Dalla crisi energetica agli equilibri Nato: così Berlino ha ceduto ai ricatti americani
In una celebre vignetta uscita sul New Yorker quasi 50 anni fa (era il 1986), Saul Steinberg raffigurava ironicamente «il mondo visto da Manhattan», anzi da una strada di Manhattan, la 9th Avenue. Da quello che era o si riteneva allora il centro del mondo, tutto quello che non era New York si rimpiccioliva in modo risibile, in uno scorcio prospettico deformante, come in un cannocchiale rovesciato. Che quasi 50 anni dopo New York sia ancora il centro del mondo è discutibile, certo è che le pagine del New York Times rappresentano, si direbbe autorevolmente, un punto di vista che rimane «imperiale», benché di un impero in palese declino e aggrappato con religiosa determinazione alla propria pericolante egemonia.
Un articolo recentissimo del quotidiano newyorkese, firmato da Steven Erlanger ed Erika Solomon, affronta ora la «questione tedesca», o meglio il ruolo in effetti amletico della Germania nella guerra ucraina, prendendo lo spunto dalla nota esitazione del cancelliere, Olaf Scholz, nell’inviare in Ucraina i modernissimi carri armati Leopard 2 (come richiesto a gran voce dai comandi americani della Nato). Non può non tornare alla mente la vignetta di Steinberg: l’articolo è infatti un vero capolavoro di stile imperiale, mascherato da sagge considerazioni sulla storia tedesca e sulle «tare» psicologiche da cui la Germania non riuscirebbe a liberarsi.
La riluttanza dell’opinione pubblica (e della stessa leadership, tra verdi e socialdemocratici) a un impegno militare più diretto in Ucraina ha le sue radici, secondo il New York Times, nella memoria storica della Germania: i tedeschi associano quasi d’istinto l’Ucraina all’invasione hitleriana del 1941, ai milioni di russi e di ucraini uccisi dalla Wehrmacht (il Piano Himmler prevedeva la deportazione in Siberia del 65% della popolazione ucraina), e non vuole saperne di un nuovo impegno militare, diremmo noi, «sul luogo del delitto». Gli stessi nomi ucraini - a cominciare dal famigerato complesso di Azovstal, espugnato dai russi - suonano troppo familiari ai tedeschi, a cominciare dal fatto che furono proprio le divisioni hitleriane a occupare Azovstal durante l’Operazione Barbarossa. Di qui l’istintivo rifiuto.
E fin qui l’analisi non sorprende, è una cauta e ragionevole concessione al pacifismo tedesco, bandiera della Berliner Republik e alle sue ragioni storiche. Ma i tempi, prosegue l’editoriale, sono cambiati, la Germania deve dimenticare il proprio passato, o meglio ricordare che lo stesso nazismo fu sconfitto con le armi e non con i negoziati diplomatici. Che il pacifismo «non paga». E assumersi «la responsabilità di difendere un’Ucraina libera e sovrana», preparando «una più larga risposta europea per mettere fine alla criminale guerra terroristica di Vladimir Putin» (citazione da Timothy Garton Ash, noto saggista britannico di area liberal, professore di studi europei all’università di Oxford: ma qui non fa differenza, Oxford o Harvard «per me pari sono», l’anglosfera è compatta come un sol uomo).
Sgombrato il campo dalle valutazioni psico-storiche l’analisi si fa aggressiva, e il tono cede ai cliché della più scontata propaganda. Il New York Times non sembra sfiorato dall’idea che possano esserci degli interessi tedeschi, nazionali, in eventuale conflitto con l’interesse imperiale. La Germania vista da New York (o da Washington) non può avere interessi propri, si direbbe, non ne ha il diritto, come nessun alleato d’altronde; e se li ha (nuova citazione di Garton Ash), la volontà tedesca di mantenere buoni rapporti con Mosca viene liquidata con sarcasmo, come una «fissazione». Quanto agli interessi ovviamente buoni e giusti che muovono l’America a una guerra buona e giusta (mandando avanti gli alleati), l’articolo intona una canzone noiosamente simile a un disco rotto: il richiamo al nazismo vinto con le armi equipara di fatto Putin ad Adolf Hitler, secondo un copione ormai logoro, e l’invasione russa dell’Ucraina a una «criminale guerra terroristica». Dove tutti gli antefatti, gli otto anni di provocazioni dal 2014 al 2022, scompaiono per incanto: la metodica penetrazione angloamericana in Ucraina, il sostegno militare e batteriologico-militare, il colpo di Stato mascherato di piazza Maidan, l’ascesa pilotata del burattino Volodymyr Zelensky, la minaccia di incorporare l’Ucraina nella Nato portando missili ipersonici alle porte di Mosca. Per finire con il sabotaggio (criminale) del Nord Stream 2: avvertimento in stile mafioso alla Germania su come si comporta un alleato fedele (ma si sa, il New York Times finisce nei salotti buoni di Manhattan e delle Capitali occidentali, nelle acque del Baltico si parla un altro linguaggio, più esplicito).
Insomma: Scholz deve rompere gli indugi e «portarsi dietro» l’elettorato riluttante. Rilutti pure, l’America vuole altro. E il tono aggressivo-imperiale non può che sfociare in aperta minaccia: se i tedeschi si rifiutassero di fare la propria parte nella guerra «americana» in Ucraina, sarebbe «disastroso per la reputazione tedesca, e ridurrebbe in modo grave la fiducia nella Germania come alleato Nato». E si capisce, il padrone sa usare il bastone e la carota: ma con i tedeschi è già pronto il bastone (e si direbbe che lo è fin dall’inizio, anzi fin da prima, con una Germania che gli Usa sognano dissanguata dalla politica delle sanzioni insieme agli altri alleati europei, Italia in primis).
A quanto risulta dalle notizie più fresche, Scholz romperà gli indugi, confermando quello che già era noto: che il governo-fantoccio di Berlino teme la propria opinione pubblica ma è pronto a inchinarsi al padrone. A meno che la protesta popolare non lo travolga, e sarà difficile.
Gli economisti che si affannano a descrivere in linguaggio tecnico il complicato funzionamento del sistema blockchain, su cui poggerebbe il meraviglioso mondo delle criptovalute, sono come microbiologi impegnati ad analizzare con rigore scientifico la struttura di un virus patogeno. Che resta nondimeno un virus patogeno. Così come un falsario resta un falsario.
Se il primo passo decisivo dell’economia occidentale moderna è lo «sdoganamento» dell’usura nella forma del prestito a interesse (dove la brutalità della vecchia usura sembra diluirsi nel fattore-tempo, con mutui pluridecennali che si comprano di fatto la vita del cliente, tra i sorrisi dei funzionari gentilissimi e l’aria condizionata dell’agenzia con la macchinetta del caffè), un passo ulteriore - saltando quelli intermedi - è lo sdoganamento del Falsario.
Già la riduzione-abolizione del contante manda in soffitta le vecchie stamperie di banconote false (la «nobile arte» del falsario tradizionale). Il vero colpo di genio è però l’invenzione delle criptovalute: fabbriche autorizzate e planetarie di denaro fittizio. Beninteso, anche buona parte del denaro «ufficiale» circolante è fittizia, per ragioni ben note agli economisti. Ma la criptovaluta non è solo cripto, è tutta fittizia. Pur non avendo alcun «aggancio» reale, il sistema controlla un ampio bacino di supporto - mediatico, retorico - che convince le masse a farne uso, promettendo guadagni strabilianti.
In fondo, è la versione ipertecnologica del venditore di elisir nelle vecchie fiere di paese, o del tiro giocato dal Gatto & la Volpe al famoso burattino nella famosa locanda. E come è sofisticato l’approccio dei «tecnici», è sofisticato, spesso, anche l’investitore, perlopiù assai meno rozzo e ingenuo di Pinocchio, sofisticatamente convinto di effettuare una speculazione ardita ma con buone probabilità di successo.
Se è vero, come scrive Friedrich Schlegel in un frammento geniale - anno 1800 - che l’essenza della modernità è la «creazione dal nulla» (l’artificio come simulazione), si potrà dire che l’essenza della tarda modernità nel suo profilo più sensibile, quello capitalistico, è la creazione del denaro dal nulla. Dove il nulla è, prima, il fattore tempo (usura), quindi (criptovalute) i circuiti digitali amministrati dai nuovi sciamani con la benedizione dei Grandi Media.
Il crollo di Ftx e del suo «creatore» Sam Bankman-Fried è soltanto la prima bollicina, poi arriveranno i fuochi artificiali. Ed è un crollo che può sorprendere solo chi è cascato nella trappola.
Qualunque operatore finanziario interpellato sulle criptovalute ne darebbe tuttavia, come si diceva, un’interpretazione meno allarmante. Si insiste a «normalizzarle», sostenendo che sono «un investimento a rischio come un altro», che «non sono vere valute ma contratti», che «il meccanismo è quello delle gare d’asta» e così via, quando siamo di fronte, con ogni evidenza, a un fenomeno del tutto nuovo: soggetti intraprendenti (come il disgraziato Bankman) che entrano in concorrenza con i circuiti finanziari ufficiali e con le valute emesse dalle banche centrali, rastrellando denaro vero (in valuta ordinaria) che non viene però esposto alle dinamiche del mercato (altrimenti sarebbero delle normali società finanziarie, banche d’affari o fondi d’investimento). Ciò significa che i profitti generati dal sistema cripto in valuta cripto sono necessariamente fittizi: non solo virtuali come il valore di Borsa di un’azienda misurato su una aspettativa di profitti futuri, ma proprio fittizi, nel senso di non avere alcun corrispettivo macroeconomico (neanche futuro). È come un Monopoli svincolato dall’economia reale, a cui venisse paradossalmente riconosciuto - dalle stesse banche centrali - uno status non più di gioco ma di sistema parallelo.
Si potrebbe dire, per guardare le cose a largo raggio, che è un fenomeno comprensibile solo nello stesso frame, nella stessa cornice, in cui ha attecchito o potrebbe attecchire Metaverso in quanto Realtà parallela (fittizia ma riconosciuta come parallela). La pubblicità che ha accompagnato il lancio, finora assai poco felice, di Metaverso, ricorda non poco la pubblicità offerta alle cripto da imprenditori vulcanici come Elon Musk, o noti personaggi dello spettacolo, o comunque in grado di influenzare la psicologia collettiva: la promessa di un gioco con guadagni reali nel secondo caso, la promessa di un gioco «immersivo» nel primo caso, come di una finzione che diventi più reale della realtà stessa. Il mondo delle criptovalute è insomma un fenomeno di spettralizzazione del sistema finanziario tradizionale, che entra in risonanza con una specie di Doppio dallo status a dir poco ambiguo, e tuttavia riconosciuto come tale. Come se un individuo cominciaasse a parlare con la propria Ombra.
Ma perché il sistema delle valute ufficiali, emesse dalle banche centrali, riconosce - sia pure in termini di concorrenza - un sistema fittizio? O anche: perché il Falsario viene sdoganato e legittimato? La risposta è probabilmente una sola: perché in questo Doppio spettrale il sistema delle valute ufficiali almeno in parte si rispecchia e ne è come ipnotizzato. Vede in quel Doppio l’immagine deformata di sé stesso nella misura in cui anche la finanza ordinaria è fittizia, e le bolle generate dal sistema parallelo non fanno altro che annunciare, minacciosamente, le bolle in cui anche il sistema finanziario cosiddetto ufficiale (e affetto però da malattia terminale) è destinato a dissolversi.
Se Ezra Pound, con la sua critica ad alzo zero del sistema finanziario, fu internato in una clinica psichiatrica come soggetto «deviante», il rinnovato interesse per il grande poeta (e saggista) americano, anche al di fuori del circuito politico di «estrema destra» in cui sembrava confinato, sembra attestare una consapevolezza sempre più diffusa di questo stato di cose (una raccolta di saggi di Pound è uscita di recente da Neri Pozza). La sensazione - se non altro - è che Pound avesse indicato la direzione giusta, e che la malattia mentale stia dalla parte opposta: quella del Potere finanziario di matrice anglosassone. In palese affanno, e lanciato in una lotta all’ultimo sangue per la propria sopravvivenza.
Che la doppia ecatombe di Hiroshima e Nagasaki non sia stata ancora riconosciuta come un «crimine contro l’umanità» è certamente scandaloso, e conferma una volta di più la vecchia logica della Storia scritta dai vincitori. Converrebbe, tuttavia, fare un passo indietro, e prendere atto che la nozione stessa di «crimine contro l’umanità», come più in generale la teoria e la retorica dei «diritti umani», è espressione della cultura universalista e omologante nata dalla Rivoluzione francese (e americana). Di quella cultura tuttora egemone che ha meritato al Novecento le definizione di «secolo americano» (Geminello Alvi).
La nozione di «crimine contro l’umanità» è, insomma, un prodotto tipico dell’ideologia liberale, comparso per la prima volta nel 1915 in riferimento al genocidio armeno ed è, a esaminarla da vicino, un monstrum giuridico e un arrogante paradosso concettuale. Propugnarne l’estensione ad altri massacri e tragedie (Dresda, Hiroshima, Nagasaki) significa accettare a priori la logica o, meglio, l’ideologia che l’ha imposta: sarebbe come criticare la politica pseudo-umanitaria dell’Unesco e propugnare poi l’inclusione di nuovi siti nel famoso Patrimonio dell’umanità, che catalogando e «tutelando» i tesori del pianeta lavora ormai da decenni per la vecchia utopia dello «Stato mondiale».
Si tratta, dunque, di esaminarla da vicino e di «decostruirla», sconfinando - è inevitabile - sul terreno teorico-filosofico. Per riprendere una celebre massima di Pierre-Joseph Proudhon, già ripresa a suo tempo da Carl Schmitt e rievocata da Danilo Zolo in un prezioso contributo di ormai vent’anni fa, «chi dice umanità, sta cercando di ingannarti».
Nel lessico ordinario, ogni «crimine» comporta un responsabile e una vittima, dove entrambi, l’autore e la vittima, possono essere soggetti collettivi. Nel caso, diventato paradigmatico, della Shoah, l’autore del crimine-genocidio è ovviamente l’intero regime hitleriano, mentre la vittima è l’intero popolo ebraico in quanto tale (oltre a gruppi minoritari come zingari e omosessuali, destinati anch’essi in quanto gruppi alla Ausrottung: a essere «estirpati» come erbacce infestanti il puro terreno ariano). Sulle dimensioni del genocidio c’è ormai poco da discutere, e non è questo il punto.
Trasformare con la bacchetta magica il crimine-genocidio (armeno, Shoah, Hiroshima-Nagasaki) in un «crimine contro l’umanità» è, invece, una strana operazione dalla fisionomia ambivalente: nel momento stesso in cui si vorrebbe enfatizzare la gravità del crimine, estendendolo in qualche modo all’umanità intera (come «vittima indiretta»), in quello stesso momento l’operazione sostituisce alla vittima reale una vittima in certo senso immaginaria o astratta, dai contorni amplissimi e sfocati.
Ma c’è di più. Questa operazione in certo modo sostitutiva, che non sembra avere precedenti nella storia del diritto, ne ha in realtà uno formidabile in tutt’altro ambito: nella teologia. Ed è perciò un caso singolarissimo di «teologia politica», di transfert dal teologico al politico. Il precedente specifico è infatti la nozione religiosa di «peccato», inteso, secondo la definizione della dottrina cattolica, come un’«offesa a Dio». Non nel senso ovvio della bestemmia che ha il nome di Dio come bersaglio diretto, ma nel senso che ogni peccato, a cominciare da quelli commessi ai danni di altri individui umani come la violenza, il furto, la menzogna, il raggiro, coinvolge sempre Dio indirettamente, come «vittima seconda» (e come vittima primaria nell’ordine etico-metafisico).
L’analogia è vistosa: in entrambi i casi - il peccato e il «crimine contro l’umanità» - alla vittima immediata e concreta si sovrappone un Soggetto che è giocoforza scrivere con la maiuscola, perché viene chiamato in causa in nome della sua ubiquità, della sua misteriosa immanenza alle azioni umane.
Questo soggetto è Dio, o quel surrogato di Dio che diventa l’Umanità nell’ideologia secolarizzata dei «crimini contro l’umanità». Se dal punto di vista teologico questa estensione è evidentemente un abuso, anzi una parodia, perché sostituisce il Dio della fede religiosa con l’Umanità come dio mortale e in sostanza la divinizza, dal punto di vista del diritto introduce surrettiziamente un paradigma teologico (l’Umanità come nuovo dio) di cui gli stessi giuristi sembrano essere in larga misura inconsapevoli. Come lo sono i teologi e gli ecclesiastici, sostenitori perlopiù entusiasti e ignari della nuova ideologia «dirittista».
Capire che cosa è realmente in gioco in questa doppia ignoranza (l’ignoranza, da parte dei teologi come dei giuristi, della portata pseudo-teologica dell’operazione), e che cosa è realmente in gioco nell’idea, per fortuna ancora fantagiuridica, di un «Tribunale dell’Umanità», è il vero cuore del problema.





