2022-07-24
Il «correttore» dominante cancella le razze
Anna Netrebko (Jack Vartoogian/Getty Images)
Quella dell’Aida a Verona è solo l’ultima polemica sul «blackface». Chi osteggia il trucco nero, però, non lo fa per rispetto della diversità quanto perché è proprio la diversità a infastidirlo. Perché deborda dal canone prestabilito, rovina la normalità.Ha suscitato critiche e polemiche l’episodio della soprano Anna Netrebko, rea di essersi «truccata di nero» per interpretare Aida all’Arena di Verona, secondo le vecchie tradizioni teatrali. Anche gli episodi minimi possono suggerire riflessioni molto ampie e rivelare una «semantica» tutt’altro che banale. In effetti, la ragione profonda per cui la «correttezza politica» (democratica, dirittista, globalista) si oppone al «trucco cromatico» della cantante, che non dovrebbe dipingersi il volto per sembrare africana, è che l’ideologia della «correttezza politica» vorrebbe in realtà sopprimere le differenze etniche (o razziali), e vorrebbe sopprimerle perché in realtà non le ama, sostanzialmente non le vuole. E in ogni caso non le vuole vedere o vuole far finta di non vederle. Quella che per anni è stata sbandierata come un’ideologia «multi-etnica» e «multi-culturale» aspira in realtà a un’umanità monocroma e omologata, normalizzata, e se finge di tutelare-valorizzare le differenze, si tratta di una tutela del genere «riserva indiana»: le forme devianti dall’umanità monocroma e omologata potranno sopravvivere in vetrina come specie in via d’estinzione nei parchi naturali, o come i copricapi Sioux e le piroghe della Papuasia nei musei di etnologia. Ovviamente nessuno pensa a sopprimere materialmente (per esempio negli Usa) la minoranza nera. Ma è evidente che alla cultura egemonica (che è pur sempre wasp, «white anglosaxon protestant», con rilevanti appendici semitiche, ma pur sempre «bianche»), il coloured non piace. E se si guarda bene dal dirlo - sostenendo anzi il contrario - in episodi come quello veronese dimostra di preferire, alla fine, un’Aida bianca, spacciando così per correttezza filo-afro quello che è il suo esatto contrario: una larvata insofferenza per l’esistenza stessa del tipo afro. Questo subdolo schema mentale opera anche in altri ambiti, apparentemente molto diversi. Per esempio nell’ambito delle invalidità, che diventano «diversamente abili». È lo stesso schema logico: già il termine, «diversamente abile» in luogo di «invalido» (o «disabile») cancella l’invalidità sul piano linguistico; e la cancella perché in realtà non la tollera. Le misure che mirano a promuovere il «diversamente abile» (ad esempio quella messinscena di sofferenze umane tecnologicamente corrette che sono le cosiddette Paralimpiadi), sembrano valorizzarlo e tutelarlo, ma c’è anche qui, alla radice, una soppressione virtuale del fenomeno, cioè dell’invalido, che non va nemmeno chiamato per nome. Costringere (con mirabolanti protesi tecnologiche) un invalido grave a diventare un campione sportivo, non è una vittoria dell’invalido come tale: è, al contrario, una vittoria del «normodotato» e della «normalità», che viene imposta per via tecnologica anche a chi ne è lontano (esattamente come nel caso della maternità a 60 anni, o della fecondazione eterologa che permetterà di «avere figli» anche a una coppia sterile, od omosessuale e così via). È sempre lo stesso schema mentale: nel caso delle differenze razziali, delle invalidità, o di circostanze biologiche avverse (come la sterilità). Si potrebbe dire che l’ideologia occidentale dominante o democratico-liberale non ama affatto i «difetti di fabbricazione» (anche le differenze razziali lo sarebbero), e cerca di eliminarli: o nei fatti o almeno nel linguaggio. Il vecchio motto latino la riassume alla perfezione: «promoveatur ut amoveatur». Una finta promozione (del nero, del disabile) che nasconde la volontà di eliminarlo in qualche modo, almeno nel senso di non «vederlo». Ci si avvicina così al nocciolo rovente del problema: alle prospettive dell’ingegneria genetica, che vorrebbe - negli auspici dei suoi profeti - intervenire sulla natura umana al punto da «costruire» la vita secondo i desiderata dei genitori o della società. Le diagnosi prenatali che mirano ad eliminare ante partum le vite «difettose» sono una forma ormai ampiamente accettata di ideologia «correttista» (per alleviare il peso ai genitori, è ovvio, ma in fondo perché sarebbero vite «indegne» di essere vissute anche per chi dovrebbe viverle: è l’eugenetica allo stato puro). Questa cultura della «normalità» è il punto d’arrivo di una lunga vicenda, che ha il suo teorico sommo nel padre del razionalismo moderno, René Descartes (al quale non a caso piacevano gli automi, esenti da difetti di fabbricazione). Non c’è niente che Descartes detesti come il difetto di fabbricazione: il suo ideale supremo è la Città Umana costruita ex novo da un Ingegnere (in modo da evitare case storte, edifici difformi, vie a serpentina). Sul piano teoretico, l’eliminazione preventiva del «difetto» avviene emarginando le qualità (dette «secondarie»). La sola cosa che conta è la materia estesa, uniforme, perfetta nella sua assoluta monotonia. Che la materia monocroma, anzi neutra, possa rivestirsi di colori differenti, compreso il nero, è una detestabile bizzarria: si può tollerarla a condizione di relegarla ai margini. La Scienza non sa che farsene, ha bisogno di un materiale omogeneo e docile. Descartes, non ancora sociologo, pensava alla materia come oggetto fisico: altri, più tardi (dai teorici dell’89 a Comte a tutti gli altri che verranno fino al «futurologo» di Google, Ray Kurzweil) penseranno al «materiale umano». Ormai ci siamo; la «singolarità» (Kurzweil), l’uomo-macchina, è vicina, dicono che arriverà nel 2030.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)