2023-01-27
Dalla crisi energetica agli equilibri Nato: così Berlino ha ceduto ai ricatti americani
Olaf Scholz (Getty Images)
Per indurre Olaf Scholz a spedire armi a Kiev, Washington ha inviato un segnale chiaro: la Germania non può avere interessi propri.In una celebre vignetta uscita sul New Yorker quasi 50 anni fa (era il 1986), Saul Steinberg raffigurava ironicamente «il mondo visto da Manhattan», anzi da una strada di Manhattan, la 9th Avenue. Da quello che era o si riteneva allora il centro del mondo, tutto quello che non era New York si rimpiccioliva in modo risibile, in uno scorcio prospettico deformante, come in un cannocchiale rovesciato. Che quasi 50 anni dopo New York sia ancora il centro del mondo è discutibile, certo è che le pagine del New York Times rappresentano, si direbbe autorevolmente, un punto di vista che rimane «imperiale», benché di un impero in palese declino e aggrappato con religiosa determinazione alla propria pericolante egemonia. Un articolo recentissimo del quotidiano newyorkese, firmato da Steven Erlanger ed Erika Solomon, affronta ora la «questione tedesca», o meglio il ruolo in effetti amletico della Germania nella guerra ucraina, prendendo lo spunto dalla nota esitazione del cancelliere, Olaf Scholz, nell’inviare in Ucraina i modernissimi carri armati Leopard 2 (come richiesto a gran voce dai comandi americani della Nato). Non può non tornare alla mente la vignetta di Steinberg: l’articolo è infatti un vero capolavoro di stile imperiale, mascherato da sagge considerazioni sulla storia tedesca e sulle «tare» psicologiche da cui la Germania non riuscirebbe a liberarsi. La riluttanza dell’opinione pubblica (e della stessa leadership, tra verdi e socialdemocratici) a un impegno militare più diretto in Ucraina ha le sue radici, secondo il New York Times, nella memoria storica della Germania: i tedeschi associano quasi d’istinto l’Ucraina all’invasione hitleriana del 1941, ai milioni di russi e di ucraini uccisi dalla Wehrmacht (il Piano Himmler prevedeva la deportazione in Siberia del 65% della popolazione ucraina), e non vuole saperne di un nuovo impegno militare, diremmo noi, «sul luogo del delitto». Gli stessi nomi ucraini - a cominciare dal famigerato complesso di Azovstal, espugnato dai russi - suonano troppo familiari ai tedeschi, a cominciare dal fatto che furono proprio le divisioni hitleriane a occupare Azovstal durante l’Operazione Barbarossa. Di qui l’istintivo rifiuto. E fin qui l’analisi non sorprende, è una cauta e ragionevole concessione al pacifismo tedesco, bandiera della Berliner Republik e alle sue ragioni storiche. Ma i tempi, prosegue l’editoriale, sono cambiati, la Germania deve dimenticare il proprio passato, o meglio ricordare che lo stesso nazismo fu sconfitto con le armi e non con i negoziati diplomatici. Che il pacifismo «non paga». E assumersi «la responsabilità di difendere un’Ucraina libera e sovrana», preparando «una più larga risposta europea per mettere fine alla criminale guerra terroristica di Vladimir Putin» (citazione da Timothy Garton Ash, noto saggista britannico di area liberal, professore di studi europei all’università di Oxford: ma qui non fa differenza, Oxford o Harvard «per me pari sono», l’anglosfera è compatta come un sol uomo). Sgombrato il campo dalle valutazioni psico-storiche l’analisi si fa aggressiva, e il tono cede ai cliché della più scontata propaganda. Il New York Times non sembra sfiorato dall’idea che possano esserci degli interessi tedeschi, nazionali, in eventuale conflitto con l’interesse imperiale. La Germania vista da New York (o da Washington) non può avere interessi propri, si direbbe, non ne ha il diritto, come nessun alleato d’altronde; e se li ha (nuova citazione di Garton Ash), la volontà tedesca di mantenere buoni rapporti con Mosca viene liquidata con sarcasmo, come una «fissazione». Quanto agli interessi ovviamente buoni e giusti che muovono l’America a una guerra buona e giusta (mandando avanti gli alleati), l’articolo intona una canzone noiosamente simile a un disco rotto: il richiamo al nazismo vinto con le armi equipara di fatto Putin ad Adolf Hitler, secondo un copione ormai logoro, e l’invasione russa dell’Ucraina a una «criminale guerra terroristica». Dove tutti gli antefatti, gli otto anni di provocazioni dal 2014 al 2022, scompaiono per incanto: la metodica penetrazione angloamericana in Ucraina, il sostegno militare e batteriologico-militare, il colpo di Stato mascherato di piazza Maidan, l’ascesa pilotata del burattino Volodymyr Zelensky, la minaccia di incorporare l’Ucraina nella Nato portando missili ipersonici alle porte di Mosca. Per finire con il sabotaggio (criminale) del Nord Stream 2: avvertimento in stile mafioso alla Germania su come si comporta un alleato fedele (ma si sa, il New York Times finisce nei salotti buoni di Manhattan e delle Capitali occidentali, nelle acque del Baltico si parla un altro linguaggio, più esplicito). Insomma: Scholz deve rompere gli indugi e «portarsi dietro» l’elettorato riluttante. Rilutti pure, l’America vuole altro. E il tono aggressivo-imperiale non può che sfociare in aperta minaccia: se i tedeschi si rifiutassero di fare la propria parte nella guerra «americana» in Ucraina, sarebbe «disastroso per la reputazione tedesca, e ridurrebbe in modo grave la fiducia nella Germania come alleato Nato». E si capisce, il padrone sa usare il bastone e la carota: ma con i tedeschi è già pronto il bastone (e si direbbe che lo è fin dall’inizio, anzi fin da prima, con una Germania che gli Usa sognano dissanguata dalla politica delle sanzioni insieme agli altri alleati europei, Italia in primis). A quanto risulta dalle notizie più fresche, Scholz romperà gli indugi, confermando quello che già era noto: che il governo-fantoccio di Berlino teme la propria opinione pubblica ma è pronto a inchinarsi al padrone. A meno che la protesta popolare non lo travolga, e sarà difficile.
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