia invece un'idea artificiosa di nazione e di cosmopolitismo. Per i liberali e soprattutto per i liberal, come notava Samuel Huntington, la nazione si fonda «su un contratto politico tra individui che non hanno altri elementi di comunanza». E se la nazione è fondata su un contratto, tale contratto si può imporre anche ad altri, utilizzando i diritti umani come base e fornendo così ai popoli una base più o meno neutra su cui edificare una democrazia liberale. Questa idea, che gli Usa hanno abbracciato, ha causato loro molti guai sia a livello interno sia a livello internazionale. Come abbiamo visto, l'imposizione dell'egemonia liberale è fallita ovunque. In parte per l'intervento di potenze rivali, in parte per la sollevazione spontanea delle nazioni (i talebani sono addirittura riusciti a passare per e difensori della patria). Ma sul suolo americano non va meglio. Sempre Huntington scriveva che un'America fondata esclusivamente sul «contratto politico» si sarebbe trasformata presto «in una confederazione puramente formale di gruppi etnici, razziali, culturali e politici, che non hanno nulla in comune se non la residenza sul territorio di quelli che un tempo erano gli Stati Uniti d'America». In effetti è andata proprio così. L'America di oggi è un ribollire di scontri fra minoranze o gruppi sociali. Il Me too, poi Black Lives Matter, poi le lotte Lgbt, addirittura l'assalto a Capitol Hill: la tendenza liberale a combattere le identità larghe rafforza quelle più ristrette e le infiamma. Allo stesso modo, il tentativo di sopprimere le nazioni per creare nuovi ordinamenti sovranazionali o inoculare un modello unico sviluppa reazioni tribali. Se l'Afghanistan insegna qualcosa è che i popoli vogliono autodeterminarsi, e chi prova a impedirglielo viene combattuto. A costo di favorire l'ascesa di inquietanti barbuti che disprezzano persino la musica.