2020-07-25
Il fico si chiama d’India per colpa di Colombo
L'Asia non c'entra nulla con questo dolce frutto originario del Messico, che ancora oggi ne porta il disegno sulla propria bandiera. La storia del nome sbagliato è simile a quella di altri prodotti scoperti dal navigatore che non aveva capito di essere nelle Americhe.Fortunati turisti che in luglio e agosto trascorrerete le ferie al sud, non perdetevi il gelato di fichi d'India appena raccolti, maturi, concentrato di freschezza e antica arte gelatiera. E non perdete alcuna delle occasioni gastronomiche legate a questo frutto: confetture, mostarde, sciroppi, interessanti risotti, insalate insolite, tagliatelle con speck (nord-sud, che matrimonio!), dolci. A Ponza, isola dell'arcipelago delle Ponziane, con i cladodi della pianta (sembrano foglie, ma non lo sono) si fa la parmigiana delle palette, un piatto tradizionale nel quale si usano queste parti del fico d'India al posto delle melanzane. Il procedimento è lo stesso: abbondante sugo di pomodoro, copiose nevicate di parmigiano e via infornare. Il piatto, tipico dell'isola, è stato inserito tra i Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat) del ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali.Accontentato il palato pensiamo alla lingua. Fico d'India si può scrivere in due modi: tutto attaccato, ficodìndia, o staccato: fico d'India. Ma l'India non c'entra con questo frutto dolce come il miele (attenti alle spine) che non ha niente da spartire col fico tradizionale pur essendo altrettanto dolce. Luglio e agosto sono i mesi in cui i frutti maturano anche se c'è una pratica agricola, lo scuzzulato, che li fa maturare anche più tardi. Riccardo Morbelli nel Gastronomo avveduto (Il Boccafina) avvertiva ironicamente i lettori: «In India, i fichi d'India sono introvabili» e siccome in Messico, dove venne scoperto, veniva coltivato dagli indios, suggeriva di chiamarlo «fico d'indios». La storia del nome «sbagliato» è simile a quella di altri prodotti americani scoperti da Cristoforo Colombo: il navigatore, convinto di essere approdato nelle Indie, indianizzò tutto quello che poté, dagli abitanti, agli animali (nel dialetto mantovano il tacchino è ancora chiamato dindio), ai prodotti della terra. Ecco perché si chiama fico d'India invece di fico del Messico che sarebbe più appropriato in quanto la pianta è originaria dell'altopiano messicano dove sorgeva Tenochtitlan, l'antica capitale azteca, oggi Città del Messico. Una leggenda azteca lega la fondazione di Tenochtitlan a una popolazione amerinda che, ispirata da una divina profezia, migrò verso sud. Secondo la predizione i nomadi avrebbero dovuto stabilirsi nel luogo dove un'aquila con un serpente tra gli artigli stava sopra una roccia sulla quale era radicato un fico d'India. Così avvenne. Il Messico ancora oggi rispetta il mito nella bandiera verde bianca rossa: nello stemma c'è un'aquila sul fico d'India con un crotalo che si divincola negli artigli e nel becco del rapace.Curioso destino quello del fico d'India che oltre a frutti salutari dona fiori stupendi e vivacità al paesaggio. Ha uno stato asiatico nel nome, il dna americano, ma è mediterraneo per vocazione. Il posto al mondo dove vive meglio è tra le coste sudeuropee e quelle nordafricane: il bacino mediterraneo, appunto. In queste terre, soprattutto nelle isole, ci sta come un papa, un pontefice spinoso e prolifico. Dove attecchisce mette su numerosa famiglia. Quantunque la progenie non sia autoctona, benché sia arrivato in Europa soltanto da 500 anni, anche se ha l'aspetto di una pianta aliena con foglie che non sono foglie, ma rami spinosi appiattiti, il fico d'India, è il protagonista multicolorato del paesaggio del Mare Nostrum. È il padrone delle coste calabre, pugliesi e delle isole, dall'Elba alle Eolie, da Ponza alle Tremiti, da Filicudi, a Lampedusa, a Pantelleria e alla Sardegna. Ma la patria di elezione dell'Opuntia ficus indica, questo il nome scientifico, è la Sicilia.Nelle cartoline il fico d'India sta alla Sicilia come il pino mediterraneo (prima che i parassiti l'uccidessero), stava a Napoli, come il papiro della fonte Arethusa sta a a Siracusa, il cupolone di San Pietro a Roma, la gondola a Venezia, la pin-up a Rimini... Non sono soltanto particolari del paesaggio. Il fico d'India, il cupolone, la gondola, sono il paesaggio stesso, anime e simboli di una città o di una regione. Elio Vittorini, lo scrittore siracusano autore di Conversazione in Sicilia, li chiamava «coralli sulla pietra». «Erano di pietra celeste, tutti fichidindia, e quando si incontrava anima viva era un ragazzo che andava o tornava, lungo la linea, per cogliere i frutti coronati di spine che crescevano, corallo, sulla pietra». Una colonna di fichi d'India illustrano la copertina di Magarìa di Andrea Cammilleri (Mondadori 2013). Lo scrittore andava matto per i fichi d'India: «Sono una cosa seria». Non è siciliano, ma andaluso Federico Garcìa Lorca (stesso cuore mediterraneo) che nella poesia Fico d'India paragona i contorcimenti della pianta a quelli del povero Laocoonte che per aver messo in guardia i compatrioti dal cavallo donato dei Greci, fu straziato con i figli dai serpenti mandati dalla dea Atena: «Laocoonte selvaggio/ come sei bello sotto la mezzaluna!/ Multiplo giocator di pelota/ come sei bello quando minacci il vento./ Dafne e Attis sanno del tuo dolore./ Inesplicabile». Senza il ficudinia la Sicilia perde colori, sapori, spirito. Perde storia e leggende. Come si può immaginare la Trinacria senza fichi d'India? Eppure cinque secoli fa non c'erano. In Sicilia erano introvabili come nell'India di Morbelli. «Mostro botanico», lo chiamarono gli spagnoli quando lo videro per la prima volta, ma impararono ben presto che tolte le spine restava una polpa dolcissima e un frutto salutare, ricco di sali minerali, soprattutto fosforo e calcio, e di vitamine A e C. Il ficodindia fu introdotto in Sicilia «solo» nella seconda metà del Cinquecento e nell'isola mediterranea trovò il miglior ambiente del mondo. In altre zone dell'isola lo chiamano ficurinia o ficupala per i cladodi a forma di pala. Nel ragusano lo chiamano ficumori attribuendone l'introduzione agli Arabi, i mori. Così anche in Sardegna: sa figu morisca. Una versione storica non sostenibile perché il dominio arabo sulla Sicilia finì quattro secoli prima della scoperta dell'America. Ma una ragione per tirare in ballo i mori c'è. La racconta una leggenda siciliana, secondo la quale il fico d'India era un tempo velenoso. Il frutto sarebbe stato introdotto in Sicilia dai Turchi per far strage di «carne battezzata», cioè di cristiani. Ma il Signore non solo non permise che questo accadesse, ma trasformò la polpa velenosa del frutto in una sostanza dolce, succosa e salutare.Un'altra bella storia spiega la pratica agricola dello scuzzulato o bastardone: il ficodindia che fruttifica in ritardo perché gli vengono scuzzulati - recisi, frantumati - i fiori. Dicono che tale pratica nacque dalla lite tra due contadini confinanti. Uno dei due, geloso dei frutti dell'altro, scuzzolò i fiori dei fichi d'India del vicino per impedire alle piante di dar frutti. Invece, miracolo della natura!, i fichi nacquero lo stesso, sia pure in ritardo. Addirittura più belli e più dolci.Tre le varietà di fichi d'India: a polpa gialla, bianca e rossa. Oltre che fresco, il ficodindia si consuma in molti modi, come detto, anche come liquore. È un frutto che ha pochissime calorie e quindi va bene per le diete. Contiene semi di consistenza lignea che possono provocare disturbi intestinali. Meglio toglierli. Il succo del ficodindia è un buon rimedio popolare contro la tosse. I frutti meno pregiati e le pale della pianta vengono usati per l'alimentazione degli animali d'allevamento. I fichi d'India sono usati anche per l'allevamento del Dactylopius coccus, la cocciniglia del carminio utilizzata per fare un colorante rosso usato per tessuti (già conosciuto dagli aztechi), cosmetici e come colorante alimentare.