
Non ne hanno azzeccata una (Trump, Brexit, 4 marzo) ma anche nelle sconfitte riescono a trovare conferme alla loro superiorità. E così Repubblica, L'Espresso, Il Manifesto e Il Foglio impartiscono lezioni a quest'orrenda Italia fascio-nazi-razzista.Sono tornati i turisti della democrazia. Anzi, hanno fatto carriera, e sono diventate le guide turistiche della democrazia. Ci accolgono all'ingresso del museo o del parco naturale, loro carichi di sapienza, noi sporchi-sudaticci-ignoranti. E si ripromettono di renderci meno impresentabili, di dirozzarci un pochino. A volte, nella loro grande misericordia progressista, ci aiutano a fare i compiti a casa, con la dolcezza di uno zio buono con il nipote tonto. Altre volte (succede, ma è colpa nostra, diamine!) perdono la pazienza e sono costretti a rifilarci una sberla. Ma è sempre per il nostro bene: «tough love», direbbero gli americani. Sorrisi (amari) a parte, questo è l'atteggiamento di molti intellettuali di sinistra. Più elezioni perdono (Trump, Brexit, Italia), meno si interrogano sui propri errori: anzi, paradossalmente trovano nelle sconfitte una conferma della loro superiorità sulle orrende plebi populiste. Le quali vanno - a giorni alterni - rieducate o bastonate. Solo nella giornata di ieri, abbiamo potuto constatare quattro esempi di questa sindrome. Esaminiamoli uno per uno. Il primo ce l'offre Vittorio Zucconi, una delle teste d'uovo di Repubblica. Grande narratore, per anni corrispondente dagli Usa, scriveva fiction più che cronache: i repubblicani invariabilmente ignoranti e guerrafondai, i democratici sempre colti e civili. Da qualche anno è tornato in Italia, e non si dà pace. Indimenticabile la sua performance tv a Piazzapulita, poche ore dopo la nascita del governo Conte: necessità di una nuova vigilanza antifascista, paragoni con il governo Tambroni, descrizione degli attuali «fascisti» come (testuale) «quelli che trattano gli immigrati come merde». Ieri, dalla prima pagina di Repubblica, ha messo nel mirino in un colpo solo Donald Trump, l'ex ministro degli esteri inglese Boris Johnson e Matteo Salvini, colpevoli di parlare una «neolingua da spogliatoio». Una lingua «truculenta», che vuole solo «offendere e deridere», per «compattare i clienti al banco del bar dell'odio». Quest'articolo andrà ricordato, perché segna un salto di qualità nella pretesa rieducativa di Repubblica: a cui non basta più spiegare cosa gli altri debbano pensare, ma anche come debbano dirlo. La seconda predica - dal pulpito della stessa parrocchia editoriale - viene da Gianfrancesco Turano, firma dell'Espresso. Già il titolo ci fa capire dove si va a parare: «Per sconfiggere il razzismo serve un lavoro partigiano». In una riga, due notizie: voi siete razzisti-fascisti-nazisti, loro sono partigiani impegnati in una guerra di liberazione. Con Turano non si scherza, non è giornata: spiega subito ai suoi compagni di sinistra che non possono essere tolleranti con i nuovi fascisti. Finirebbe male, «è successo altre volte nella storia», verso «armeni, ebrei, i tutsi del Ruanda, o prima ancora i catari e gli ugonotti». Non si capisce in quale categoria debbano essere inseriti Maurizio Martina, Matteo Orfini, Maria Elena Boschi e Alessandra Moretti, che non risultano oggetto di persecuzioni (se non di quelle che si autoinfliggono con le loro stesse dichiarazioni). «Questa tolleranza è sbagliata», sibila Turano: «si è visto con Hitler e Mussolini». Mica vorrete commettere lo stesso errore con Salvini? Il quale non viene citato per nome: Turano lo chiama «il capo dei razzisti». Conclusione? «Sarà un lavoro partigiano. Forse non servirà prendere il fucile e andare in montagna». Segnaliamo che Turano ha scritto «forse», e nessuno all'Espresso ha alzato il telefono per chiedergli se non fosse un po' troppo scrivere nella stessa frase «prendere il fucile» e «forse». Il terzo esempio è un grande classico: la fotonotizia d'apertura del Manifesto, il quotidiano comunista. Titolo: «I ragazzi con la pistola» (pistolone nell'immagine, per chi non avesse capito). Il sommario inizia così: «Fermati i giovani che hanno ferito a colpi di pistola un migrante gambiano». Anche qui manca qualcosa, che La Verità vi ha raccontato ieri: la polizia ha risolto il caso, gli sciagurati minorenni responsabili del gesto hanno sparato ma a salve, hanno confessato, e hanno ammesso di non avere moventi razzisti. Quindi, nessun raid razziale, nessun agguato suprematista. Il che ovviamente non rassicura sull'equilibrio di quei ragazzi (c'è da mettersi le mani nei capelli): ma non sembra serio nemmeno descrivere la provincia di Pistoia come l'Alabama in mano al Ku Klux Klan. E inventare la categoria del «ferito a salve». Siamo al quarto e ultimo caso. Qui ci si sposta dalla lotta (di classe) comunista alla lotta (di alta classe) del Foglio, già organo del renzismo, oggi lanciato verso la costruzione del «partito dei competenti» (copyright del direttore Claudio Cerasa). Già trovati i campioni: Roberto Burioni-Tito Boeri-Marco Bentivogli-Carlo Cottarelli. Ma, al di là delle convocazioni diramate dal ct Cerasa, colpisce lo svarione politico. Con tutto il rispetto per queste e altre personalità (con le quali si può consentire, dissentire, eccetera), ciò che serve a tutti (maggioranza e opposizioni) non è solo una somma di saperi specialistici, ma una visione d'insieme, un progetto complessivo, dire all'Italia dove si vorrebbe andare. Compito di chi è al governo tanto quanto di chi vuol preparare un'alternativa: ma i ministri (attuali e futuri) non dovrebbero essere dei «sindacalisti» del loro settore (un generale alla Difesa, un magistrato alla Giustizia, ecc). E meno che mai bisognerebbe crogiolarsi nell'idea di «un partito dei migliori», di un «sinedrio di ottimati», contrapposti alle masse ignoranti. Pensavamo che, nell'Italia che ha inventato la scienza politica, da Niccolò Machiavelli in poi, non fosse necessario rispiegarlo…
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