- Uno studio italiano prende in esame 43 indicatori globali (fisico-ambientali, socioeconomici e sanitari) per vedere se negli anni sono peggiorati, come la narrazione mediatica suggerirebbe. Ecco i risultati.
- L’obiettivo dovrebbe essere un altro: produrre energia abbondante e a basso costo.
- Parla il fisico Gianluca Alimonti, coautore del saggio scientifico recentemente presentato a Venezia: «È giunto il momento di adottare un approccio basato sui dati oggettivi. Abbiamo tutto il tempo per sviluppare politiche più ragionevoli. L’innovazione tecnologica è decisiva».
Uno studio italiano prende in esame 43 indicatori globali (fisico-ambientali, socioeconomici e sanitari) per vedere se negli anni sono peggiorati, come la narrazione mediatica suggerirebbe. Ecco i risultati.L’obiettivo dovrebbe essere un altro: produrre energia abbondante e a basso costo.Parla il fisico Gianluca Alimonti, coautore del saggio scientifico recentemente presentato a Venezia: «È giunto il momento di adottare un approccio basato sui dati oggettivi. Abbiamo tutto il tempo per sviluppare politiche più ragionevoli. L’innovazione tecnologica è decisiva».Lo speciale contiene tre articoli. Il dibattito sul clima è prigioniero di un gergo apocalittico. Sentiamo parlare quotidianamente di crisi climatica, emergenza globale o, addirittura, ebollizione globale. In questi giorni poi, con la Cop30 in svolgimento in Brasile, si sprecano gli annunci di nuovi dati sempre più catastrofici sul destino dell’umanità vittima del riscaldamento globale e del cambiamento climatico.Questi termini, gonfiati dai media e dall’attivismo delle Ong ben sovvenzionate, agiscono come potenti catalizzatori emotivi. C’è però un gigantesco e imbarazzante problema di fondo: nessuno ha ancora fornito una definizione rigorosa e quantificabile dell’espressione «crisi climatica».Se in economia, ad esempio, si parla di recessione al verificarsi di determinati eventi (due trimestri consecutivi di Pil negativo), dovrebbe essere ancora più necessario definire cosa è una crisi climatica secondo parametri certi, misurati e condivisi.Senza indicatori oggettivi, il concetto di crisi climatica non è che una metrica a spanne, basata sull’intuizione o, peggio, sull’isteria collettiva, invece di essere un indice analitico fondato sui dati.In questo vuoto di rigore si inserisce lo studio italiano Quantifying the climate crisis: a data-driven framework using response indicators for evidence-based adaptation policies, scritto da Gianluca Alimonti e Luigi Mariani e pubblicato sulla rivista scientifica peer-review Environmental Hazards.Lo studio è stato presentato la settimana scorsa alla conferenza internazionale Themes 2025 all’Università Ca’ Foscari di Venezia. L’ambizione dell’articolo, semplice e al contempo rivoluzionaria, è quella di smontare la retorica dell’allarme e fornire strumenti basati sull’evidenza.L’invito dei due studiosi è sintetizzato dalla celebre frase di Mark Twain posta in apertura del loro lavoro: «A metterci nei guai non è ciò che non sappiamo, ma ciò che diamo per certo… e che semplicemente non è vero».Lo studio parte dal presupposto che il concetto stesso di crisi climatica, pur avendo una lunga storia, diventa «arbitrario in assenza di una rigorosa metrica». Lo stesso Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) ha riconosciuto che crisi climatica è un termine adottato e promosso dai media. L’idea dello studio è dunque fornire una metrica quantificabile per stabilire quando è legittimo parlare di crisi climatica.Alimonti e Mariani non negano i cambiamenti climatici, non è questo l’oggetto dello studio, ma rifiutano l’uso arbitrario di concetti spuri e propongono un quadro di Indicatori di risposta (RINDs), basati sui Climate impact drivers (CIDs) definiti dall’Ipcc. Si tratta cioè di utilizzare indicatori già noti e condivisi dagli scienziati e di metterli in una prospettiva storica.Questi indicatori, oggettivi e misurabili, coprono anomalie ambientali, impatti socioeconomici e conseguenze sulla salute. L’obiettivo del lavoro è duplice, da una parte garantire la serietà scientifica del dibattito, dall’altra misure fondate per attuare politiche di adattamento concrete.Cercheremo di evitare i tecnicismi, ma in soldoni l’applicazione di test statistici alle serie storiche di 43 indicatori individuati dai due studiosi (23 fisico-ambientali, 10 socioeconomici e 10 sanitari) ha prodotto risultati che dovrebbero far riflettere i professionisti dell’allarmismo. La conclusione più schiacciante è che la maggior parte degli indicatori non mostra tendenze di peggioramento statisticamente significative.Dunque, basandosi sui dati disponibili, la crisi climatica propugnata dai media non è ancora evidente. Vale la pena riportare alcuni esempi che vanno in controtendenza rispetto alla narrazione dominante.Contrariamente alla paura della carestia globale, lo studio mostra che la produzione agricola mondiale di sostanza secca è aumentata del 305% dal 1961 al 2023. Restringendo l’analisi alle quattro colture principali (mais, riso, grano e soia), si registra un aumento regolare e significativo delle rese pari a +381%, senza segni di eventi negativi crescenti. Gli autori sottolineano come, pur riconoscendo un possibile impatto negativo del riscaldamento, l’efficacia degli avanzamenti tecnologici e genetici sia stata largamente superiore.Per quanto riguarda la siccità, l’Ipcc stesso nei suoi rapporti indica «bassa fiducia nella direzione del cambiamento» della frequenza degli eventi. Analizzando l’indice globale di salute della vegetazione (VHI), lo studio mostra che la siccità non si è intensificata né espansa a livello globale nel periodo 1981–2018. Anche per le inondazioni non vi è un chiaro consenso sull’emergere della loro frequenza. I dati satellitari mostrano una diminuzione stimata dell’area globale inondata tra il 2003 e il 2018.Gli indicatori di salute riflettono un notevole miglioramento globale, in gran parte dovuto all’adattamento e al progresso socioeconomico. Ad esempio, la mortalità dovuta a fonti idriche non sicure è in calo significativo dal 1990. La mortalità legata alla malaria, la più grave malattia trasmessa da vettori, ha mostrato un calo significativo tra il 1920 e il 1970, e studi recenti prevedono una netta diminuzione delle aree adatte alla trasmissione di malaria dal 2025 in avanti. Ancora più importante, l’impatto dei sistemi sanitari, dell’aria condizionata e dei cambiamenti comportamentali ha prevalso sull’influenza del cambiamento della temperatura, portando a una tendenza decrescente nella mortalità legata alle temperature estreme (sia fredde, che rappresentano il peso maggiore, sia calde).Poi, non si osservano tendenze statisticamente significative nel numero totale di uragani tropicali o nell’energia ciclonica accumulata (ACE) tra il 1980 e il 2024.Dunque, nella maggior parte dei casi i dati non convalidano l’allarme catastrofista, dice lo studio Alimonti-Mariani.Il paper scientifico invita a un cambio di schema, abbandonando la crisi come termine generico e come status di perenne allarme, per adottare una definizione rigorosa e quantificabile che spetta a un tema di tale importanza.Gli studiosi sono aperti alla discussione sui risultati dell’articolo, o meglio sulla metodologia e sugli indicatori da utilizzare. Come una bussola, la proposta dell’articolo è un tentativo di orientare eliminando l’interferenza data dalla percezione mediatica degli eventi, spesso orientata politicamente.Soprattutto, quello che emerge dallo studio di Alimonti e Mariani è che l’attenzione va posta con maggiore enfasi verso le strategie di adattamento. I progressi nella salute e nell’agricoltura sono prove tangibili che l’adattamento socioeconomico e tecnologico può superare l’impatto dei cambiamenti ambientali.Se è vero che l’allarmismo contribuisce a dirottare risorse limitate verso obiettivi non prioritari, l’approccio dello studio italiano propone una via d’uscita, ovvero definire scientificamente la crisi, per combattere ciò che è reale e misurabile, non ciò che è temuto o narrato.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macche-piu-incendi-2674300018.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="alla-cop30-e-stallo-sul-taglio-alle-emissioni" data-post-id="2674300018" data-published-at="1763311195" data-use-pagination="False"> Alla Cop30 è stallo sul taglio alle emissioni La Cop30 si avvia alla conclusione con l’usuale deflagrazione di dichiarazioni altisonanti sui destini del mondo. Un esercito di delegati, consiglieri, attivisti travestiti da tecnici e tecnici travestiti da salvatori del mondo si è affaccendato per giorni in Brasile cercando soluzioni a un problema molto difficile da inquadrare. «E nel nome del progresso / Il dibattito sia aperto / Parleranno tutti quanti / Dotti medici e sapienti», recita una vecchia canzone di Edoardo Bennato.In un’orgia di badge, telecamere, coffee break ecosostenibili che nessuno beve e dibattiti all’acqua di rose, la Conferenza assomiglia ad una convention aziendale scappata di mano. Quest’anno, l’assalto di un gruppo di attivisti indigeni, giustamente imbufaliti, ha fornito una variante imprevista.La verità è che il gigantesco baraccone delle Cop non riesce più a nascondere un fatto elementare, cioè che la transizione ecologica, venduta come luminoso sole dell’avvenire, si è trasformata in un pantano burocratico e costoso, che ha creato asimmetrie ed ha approfondito i divari. Le trattative sono in stallo sulla riduzione delle emissioni e sul pacchetto di finanziamenti per i Paesi più poveri, ma non poteva che essere così.C’è un fatto semplice che nelle cronache da Belém (sempre più rade, tra l’altro) viene costantemente ignorato. La decarbonizzazione dipende dai Paesi in cui la domanda di energia è più in crescita, dunque nei Paesi in via di sviluppo e in Cina. Non in Europa, dove si discute se spegnere le vetrine alle dieci di sera, ma in Asia e in Africa, dove milioni di persone chiedono (giustamente) luce, fabbriche, frigoriferi, trasporti decenti. Dipende soprattutto dalla Cina, che procede per la sua strada, allargando la sua diplomazia gentile per piazzare i propri pannelli solari e i propri materiali critici. Nei Paesi in via di sviluppo servirebbero investimenti colossali (pensiamo all’India). Non bastano certo le briciole del celebrato microcredito, servono migliaia di miliardi all’anno per trent’anni, ma il problema è: chi ci mette il denaro necessario?Eppure, il problema dell’energia è serio e reale. Non riguarda la salvezza del pianeta, ma la capacità dei Paesi più giovani di crescere senza restare al buio e senza risorse. Parlare di transizione ecologica è un vezzo semantico, perché nasce da un percorso costruito al contrario. L’obiettivo non dovrebbe essere ridurre le emissioni come fosse una dieta dimagrante, ma produrre energia abbondante e a basso costo. Solo con più ricerca, più infrastrutture e più tecnologia si aprono spazi per una decarbonizzazione vera, che arrivi come conseguenza dello sviluppo, non come votazione finale di una Cop in cui qualcuno promette del denaro.Le Cop, finché ci saranno, continueranno a partorire comunicati pieni di promesse educate e risultati inafferrabili. Il mondo invece ha bisogno di un approccio più concreto sull’energia, che è il motore dello sviluppo. Senza energia accessibile la transizione resta un esercizio per ricchi a vantaggio dei ricchi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/macche-piu-incendi-2674300018.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="ci-siamo-inflitti-una-transizione-insensata" data-post-id="2674300018" data-published-at="1763311195" data-use-pagination="False"> «Ci siamo inflitti una transizione insensata» Il Professor Gianluca Alimonti è un fisico presso l’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) di Milano dal 1991, con attività di ricerca in fisica subnucleare e delle alte energie, inclusa la partecipazione all’esperimento Atlas al Cern. Ha anche studiato le problematiche della produzione di energia e attualmente insegna Fondamenti di energetica per il corso di laurea magistrale in Fisica e Chimica presso l’Università degli Studi di Milano. Insieme a Luigi Mariani ha pubblicato uno studio, Quantifying the climate crisis: a data-driven framework using response indicators for evidence-based adaptation policies, sulla rivista Environmental Hazards il 22 ottobre 2025.Professor Alimonti, lei e il coautore Luigi Mariani avete proposto in questo studio un metodo per quantificare la crisi climatica. Era proprio necessario?«Il concetto di “crisi climatica” è polisemico e molto sfaccettato. In assenza di una metrica rigorosa, si rischia di estendere arbitrariamente il concetto di crisi al clima, alimentando interpretazioni non realistiche, che possono scatenare allarmi in maniera ingiustificata. L’Ipcc stesso ha riconosciuto che termini come “crisi climatica” o “emergenza climatica” sono promossi dai media, non dalla scienza. Il nostro obiettivo è proporre un approccio analitico e oggettivo al tema».Quindi q uale è il vostro suggerimento?«Proponiamo di utilizzare un insieme standardizzato di parametri misurati e di analizzarli in prospettiva storica, per capire se effettivamente esiste una tendenza al peggioramento delle condizioni climatiche globali. Attenendosi ai dati è più difficile abbandonarsi ad interpretazioni fantasiose».Suona ragionevole. Quali sono le principali conclusioni che emergono dallo studio?«L’analisi delle serie temporali degli indicatori, che includono impatti fisico-ambientali, socioeconomici e sanitari, rivela che la maggior parte degli indicatori non mostra tendenze di peggioramento statisticamente significative. Per esempio, per i cicloni tropicali, le osservazioni non mostrano alcuna tendenza statisticamente significativa né nel numero di uragani, né nella loro energia accumulata tra il 1980 e il 2024». Allo stesso modo, per le inondazioni in Italia (eventi mortali dal 1951) non si riscontra una tendenza significativa. Inoltre, sul fronte sanitario, i tassi di mortalità standardizzati per età per tutte le cause sono diminuiti a livello globale. Questo suggerisce che la “crisi climatica”, come spesso viene rappresentata, non è ancora evidente».Quale è stata la reazione alla presentazione dello studio al convegno Themes 2025 dell’Università Ca’ Foscari, pochi giorni fa?«Alcuni sono rimasti sorpresi dalle tendenze stabili dei parametri utilizzati. Spesso si studia il dettaglio ma si perde la visione d’insieme».Questo metodo ha delle conseguenze politiche sulle strategie da adottare. Lei, ad esempio, tiene molto a fare una distinzione, quella tra transizione ecologica e transizione energetica. Che cosa intende?«La transizione ecologica si focalizza quasi esclusivamente sull’impatto ecologico inteso come cambiamento climatico. Essa valuta ogni intervento con il solo metro delle emissioni di CO2. Questo approccio è spesso caricato da un’urgenza non supportata da alcuna evidenza scientifica. Ciò può portare a distorsioni, con ricadute sociali negative, forzando le società ricche alla deindustrializzazione e a costi elevati, negando alle società più povere il modello di sviluppo che ha portato benessere al resto del mondo. La transizione energetica è invece una necessità, data dal fatto che la nostra società si è sviluppata grazie all’energia abbondante, in gran parte da combustibili fossili. Ma queste fonti hanno limiti intrinseci e un impatto ambientale non indifferente. La transizione energetica mira a trovare un sistema di approvvigionamento che garantisca lo sviluppo futuro della società senza danneggiare l’ambiente. Il suo fine ultimo non è la decarbonizzazione, ma la sostenibilità sul lungo periodo. Deve bilanciare tre obiettivi interconnessi: la sicurezza energetica (affidabilità e disponibilità delle forniture), la sostenibilità ambientale (l’impatto ecologico in tutti i suoi aspetti) e l’equità energetica (accesso all’energia a prezzi accessibili per tutti). La decarbonizzazione dovrebbe essere una conseguenza positiva di questa transizione, non la finalità principale».Molto chiaro. In tutto ciò, l’Unione europea sta agendo bene?«L’Ue si è auto-inflitta una transizione ecologica che ha poco senso: avendo un peso insignificante sulle emissioni globali, l’ostinazione per il net zero al 2050 non è motivata, ma porta all’impoverimento generale e a una crescente tassazione».Quale è il messaggio di fondo del vostro studio, professore?«Poiché i dati non mostrano un generale peggioramento delle tendenze, abbiamo tempo per sviluppare politiche ragionevoli. Sosteniamo un approccio equilibrato che integri in modo misurabile mitigazione e adattamento. L’adattamento, come dimostra la riduzione della mortalità legata al freddo o le misure contro la malaria, si rivela spesso più efficace dei soli sforzi di mitigazione. L’attenzione dovrebbe essere sull’innovazione tecnologica, per fare in modo che il passaggio ad un nuovo sistema energetico porti ad una maggiore prosperità».
2025-11-17
Magri, nutrienti, proteici. Bresaola e carpaccio sono sempre più apprezzati anche da chi fa sport
iStock
Quelli prodotti in Valtellina sono un’eccellenza italiana riconosciuta in tutto il mondo. Rispetto agli altri salumi sono più leggeri e digeribili. E aumentano pure la serotonina.
In questi giorni il produttore Rigamonti ha presentato alla stampa e al pubblico la Carta delle bresaole e carpacci, naturale prosecuzione della Carta delle bresaole presentata nel 2021: «Proseguiamo il percorso di trasparenza ed educazione al gusto avviato cinque anni fa con la prima Carta delle bresaole», ha spiegato l’amministratore delegato di Rigamonti, Claudio Palladi, «per accompagnare il pubblico con questo nuovo vademecum in un viaggio fra le diverse qualità e peculiarità di bresaole e ora anche dei carpacci. Un prodotto fresco, leggero e versatile quest’ultimo, che sta incontrando un consenso crescente, con incrementi a doppia cifra nei primi 9 mesi del 2025, sia al banco taglio che nel libero servizio. Il nostro intento è valorizzare le filiere e allo stesso tempo guidare il consumatore nella conoscenza delle diverse peculiarità delle carni, in base alla loro provenienza e alle razze. Un impegno apprezzato dal pubblico: oggi il segmento bresaole - Igp e specialità - registra un +25% a valore negli ultimi 4 anni e un +6% nel 2024. Positivi anche i primi nove mesi del 2025, con una crescita del 10%; in particolare sulle specialità trainano la crescita referenze come Gran Fesa e Angus, ormai punti di riferimento per i nuovi gusti dei consumatori».
Ecco #DimmiLaVerità del 17 novembre 2025. Il deputato di Fdi Marco Cerreto commenta la grande rimonta di Edmondo Cirielli in Campania.






